Il punto più bello della partita si è giocato quando Carlos Alcaraz stava difendendo la palla del doppio break nel quarto set, la palla che lo avrebbe sicuramente condannato alla sconfitta. Lo scambio dura 33 colpi in cui Alcaraz spinge da fondo come se stesse menando qualcuno. Djokovic corre e assorbe, in questo lavoro di pazienza e ricucitura che ha qualcosa di artigianale. Poi cede, all’improvviso, crolla, sbaglia il dritto di metri, si piega su se stesso. È ancora in grande vantaggio ma sono questi i punti per cui il suo avversario vive, che possono riesumarlo da qualsiasi sepolcro.
Djokovic sa che non si scherza col fuoco, e Alcaraz è il fuoco in persona.
Dentro la pura sofferenza ha resistito e trovato una sua peculiare centratura - forse quando non gli arriva il sangue al cervello gioca meglio. Più semplicemente, correre gli scioglie i muscoli, come se per il resto giocasse imbrigliato in una perenne contrattura. Come se tutto il suo talento, e tutta la sua forza fisica, formassero una congestione al centro del suo gioco. Un nodo come quello che ci si forma in qualche punto della schiena, bloccando tutto.
Il nodo sembra sciolto. Al cambio campo, sotto 4-3, Alcaraz mostra i denti e il pugno verso il suo angolo, dove uomini in tuta si alzano esultare, tutti con poca sincerità; non esultano ma fanno la recita di un’esultanza. Che strane cose ci mostra il tennis professionistico: questo ragazzo talentuosissimo che sembra auto-indursi una specie di dissociazione mentale per giocare meglio a tennis. Canta e balla con le cuffie prima delle partite, o prova il suo swing, e si ripete «sono un toro» durante queste partite.
Il game successivo, quello in cui deve portarsi a un game dal match, è il momento dei dubbi per Djokovic. Il momento in cui avrebbe dovuto combattere la stanchezza e la tensione: avrebbe mantenuto il sangue freddo, al servizio; sarebbe riuscito ad appuntire tutte le energie per tirare prime precise e in grado di respingere l'assalto? Non poteva permettersi un quinto set. Era già un miracolo essere in piedi, a quel punto.
Nole si prende tutto il tempo, respira, respira, palleggia, respira. La prima non entra, lo scambio comincia, e Alcaraz schiaffeggia la palla con tutta la violenza che ha in corpo, e che sembra venire da una parte molto profonda di lui. Comincia a colpire dentro una realtà aumentata: è ufficialmente iniziata la mareggiata. La partita diventa pesante, i tiri suonano sordi come colpi di bastone sulla schiena. I corpi dei tennisti si muovono verso la palla assaltandola, mettendoci sopra chili e chili di peso, stirando la loro tecnica all'estremo. Alcaraz tira un vincente di rovescio che lascia fermo Nole; tira un dritto che lascia, di nuovo, fermo Nole. Poi sbaglia un dritto da sinistra di così tanto che la pallina quasi esce dallo stadio. Djokovic si prende un minuto tra un servizio e l’altro per far passare l’infiammazione.
Proprio mentre la partita sembra una sfida tra bestie infernali alte come palazzi in mezzo a un inferno di lava e scintille, Alcaraz tira un back a cazzo di cane. Un back stupido e insulso che arriva a malapena a rete, tocca il nastro, e cade triste nel proprio campo. Come se tutto il suo meccanismo psicofisico andasse all’improvviso in panne, sovraccarico di stimoli e tensioni. Dopo questo punto stupido, come una sonora scureggia tirata nel bel mezzo di un’aria wagneriana, Alcaraz si sgonfia tutto, manca delle palle break e, poco dopo, perde la partita.
Ne abbiamo citato uno, ne avremmo potuti citare 50, di questi colpi estemporanei mal pensati e mal eseguiti da Alcaraz, che ha giocato la sua partita come in preda a un incubo, assecondando piccole bolle d’aria che gli scoppiavano nel cervello. La fine del quarto set è stato il momento più bello di una partita che, per il resto, non è stata all’altezza di altri confronti tra i due, almeno se guardiamo alla qualità del tennis. A meno che non consideriate bello lo spettacolo di un anziano saggio che schiva, con maestria, la potenza futile e senza scopo di un giovane pieno di energie ma debole di pensiero.
E così Djokovic raggiunge la sua cinquantesima semifinale Slam. Ci riesce vincendo una partita in cui tutti lo davano per spacciato. Perché veniva da un’annata minore, perché era sembrato in difficoltà contro i migliori giocatori, perché sembrava fisicamente consumato. Certo, il torneo lo aveva mostrato, finora, centrato e sicuro. In buonissima forma fisica. Però aveva giocato contro questi cechi carini ma così poco battaglieri: non erano veramente un test, per lui.
Allora lui aveva cercato tensione fuori dal campo, alzando come sempre i toni il più possibile. Prima del torneo aveva raccontato di essere stato avvelenato, nel 2022, mentre era in stato di detenzione in Australia; poi si è messo a celebrare Danielle Collins, che in teoria aveva espresso valori antitetici a quelli che lui sponsorizza (aveva ringraziato il pubblico per avergli pagato la sua vacanza a cinque stelle). Infine si era messo a litigare con Canale 9, la rete australiana che trasmette il torneo. Ha rifiutato un’intervista a fine partita con Jim Courier, spiegando che pretendeva delle scuse dall’emittente, visto che un suo giornalista aveva preso in giro lui e dei tifosi serbi. Era uno scherzo, erano delle battute, dal suo punto di vista. Non da quello di Nole. Incassate le scuse è sceso in campo, ma Alcaraz arrivava tutto tirato. La canottiera mostrava muscoli ancora più esplosivi, un gioco più piatto e ancora più aggressivo. Se il tennis accelera, allora Alcaraz provava a sgasare ancora di più.
Ha giocato un grande primo set, al massimo della velocità. Nole aveva resistito, ma sul 4-4 Carlitos aveva tirato fuori tutta l’argenteria. Come in questo scambio, in cui disegna il campo col dritto a varie altezze e velocità, gioca traiettorie lunghe e cariche, e poi le strozza con una palla corta, uncina l’avversario con un dritto col corpo all’indietro. Un tennista da videogioco.
Quando Djokovic ha chiesto il medical timeout, sotto 5-4, sembrava oggettivamente finita e dobbiamo ammetterlo: in tanti abbiamo pensato a un trucchetto per prendere tempo e rallentare Alcaraz. Invece Djokovic è tornato infortunato per davvero. Una vistosa fasciatura è spuntata sulla sua coscia sinistra, e i suoi movimenti verso destra si sono fatti farraginosi. Basta un piccolo sassolino per ingolfare il motore di queste macchine d'alta ingegneria che sono i tennisti professionisti.
Sotto di un set, da sano, le chance di battere Alcaraz sono poche. Da infortunato siamo nel campo dell’impossibile.
Djokovic gioca il secondo set infortunato, e lo vince, non è chiaro come. Si potrebbero dire molte cose razionali, certo. Muovendosi a fatica ha cercato di tirare ogni palla a disposizione. Ha aumentato di dieci chilometri orari la velocità media sia del dritto che del rovescio. Ha provato a tenere gli scambi corti e veloci: lo deve sempre fare con Alcaraz, ma a quel punto doveva farlo ancora di più. Ma questo non basterebbe a spiegare questo set, il più ipnotico fra i quattro. Forse si può mettere in termini ancora più immediati. Servendo sotto 5-4, Alcaraz ha iniziato a dubitare. Ha iniziato ad avvertire il vuoto d’aria, il precipizio, come quando si sta su una cima e si guarda sotto e si realizza che solo un passo ci divide dalla catastrofe. Come attirato da questo vuoto, dalla sua energia nera, di morte, si è fatto strappare il servizio e si è trovato all'improvviso sull'1-1, in una partita quindi 2 su 3. Djokovic ha poi detto che forse si sarebbe ritirato, se non avesse vinto quel set (Alcaraz, da parte sua, dubita, ma ammette che è lì che ha perso il match: non spingendo Djokovic verso i suoi limiti).
Gli anti-infiammatori - o qualsiasi farmaco abbia preso per contrastare l’infortunio - hanno iniziato a fare effetto. Djokovic ha iniziato a muoversi meglio, e Alcaraz nel frattempo era sempre più in confusione. «Mi sono accorto che lui guardava più a quello che facevo io, che non a quello che doveva fare lui», ha spiegato Djokovic dopo la partita. Contro un avversario che si muoveva male, Alcaraz ha continuato a non farlo muovere più di tanto, accettando uno scambio veloce ma centrale. Sulla diagonale di rovescio non ha trovato soluzioni. In risposta non ha trovato soluzioni; specie contro il servizio a uscire da destra di Djokovic, non rispondeva mai, era sempre sorpreso, come se fosse vittima di un bug, di qualcosa che non poteva controllare del tutto. Poi si arrabbiava, come gli uomini scemi e muscolosi si arrabbiano nei cartoni animati. Tra secondo e terzo set ha vinto pochissimi punti in risposta, con percentuali attorno al 30%.
Il set point del terzo è un punto da highlights, in cui Djokovic sblocca uno dei suoi serbatoi di riserva che tiene per i momenti speciali. Viene sorpreso da un lob di Alcaraz, al punto che non sembra nemmeno volerci andare, sulla palla. Poi la spara, più in alto che può, nel cielo della notte australiana. Alcaraz ha paura, rinuncia allo smash a rimbalzo, ormai è nella tela mentale del suo avversario. Il passante di rovescio che gioca Nole è una roba incredibile.
Alcaraz si siede e ride. Poi prende in giro Djokovic, ne mima il malessere, finge di zoppicare e rivela quindi ancor di più la sua confusione mentale. Inoltre, non è mai una buona idea offrire a Djokovic un altro motivo per vincere una partita.
Alcaraz ti fa sospettare che dalle sconfitte non si impari nulla, che si può rimanere perfettamente immobili nei propri difetti. Il suo gioco tecnicamente si muove. Il rovescio, in cui ha cambiato il movimento di preparazione, sembra più veloce e compatto; la prima di servizio più veloce. Fisicamente è sempre più tirato. Eppure quando le partite si impaludano e il tennis diventa una faccenda più complessa, sembra non poter sostenere il sovraccarico mentale. Se non può sciogliersi, rilassarsi, giocare d’istinto, sul filo dei sensi, se il tennis diventa un reticolo che lo ingabbia e lo costringe a pensare, per lui è una tortura. Trovare un equilibrio tra istinto e cerebralità è la grande sfida di Alcaraz e Juan Carlos Ferrero, che dal suo angolo a volte pare volerlo telecomandare. Il tennis, però, resta uno sport solitario e situazionale: ogni scambio ha un suo microcosmo e i tempi di reazione sono brevi. La tattica va assorbita a un livello profondo altrimenti dell’indicazione di venti secondi prima del tuo allenatore in tribuna te ne fai poco.
È un tennista difficile da commentare. Per molti aspetti, è lo stesso di tre anni fa; ma nel frattempo ha vinto tre Slam e una medaglia olimpica. Forse guardiamo dalla parte sbagliata: forse, per Alcaraz, va semplicemente bene così.
Di certo quando il gioco diventa mentale, nessuno è meglio di Djokovic. Il suo tennis nasce dalla testa, scrivevamo tre anni fa, e mentre le possibilità del suo corpo continuano a ridursi il peso del suo genio diventa sempre più grande. Lo avevamo visto già a Parigi, e lo abbiamo visto in questa partita. Guardando la realtà dei fatti, non poteva competere con Carlos Alcaraz, ma con le sue abilità telecinetiche è riuscito a creare una realtà in cui Alcaraz era confuso, pieno di dubbi e con un pensiero pesante nel retro della sua testa: non si può battere Novak Djokovic sulla Rod Laver Arena di Melbourne.