Oggi iniziano gli Australian Open, il primo Slam della stagione tennistica, uno dei quattro tornei più grandi dell’anno. Eppure nelle ultime due settimane non si è parlato di tennis, ma di: visti, vaccini, certificati dei testi antigenici e molecolari e i loro QR collegati; si è parlato di stanze di albergo che in realtà sono lager, di conflitti diplomatici e governativi. Di complotti immaginari e scarafaggi reali, politiche migratorie ed etica sportiva. Si è parlato di Spartaco, Gesù Cristo, libero arbitrio, tribunali, corruzione, ma no: non si è parlato di tennis.
Non si è parlato di tennis ma al giorno d’oggi parlare di politica è parlare di sport. I due mondi sono intrecciati in modo indissolubile, e quando c’è Novak Djokovic di mezzo quell’intreccio, che di solito esiste lontano dai nostri occhi, diventa manifesto, spesso con tinte spettacolari.
Venerdì il governo australiano ha revocato il visto a Novak Djokovic cinque giorni dopo che il tribunale aveva accettato il ricorso dei suoi avvocati, nell’ennesimo plot twist torbido di questa vicenda. Djokovic ha fatto ricorso in appello, ma domenica la corte ha confermato la decisione del ministro dell’immigrazione. Oggi lo abbiamo visto andar via dentro una macchina, sguardo rassegnato e mascherina. È arrivato all’aeroporto di Melbourne e si è infilato su un volo partito alle 22.39 per Dubai. Mentre partiva si continuava a parlare di lui, con l’indignazione dei serbi e di tutti quelli che hanno visto in lui un simbolo di libertà; col sollievo sprezzante di chi considerava inaccettabile la sua presenza in Australia.
Murales dedicato a Djokovic sulla facciata di un palazzo di Belgrado. Foto di Andrej Isakovic/AFP via Getty Images.
Vale la pena ripercorrere le tappe principali di questa vicenda, a partire da dove ci eravamo lasciati.
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Il 4 gennaio Novak Djokovic ha pubblicato una foto di lui sorridente in partenza per Melbourne. Dopo mesi di discussioni sulla possibilità che giocasse o meno, da presumibilmente non vaccinato in un torneo con l’obbligo vaccinale, infine stava partendo. Viene fuori che ha un’esenzione medica: una possibilità prevista dal regolamento nella forma, ma che nei fatti è complicata da accettare dall’opinione pubblica.
La vicenda, a quel punto, sembrava questa: la storia dell’esercizio di un privilegio da parte di un giocatore con un immenso potere politico ed economico, e che ha sempre mostrato poco scrupolo nell’utilizzarlo. Se l’esenzione è infatti prevista dal regolamento, era impossibile - per le posizioni anti-vacciniste assunte da Djokovic in passato, unite al rigore di uno stato come l’Australia - non leggerla come un abuso di potere. Per l’Australia pareva un modo per avere nel torneo il miglior tennista al mondo grazie a un certificato medico. L’esenzione era stata concessa da Tennis Australia, ma anche dallo stato di Victoria, con motivazioni fino a quel momento sconosciute. In questo scenario già complicato va aggiunto che a maggio in Australia si terranno le elezioni federali, e mentre il primo ministro australiano, Scott Morrison, è del partito liberale, il premier dello stato di Victoria, Daniel Andrews, è del partito labourista.
La reazione mediatica è stata violenta, e forse più violenta di quanto l’Australia poteva immaginare. In un’epoca in cui il rumore mediatico è quasi più importante delle leggi, il governo federale si è trovato nella posizione di dover decidere cosa fare con una grande pressione attorno. Grazie a leggi migratorie stringenti, aveva il potere di respingere Djokovic alla frontiera, andando contro la decisione di Tennis Australia e dello stato di Victoria. Da quel momento le cose hanno preso una piega selvaggia.
Una volta atterrato a Melbourne, Djokovic è stato infilato in una stanza in attesa di giudizio sul suo visto. Stando alle parole del padre Srdjan, a Djokovic è stato tolto il telefono e non gli è stato permesso di parlare con nessun membro del suo staff. L’ABF ha smentito che il serbo non avesse il telefono a disposizione. In questa stanza, comunque, Djokovic è stato tenuto per più di cinque ore. In queste ore è stato a lungo interrogato sulla situazione del suo visto, che infine è stato considerato non idoneo. Mentre si espletavano le pratiche burocratiche, il caso ha assunto una portata internazionale sempre più vasta e la burocrazia, come spesso succede, è diventata una pratica al servizio di interessi più grandi.
L’impressione è che, trovatosi sotto pressione, il governo federale australiano ne abbia approfittato per sfruttare la situazione a proprio vantaggio e dare una dimostrazione di forza, preziosa soprattutto per il premier Scott Morrison, che di questi tempi sta vivendo una crisi di popolarità nei sondaggi, soprattutto per la cattiva gestione della pandemia. Respingere Djokovic alla frontiera e trattenerlo per ore in una stanza è stato uno spettacolo della forza muscolare repressiva del governo, fatta sul corpo di uno dei migliori sportivi al mondo. Un personaggio, quindi, esposto anche al ludibrio pubblico. Morrison ha presto costruito il proprio scudo di retorica: «Nessuno è sopra le regole. Le nostre rigide politiche di frontiera sono state fondamentali per permettere all’Australia di avere una delle percentuali minori di morti da Covid-19 al mondo, stiamo continuando a restare vigili».
Djokovic non ha fatto niente per ridimensionare i toni attorno a lui, che non facevano che alzarsi di ora in ora. Il padre, non certo noto per le sue doti diplomatiche, ha cercato subito di universalizzare il problema: «Questa non è solo una battaglia di Novak ma del mondo libero intero. Se non lo lasciano andare entro mezz’ora scenderemo in strada, questa è una lotta di tutti». Ma non erano solo le chiacchiere di un pazzo, visto che è seguito l’intervento del presidente serbo Aleksandar Vučić, che ha rassicurato tutti di aver parlato col corpo diplomatico del paese per «mettere fine alle molestie del miglior tennista al mondo».
Djokovic a quel punto non si è arreso a farsi deportare in Serbia, e ha fatto ricorso. Un’azione per esempio evitata da Renata Voracova, che aveva problemi col visto e che ha raccontato di un interrogatorio violento e umiliante. In attesa di giudizio è stato infilato nel famigerato Park Hotel. Una struttura ricettiva in cui vengono trattenuti, spesso a tempo indeterminato, i migranti respinti alle frontiere che attendono un verdetto definitivo. È una specie di limbo dantesco in cui le persone restano intrappolate, in condizioni degradanti, anche per anni. Davanti all’edificio in mattoncini rossi, stazionano sempre un paio di guardie abbondantemente armate. Davanti a loro hanno cominciato ad apparire strani manifestanti con le bandiere serbe indossate come mantelli, la loro intenzione era di mostrare il proprio supporto a Djokovic. Come sempre, il dibattito si è atomizzato. Accanto a loro sono comparsi altri manifestanti che hanno provato ad approfittare del caos per sottolineare le condizioni dei migranti imprigionati al Park Hotel. Uno striscione, che ha circolato anche molto su internet, sintetizzava lo spirito: «Fanculo Djokovic, liberate i migranti». Nel frattempo davanti al parlamento serbo a Belgrado centinaia di persone si sono radunate per chiedere la liberazione di Djokovic. Davanti a loro Srdjan, cappellino rosso e megafono in mano, diceva che le autorità volevano metterlo in prigione, creando un’associazione diretta fra suo figlio e la Serbia: «Vogliono metterlo in ginocchio, ma non ce la faranno; vogliono mettere la Serbia in ginocchio, ma non ce la faranno». Dopodiché ha detto esplicitamente che la sua salvezza sarebbe stata la salvezza della Serbia.
L’incredibile situazione ha avuto l’effetto positivo di fare luce sulla violenza delle politiche migratorie australiane e sulle condizioni dei migranti all’interno del Park Hotel. La differenza tra Djokovic e la maggioranza dei migranti, è che lui ha potuto permettersi un avvocato. Mehdi Ali, iraniano, è rinchiuso nella struttura da nove anni, è arrivato ragazzino ed è diventato uomo. Oggi ha 23 anni e dice di non aver mai visto così tanti giornalisti e telecamere. La cosa lo ha deluso. Intervistato dal Guardian un paio di mesi fa, ha raccontato che il tempo «può spezzarti il cuore». Ha visto compagni picchiati e detenuti senza alcuna causa, se non quella di aver provato a entrare nel paese senza permesso. Ha fallito nel tentativo di suicidarsi, e ha visto invece compagni farcela, mentre prendevano fuoco. In quei giorni Mehdi Ali ha twittato: «Sono sicuro che una volta fuori Novak Djokovic parlerà della nostra situazione».
Naturalmente, Djokovic non lo ha fatto. L’attenzione portata sulle condizioni dei migranti ha avuto a che fare con lui solo indirettamente. La sua famiglia ha indetto una conferenza stampa, in cui la madre si è lamentata degli scarafaggi nella stanza e dell’assenza di «pasti decenti». Mentre era al Park Hotel da Nole sono filtrate solo poche parole: «Siamo bloccati nella stanza, non c’è aria fresca. Non abbiamo un posto per allenarci, non c’è una palestra. È davvero dura».
Prendersi il Covid a dicembre
Prima di lunedì è filtrata alla stampa la tesi della sua difesa. Djokovic avrebbe diritto a entrare in Australia, e a partecipare agli Australian Open da non vaccinato, perché ha contratto il Covid-19 di recente. Una notizia sorprendente, visto che Djokovic è un personaggio pubblico, un atleta, e di questi tempi è difficile che uno sportivo del suo livello contragga il virus senza che tutto il mondo lo sappia. Sapevamo per certo che Djokovic aveva contratto il virus a giugno 2020, quando aveva organizzato un torneo rapidamente trasformatosi in un focolaio di Covid-19, l’Adria Tour. Ma da quel momento nessuno è venuto a conoscenza di altri contagi, all’interno di un calendario tennistico negli ultimi mesi piuttosto congestionato.
Si vocifera che Djokovic potrebbe aver avuto la Covid-19 a metà dicembre, ma nel caso fosse: basterebbe di per sé a ottenere l’esenzione? Almeno provando a leggere i documenti ufficiali circolati, l’esenzione è prevista se un’infezione da Covid-19 negli ultimi sei mesi ha impedito di completare il ciclo vaccinale. Non è il caso di un giocatore che non ha ricevuto nemmeno una dose di vaccino.
In ogni caso il giudice considera il respingimento inaccettabile, e il visto di Djokovic viene confermato. La motivazione ufficiale è che c’è un vizio di forma nella proceduta di respingimento alla frontiera. In questa storia è come se nessuno riuscisse davvero a parlare delle cose per come sono, nascondendosi dietro una sequenza interminabile di opacità burocratiche.
Due giorni dopo la sentenza Djokovic pubblica una gallery su Instagram in cui spiega tutto quello che era successo a metà dicembre, dal suo punto di vista.
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Djokovic sostiene di aver effettuato un tampone molecolare il 16 dicembre, due giorni dopo essere entrato in contatto con delle persone positive durante una partita di basket a cui ha assistito. Dice che per «eccesso di sicurezza» ha effettuato anche un test antigenico lo stesso giorno, risultato negativo; e di averne fatto un altro il 17, risultando ancora negativo. Visto che continuava a risultare negativo non aveva motivi per non continuare la sua normale vita di cittadino e ambasciatore dello sport. Il 17 ha presenziato a un evento pubblico pieno di bambini a Belgrado, senza mascherina. Il 18 ha ricevuto l’esito del tampone molecolare: positivo.
Quel giorno aveva fissata un’intervista e uno shoot fotografico con l’Equipe. Era positivo, ma era anche un impegno che si era preso, come poteva deludere il giornalista? Ha detto Djokovic a posteriori, cedendo a una comicità involontaria. «Ma mi sono assicurato di mantenere la distanza di sicurezza e tenere la mascherina» (comportamento confermato da l’Equipe). E così Djokovic ha ammesso di aver violato l’isolamento mentre sapeva di essere positivo. Diciamolo subito: un reato, punibile in Serbia fino ai tre anni di reclusione. Intervistata dalla BBC la prima ministra serba, Ana Brnabic, ha suggerito che ci potrebbero essere in effetti conseguenze per Djokovic. Lui si è concesso di ammettere di aver commesso un errore, una leggerezza. C’è un’altra discrepanza, perché sui documenti consegnati a Tennis Australia per ottenere l’esenzione Djokovic aveva detto di aver ricevuto i risultati il giorno prima (il 16, non il 17), e cioè quando ha presenziato all’evento pubblico a Belgrado.
C’è anche un altro aspetto problematico, e cioè che in quei giorni sui social Djokovic posta delle foto di un suo viaggio in Spagna, quando nella richiesta di visto consegnata all’Australia ha dichiarato di non aver viaggiato in altri paesi nei quattordici giorni precedenti all’arrivo nel continente. Djokovic ha quindi dichiarato il falso, come lo giustifica? Dice di aver compilato male il modulo. Ripeto: di aver compilato male il modulo. È un errore del tutto umano, dice, e di certo non deliberato. Probabilmente non è stato nemmeno lui a compilare il modulo, ma ha comunque mentito su un prerequisito necessario per richiedere il visto.
Da giorni si aspettava un messaggio pubblico da parte di Djokovic; anche Craig Tiley di Tennis Australia auspicava che Nole parlasse pubblicamente della situazione. Stiamo parlando di uno degli atleti più importanti della nostra epoca, che dovrebbe essere circondato da uno staff di legali e comunicatori di alto profilo. È quindi incredibile - nel senso di difficile da credere - che l’esito sia stato quello strampalato post su Instagram che fa acqua da tutte le parti. Una versione che avrebbe fatto meglio a mantenere il più possibile privata, visto che contiene letteralmente dei reati.
La soap opera a quel punto non è finita: il governo ha ancora la possibilità di ribaltare il giudizio. Di nuovo, il ministro dell’immigrazione, Alex Hawke, può decidere di revocare il visto a Djokovic e di deportarlo in Serbia. Ma quando? Il sorteggio degli Australian Open è giovedì e, senza nessuna notizia, Djokovic viene messo contro il connazionale Kecmanovic al primo turno. Il giorno dopo, venerdì, il ministro dell’immigrazione gli revoca effettivamente il visto, forse anche per complicare un eventuale nuovo appello con il weekend alle porte. Stavolta avremo una motivazione chiara? No: «Per ragioni di salute e ordine pubblico». Hawke ha dichiarato che la revoca del visto era per il pubblico interesse; ma è più interessante il comunicato del primo ministro Morrison, in particolare nel passaggio in cui dice: «Gli australiani hanno fatto grandi sacrifici durante la pandemia, e si aspettano giustamente che il risultato di questi sacrifici venga protetto».
Quello che suggerisce, è che facendo entrare Djokovic in Australia sarebbe passato un messaggio sgradevole, difficile da digerire dal paese. Un messaggio che avrebbe inasprito il sentimento no-vax. Un passaggio che si ricollega all’indiscrezione di Bloomberg di qualche giorno fa, quando Morrison ha dichiarato che Djokovic non è stato il solo a ricevere l’esenzione, ma l’unico ad averla pubblicizzata sui social. Una cosa che non gli era piaciuta. (Una critica, in fondo, inconsistente: se Djokovic parte per l’Australia, dopo mesi in cui si è discusso se sarebbe potuto partire o meno, è il minimo che lo comunichi sui social - in un post peraltro dai toni molto neutri).
Un braccio di ferro politico da cui nessuno esce bene
Dietro ai vizi di forma e alle controversie burocratiche, la vicenda è stata sin dal primo momento del tutto politica. Inizialmente Djokovic ha sfruttato il suo enorme potere per ottenere un’esenzione discutibile, ma una volta ottenuta - e mettiamolo in chiaro: non solo dall’organizzazione degli Australian Open ma anche dallo stato di Victoria, quindi da un’ente governativo australiano - aveva il diritto di giocare. Se le motivazioni portate da Djokovic erano sufficienti a ottenere l’esenzione per via della sua situazione medica, sarebbero dovute bastare anche per ottenere il visto. (A meno che qualcuno non ci dica chiaramente che no, Nole non ha aveva i requisiti per ottenerlo, al di là di qualsiasi vizio di forma). Se le cose hanno cominciato a precipitare, e a prendere una piega grottesca, è per la forzatura del governo federale australiano, che aveva sottovalutato le conseguenze di un ingresso di Djokovic nel paese.
Non stupisce quindi che le fazioni si siano divise politicamente. Da una parte i legalisti, che hanno considerato inaccettabile il tentativo di Djokovic di passare sopra alle regole dello stato che avrebbe dovuto ospitarlo in mezzo a un’emergenza pandemica; dall’altra i difensori di Djokovic, che amano sostenere la tesi del complotto e che da sempre rafforzano un’idea cristologica del tennista. Un’idea tirata in ballo direttamente dal padre Srdjan: «Gesù è stato crocifisso, ha sopportato ed è ancora vivo in mezzo a noi! Allo stesso modo, cercano di crocifiggere Novak e di metterlo in ginocchio». Djokovic il più forte nonostante tutto, guerriero serbo contro l’ipocrisia del mondo occidentale. Visto che non lo si può battere in campo, allora lo si vuole battere in tribunale: è questa la narrazione sostenuta dal padre e dai fanatici più oltranzisti di Nole. Djokovic il terzo uomo, Djokovic invincibile, distruttore della narrazione consolatoria e patinata del Fedal.
Eppure questa rimane una saga squallida, in cui è davvero difficile assumere una posizione netta senza sentirsi sporchi. È difficile prendere le parti del governo australiano, che da anni promuove politiche migratorie estreme e irrispettose dei diritti umani, e che ha sfruttato cinicamente la situazione per dare una prova di forza autoritaria sul corpo di un altro essere umano. Naturalmente è difficile anche sostenere la posizione di Djokovic, o ammantarla di significati troppo nobili. Djokovic non è né un martire né un attivista: non ha difeso i diritti di nessuno ma si è limitato a perseguire i propri interessi in modo cinico, cercando di approfittare del proprio potere per partecipare a un torneo in cui da regolamento non poteva prendere parte.
Da giorni il giornalista statunitense Ben Rothenberg posta lo stesso tweet: «Reminder periodico e importante che Djokovic avrebbe potuto evitare tutta questa tiritera semplicemente vaccinandosi come il 97% dei tennisti hanno fatto». È un punto tanto semplice quanto poco centrato. Da mesi Djokovic difende il suo diritto di non vaccinarsi e di poter comunque fare il proprio lavoro di tennista professionista. Si può non essere d’accordo, ma c’è un evidente cortocircuito - che stiamo sperimentando in parte anche nella nostra società - tra la possibilità di non vaccinarsi e l’obbligo a farlo se si vuole lavorare (e quindi esercitare uno dei diritti fondamentali dell’uomo). Djokovic quindi ha tutto il diritto di difendere e battersi per le proprie idee, solo che non lo ha fatto davvero. Mutuando lo stile provocatorio di Rothenberg, si può dire che c’era una terza via che Djokovic avrebbe potuto seguire per evitare questa tiritera mantenendo la propria integrità, e cioè boicottare il torneo. Restare a casa e fare attivismo politico contro la decisione degli Australian Open di imporre un obbligo vaccinale ai propri partecipanti. Sarebbe stato discutibile, ma coerente e di certo più nobile. Djokovic, però, non lo ha fatto: non si è battuto contro un sistema per la collettività, piuttosto ha cercato di aggirarlo per i propri interessi individuali.
Da quando è scoppiata la pandemia il conflitto tra diritti individuali e interessi collettivi sta esplodendo, nella società come nello sport. È anche per questo che la vicenda di Djokovic ha preso tanto spazio del dibattito pubblico negli ultimi giorni: è un nodo spettacolare di questo conflitto. L’obbligo vaccinale agli Australian Open è una misura discutibile, ma andava discussa prima che si arrivasse a questo punto. Una volta stabilito, l’obbligo vaccinale diventa soprattutto un patto sociale. Stefanos Tsitsipas, che in passato ha mostrato posizione anti-vacciniste, ha detto che «Chi fa di testa propria fa passare gli altri per stupidi». Ma è stato Rafael Nadal a esprimere l’opinione forse più alta: «Novak Djokovic è uno dei più grandi tennisti della storia, ma non c’è nessun tennista che può essere più grande di un torneo. I giocatori passano, i tornei restano. Se alla fine verrà deciso che può giocare, va bene. Se non giocherà gli Australian Open saranno comunque grandi anche senza di lui». Non è una posizione banale: è nobile l’idea che i tennisti abitino un apparato istituzionale e storico più grande di loro. È quell’apparato - fatto di storie, tradizioni e anche regole - che dà importanza ai tennisti, non il contrario. Una dinamica magari scontata, ma che non lo è nell’epoca dei big-3, dei tre giocatori che sono sembrati più grandi del tennis stesso. Novak Djokovic ha provato a forzare questa dinamica, a ribaltare il tavolo, ma il sistema non glielo ha permesso.
In patria la sua immagine continua a cementarsi come quella dell’uomo forte e del difensore dell’orgoglio serbo. Di orgoglio serbo ha parlato la ministra dello sport, di «trattamento inaccettabile» ha parlato il comitato olimpico del paese, del «tentato omicidio del più grande sportivo al mondo» e di «50 proiettili sparati nel petto di Novak» ha parlato il padre Srdjan. La prima ministra serba ha detto che Djokovic è stato vittima di «undici giorni di maltrattamenti fisici e psicologici».
Nel mondo occidentale invece la sua immagine ne esce demolita, e si è finito a parlare di lui con toni anche eccessivi, dimenticandosi che per la maggior parte del tempo Novak Djokovic incarna la figura del campione sportivo in modo impeccabile (senza nemmeno dover citare la filantropia, ricordate la sua disponibilità entusiasta al villaggio olimpico di Tokyo?). Per tutte queste contraddizioni, però, la figura di Novak Djokovic mantiene un fascino antagonista indiscutibile. Come i migliori villain, è difficile capire fino in fondo le motivazioni che agitano Djokovic, perché fa quello che fa. In questi mesi sta continuando a offrire spunti narrativi infiniti al teatro morale del tennis; la rincorsa al ventunesimo Slam continua ad arricchirsi di significati sempre più vasti.