Secondo l'opinione di molti, tutto ebbe inizio a New York. Era il 2008 e Novak Djokovic ai quarti di finale aveva battuto il beniamino di casa Andy Roddick. Era stata una partita indurita dalle tensioni: per tutto il torneo Djokovic aveva sofferto problemi fisici, che l’americano riteneva essere solo immaginari, al punto che nella conferenza che anticipava il match lo aveva preso in giro: «Djokovic? Sì, ha avuto 16 infortuni. Ha la Sars, l’influenza aviaria, il raffreddore, l’anthrax», tra i risolini complici dei giornalisti. Non è mai una buona idea dare a Novak un motivo supplementare per vincere una partita. Dopo la vittoria si era messo tranquillo al centro del campo, asciugamano sulle spalle, e mentre un anziano giornalista lo intervistava lui si era goduto i fischi del pubblico. Si era passato la lingua sulle guance e aveva buttato lì qualche altra provocazione: «Erano già contro di me perché pensano che io finga gli infortuni, quindi chi se ne frega». Da anni provava a convincere tutti che era una persona simpatica. Faceva imitazioni dei tennisti, era il più spigliato ai microfoni, il più brillante nelle interviste. Ma non era servito a niente.
Tre anni dopo - ovvero dieci anni fa - Djokovic è di nuovo sul ring dell’Arthur Ashe Stadium, con le pareti verticali da arena romana, e davanti a sé ha Roger Federer che serve per il match. È stata una semifinale folle: avanti due set a zero, Roger ha usato tutta la sua arte dell’auto-sabotaggio per farsi trascinare al quinto set. Lì però ha trovato, non si sa dove, un guizzo per fare il break a Djokovic e andare a servire per il match. In finale ci sarebbe Rafael Nadal e il pubblico non desidera altro. Sul 15-15 Nole sbaglia una risposta per lui semplice, sulla seconda di Federer; mentre il pubblico esulta, la rabbia è tale che Djokovic getta via il cappellino Sergio Tacchini dalla testa. Dopo un rovescio a rete, Federer ha due Championship point; il pubblico è tutto in piedi a gioire e Nole - ormai entrato in una dimensione guerriera che lo solleva quasi da terra - lancia uno sguardo che sembra riuscire a comprenderli tutti, ogni singola persona nel pubblico. Contiene tutto l’odio e il disgusto che sentiva sulla sua pelle e che vuole restituire agli altri.
È quello il momento di “The Shot”: la risposta che Nole tira con gli occhi chiusi, sparandola alla cieca all’incrocio delle righe opposto. Una risposta che incrina il piano della partita e degli equilibri del tennis. Nole vince e conferma che il suo momento di grazia non è estemporaneo: non è un intruso, è lì per restare. Nessuno manipola la psiche come lui. Ma quel colpo ha soprattutto avuto l’effetto di mandare in frantumi la stabilità mentale di Roger Federer, impazzito e rosicone come mai in conferenza stampa. Quella risposta, ancor più del suo primo Australian Open, ancor più del suo primo Wimbledon, ha segnato l’inizio dell’era del dominio mentale di Djokovic sul tennis mondiale. Una vendicativa rincorsa agli Slam di Roger Federer che si sarebbe dovuta concludere domenica sera.
Dieci anni dopo, domenica sera
Forse per scaramanzia, forse per qualche credenza olistica per cui ogni cosa nel cosmo si corrisponde, nel momento in cui Djokovic aveva quasi perso la finale contro Medvedev, ha provato a cambiarsi la maglia, come dieci anni prima aveva gettato via il cappellino. È un uomo che pensa di poter piegare la realtà col pensiero - intendo letteralmente - e spesso, oltretutto, sembra riuscirci. È sotto 4-6, 4-6, 2-5 ma nonostante un punteggio così difficile è impossibile considerare la partita finita. Djokovic è il miglior tennista al mondo a non perdere, a flirtare con la sconfitta solo per fare una strada più lunga per arrivare alla vittoria. Quella sera però non sembra lui.
La sua presenza psichica - così ammorbante in ogni partita - è flebile e il suo gioco sgretolato. Non si prende il solito tempo meditativo tra un punto e l’altro, va di fretta per rendere più breve l’agonia, serve con ancora il vociare del pubblico in sottofondo. Sbaglia palle facili e commette errori tremendi. Quando sul campo si sparge l’odore del sangue, per un piccolo calo di Medvedev, non ne approfitta col solito cinismo predatorio. Non esce dal campo per il classico toilet break dopo il set perso. Non grida, non esulta come nel film 300 (uno dei suoi preferiti). Solo un racchetta spaccata all’inizio del secondo set come fosse l’ultima racchetta spaccata della sua vita.
Sembra far fatica pure a reggersi in piedi, o a tenere in mano la pallina prima del servizio - come fosse il giogo insopportabile della sua esistenza. Cosa gli passa per la testa? Per una volta si è lasciato davvero sopraffare dal dubbio, dalla paura di fallire?
Mentre Djokovic sembra un fantasma, Medvedev continua a fare quello che fa da tutto il torneo: giocare un tennis subdolo e raffinatissimo. Se Djokovic rallenta, lui rallenta di più; se Djokovic vuole scambiare sulla diagonale di rovescio, lui si mette lì a scambiare come se volesse restarci una settimana; se Djokovic fa una palla corta, allora lui ne prova due. Gli toglie il ritmo e il respiro. Se Djokovic prova ad accelerare, cercando di andare a vedere il bluff del suo avversario, non c’è nessun bluff: Medvedev accelera ancora più forte, di dritto o di rovescio, aprendo i suoi colpi con l’enfasi sghemba che lo rende così strano e affascinante.
Avevano giocato contro nella finale del primo Slam dell’anno, e Djokovic aveva fatto distendere Medvedev sul proprio personale tavolo operatorio (il campo degli AO), smontandolo un pezzo alla volta. Stavolta il russo è pronto, e Djokovic straordinariamente arrendevole. Il freddo dominio mentale che Nole di solito infligge agli altri, stavolta lo subisce lui. Fra il secondo e il terzo set, Medvedev inizia a tirare una palla corta peggio eseguita dell’altra. Djokovic è così preso dall’incantesimo tattico del russo, che sbaglia tutti i recuperi, ritrovandosi un braccio ruvido come mai avevamo visto. Come se la dimensione cerebrale del gioco, e la sua violenza psicologica, avessero infine reso inutili tutte le altre componenti. Come se Medvedev, tolte le premesse mentali del gioco di Djokovic, lo avesse ridotto a un corpo esangue, un giocatore minimo.
Nole ha giocato una delle peggiori finali della sua vita, ma è stato Medvedev a costruire la tela che ha reso possibile un tale schianto.
Un po' di amore, finalmente
Quando Djokovic si è cambiato la maglia per la prima volta ha cercato di fermare l’emorragia psicologia di quel match. A quel punto, sul 5-2 per il russo, succede una cosa. Il pubblico, che lo ha sostenuto dall’inizio della partita, che lo voleva accompagnare per mano a prendersi il Grande Slam, ha cominciato a tifarlo di un tifo pazzo e sopra le righe. Il che, nel tennis, significa soprattutto tifare contro l’avversario. E così, mentre Daniil Medvedev, sul 40-15, serve con due Championship Point a disposizione, il pubblico comincia a fischiarlo e a gridare contro di lui, nel tentativo disperato di invertire i flussi.
Il pubblico di New York è sempre rumoroso e indisciplinato, ma fischiare un giocatore durante il servizio è troppo anche per la sua tradizione nera. Medvedev, in serata da serve-bot, commette due doppi falli e Djokovic ottiene il primo break della partita. Medvedev non è uno qualunque per quel pubblico: è quello che ha goduto dei suoi fischi qualche anno prima, che ha fatto segno di fargliene arrivare di più, «mi ricaricheranno per le prossime cinque partite». Chi è solito abbeverarsi dell'odio dello stadio? In un certo senso sembra un passaggio di consegne. Poi Nole tiene il servizio, nel frastuono di un pubblico in estasi. A quel punto Novak Djokovic ha un’epifania: per la prima volta si sente circondato dall’amore che da tutta la vita pensa di meritare.
Si va a sedere al cambio campo con la faccia sconvolta. La strofina con l’asciugamano nel tentativo di farla tornare normale, di asciugare l’emozione, ma quando l’arbitro chiama “time” si ritrova ancora trasfigurato, gli occhi lucidi e in lacrime. Gioca qualche punto in uno stato indescrivibile, il campo scosso da un’energia drammatica che appartiene solo al tennis.
Foto di Kena Betancur.
È quello, forse, il momento in cui Novak Djokovic capisce che, in confronto a quell’amore, il motivo per cui era lì - vincere una partita di tennis, vincere il ventunesimo Slam della sua vita, il quarto dell’anno, dimostrarsi il più forte contro tutto e tutti - non valeva poi granché. Il viaggio assurdo dei big-3, la rincorsa alla reciproca grandezza, il tentativo disperato di chiudere a uno Slam in più degli altri, in quel momento si è rivelato un’allucinazione.
È quello il momento in cui Novak Djokovic, per come lo conosciamo, forse smette di esistere. L’energia nervosa che lo aveva tenuto in vita è svanita, la sua redenzione compiuta.
Ora, finalmente, può concedersi il lusso di perdere.