Prima è stato Pete Sampras, Pistol Pete. Ha vinto 14 Slam e il suo traguardo pareva inavvicinabile, il frutto di una superiorità che è stata raramente elegante, ma quasi sempre brutale e violenta. Poi è arrivato Roger Federer e ci ha detto che si poteva dominare con grazia, vincere con eleganza, senza sforzo. Guardavamo Roger Federer giocare e vincere, ridurre gli avversari a un pulviscolo di inadeguatezza, e abbiamo cominciato a chiederci se non fosse, forse, il migliore che avevamo mai visto giocare. Il miglior tennista di sempre. Abbiamo voluto dare una consistenza scenica a questa sensazione.
È il 2009, conquistando Wimbledon Roger Federer supera i 14 Slam vinti da Pete Sampras. Stringe la coppa dorata col solito sorriso da red carpet, a fianco a lui, vestiti eleganti, Bjorn Borg, Rod Laver, Pete Sampras. Quattro geni di tre epoche diverse incoronano l’ultimo re della dinastia, quello che è la sintesi del loro tennis - la forza da fondo di Borg, la creatività di Laver, il gioco a rete di Sampras - e li ha superati per trofei vinti. «È il più grande di tutti i tempi?» chiedono a Sampras, e quello si prende un secondo, si porta una mano alla bocca e sottovoce dice: «Sì, secondo me sì», stando attento a non farsi sentire da Rod Laver. Poco prima avevano chiesto a Roddick, il povero finalista di giornata, se non aveva perso col miglior giocatore di sempre. Sì, risponde sventurato.
Riunendo tutti quei campioni in una stanza il tennis ci stava dando la stessa risposta. In altre parole, ci stava raccontando una storia ben precisa: Roger Federer raccoglie l’eredità dei geni del passato e porta questo sport nel futuro. È il 2009, la rivalità con Rafael Nadal è al suo apogeo, il tennis è nella sua fase di massimo splendore. Roger Federer è il suo ambasciatore: il miglior campione possibile. Quello su cui il tennis vuole riflettersi.
Tenete presente questo quadro.
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Quando Djokovic vince il suo terzo Roland Garros, il suo 23esimo Slam, superando ogni tennista maschio mai esistito, non c’è nessun grande campione a lui paragonabile a celebrarlo, a ritessere il filo per inserire quel successo in un quadro più grande, storico e mitico. Eppure quel sorpasso sembra definitivo: Federer è ormai fuori dai giochi e Nadal quasi. Non si vede all’orizzonte, per quello che possiamo immaginare, qualcuno che possa scalzarlo dal ruolo di “migliore di sempre”, almeno per i parametri che abbiamo deciso di darci.
Non è semplice capire da quando Novak Djokovic insegue quel traguardo. Chissà se è un obiettivo che ha maturato nel tempo, o se c’è stato un momento ben preciso in cui ha confezionato la folle pretesa di voler diventare il miglior tennista della storia. Il momento in cui ha convogliato ogni energia fisica e spirituale verso quel sogno. Quello che sappiamo è che Djokovic non ha inseguito quell’idea solo per sé stesso ma anche contro qualcun altro. Il conflitto ha ingrossato la sua forza, nutrito la sua competitività; contro i suoi rivali, più amati di lui, contro i media, sempre faziosi e severi nei suoi confronti - forse perché slavo. La sua è sempre stata una forza oppositiva, distruttrice più che creatrice. Sempre però alla ricerca anche di una personale idea di giustizia, applicando un'idea politica dello sportivo e della figura pubblica. Forse questo è solo il modo in cui noi abbiamo deciso di guardarlo, il ruolo che gli abbiamo cucito, certo che lui è sembrato trovarcisi a proprio agio.
Eppure al termine di questa finale del Roland Garros Djokovic non sembrava particolarmente felice, o arrabbiato. Aveva una placida soddisfazione che non gli è mai appartenuta troppo - non è uomo da emozioni tenui. Il 23 sulla maglia se l’è scritto da solo, o glielo ha scritto lo sponsor. Il Roland Garros non ha organizzato nulla di particolare per celebrarlo. In fondo quel traguardo è ancora più formidabile di quello raggiunto da Federer quasi 15 anni fa, non solo per mera statistica ma anche per la narrativa che lo circonda. Era la chiusura della corsa dei Big-3 al giocatore più vincente di sempre, il finale di una storia di vent’anni: ora avevamo un chiaro vincitore, eppure sembrava non interessare niente a nessuno.
Djokovic raccoglie la coppa da Yannick Noah, in mezzo agli applausi educati del pubblico. Il Philippe Chartrier, non è casa sua ma di Rafael Nadal, a cui probabilmente quello stadio verrà intitolato. Per molti versi è strano vedere Djokovic celebrare il suo sorpasso su di lui, nei titoli Slam, proprio lì. Secondo Matthew Futtermann sul New York Times è «l'equivalente tennistico di Djokovic che irrompe a casa di Nadal, gli svuota il frigorifero e si butta divano a guardare una maratona del “Padrino”». Anche in quest’ultimo gesto quindi ci sarebbe una provocazione, o comunque un’appropriazione di qualcosa che non gli appartiene davvero. In fondo, però, quale sarebbe casa sua? Agli US Open dove è stato quasi sempre fischiato? A Wimbledon, dove forse preferirebbero chiudere il torneo piuttosto che fargli superare Federer nel record di titoli? A Melbourne, dove ha vinto più di tutti ma dove è stato respinto al confine poco più di un anno fa?
Guardando quelle immagini di Parigi c’era una certa sensazione di anti-climax: una discesa anti-epica, anti-narrativa, anti-emotiva.
Ha vinto una finale senza grande storia, contro un avversario così per bene che a tratti sembrava felice di perdere. Il giorno dopo il Guardian scrive un articolo dal titolo eloquente: «Il 23esimo Slam di Novak Djokovic è un record - ma per favore non chiamatelo GOAT». Un tono quasi supplichevole. Le argomentazioni sono così infantili da sembrare una parodia degli hater di Nole. Frasi come: «Ma questo vantaggio fisico, al contempo, riduce la grandezza de suoi risultati» non sono solo distanti da ciò che veramente rende Djokovic speciale, ma sono semplicemente ridicole. Stiamo parlando del Guardian. Non è il solo di questi giorni, a non voler riconoscere il primato storico di Novak Djokovic; in giro si leggono un bel po’ di cortocircuiti dialettici.
Eppure sono anni che ci diciamo che quello sarebbe stato il criterio supremo per stabilire chi fosse il migliore, se non di tutti i tempi almeno dell’era Open, o quanto meno degli ultimi vent’anni di tennis (quelli in cui le superfici hanno solo leggere variazioni). I tornei dello Slam hanno sempre avuto il loro peso, ma non era mai esistita una tale ossessione per la loro accumulazione numerica. L’abbiamo sviluppata proprio negli anni di successi di Roger Federer, per dare una materializzazione numerica alla sua grandezza; per convincerci, con qualche dato oggettivo, che fosse veramente il migliore di sempre. Perché volevamo avere la sensazione di vivere in un’epoca eccezionale, e perché ci piaceva troppo come giocava e tutto quello che rappresentava. Djokovic, invece, piace a poche persone, e allora in questi giorni si cercano di impaludare le acque del dibattito. Ma cosa ci dice questo riflesso che abbiamo, di dire Sì, ha vinto più Slam di tutti, ma non è il più grande di tutti?
Non voglio nemmeno escludermi del tutto dal gruppo di chi fatica a entusiasmarsi per i termini della conversazione. Personalmente non mi appassiona il dibattito sul GOAT se si schiaccia sulla sua dimensione numerica, ma al contempo quella non si può negare. I numeri non dicono tutto, ma dicono molto. Uno, due o tre Slam di differenza tra tennisti che ne hanno vinti 20 non basta a dire che uno è migliore dell’altro. D’altra parte non possiamo arrivare al paradosso di svuotare di significato il titanico successo di Djokovic. I suoi numeri, del resto, non sono soltanto quelli dei 23 Slam. Per esempio: è l’unico dei Big-3 ad aver vinto almeno 3 volte ciascuno Slam; detiene il record di Master 1000 vinti (10) e di settimane passate al numero uno del mondo (78/79). È quello che mantiene il saldo positivo negli scontri diretti con gli altri due. Djokovic è il tennista più vincente della storia: questo non si può più negare.
In questi ultimi anni nel discorso sportivo stiamo imparando a relativizzare l’importanza del successo, o almeno stiamo iniziando a farlo. Mi pare un processo culturalmente sano e interessante. Forse fa parte di una nostra tattica di sopravvivenza, per prepararci a un’epoca più normale di quella che si sta chiudendo con gli addii di Messi, Ronaldo, Federer, Djokovic, LeBron, Bolt, eccetera eccetera.
Al contempo la vittoria resta il noumeno dello sport: la realtà verso cui tutto tende durante la competizione. La strada per raggiungerla, o anche solo per ricercarla, è complessa e sempre diversa, ed è in quella strada che lo sport spesso stratifica i significati e noi possiamo proiettare il nostro gusto verso un’atleta o l’altro. Al di là del nostro gusto, però, chi raggiunge la vittoria più spesso degli altri è capace di dirci qualcosa di molto importante sul senso dello sport (e dello sport come rappresentazione). Nessuno, nel tennis, conosce la vittoria come Novak Djokovic e sono i numeri a dimostrarlo. Federer probabilmente ha avuto un impatto su questo sport più grande: tecnicamente e culturalmente; Nadal probabilmente ha trasmesso più emozioni di lui, e la sua lezione morale, la sua inclinazione all’epica, forse ce lo rendono più vicino. Per questo è legittimo dire che Djokovic non può essere il più grande di tutti i tempi: perché lo sport è fatto di cose anche diverse dalla vittoria. Nessuno, però, sa vincere quanto Novak Djokovic, e di tutte le argomentazioni, questa è l’unica misurabile. L’unica che non si sporchi della soggettività di chi guarda. Diciamo che chi vuole negare che Novak Djokovic sia stato quanto meno della stessa grandezza dei migliori sportivi di sempre non ha più argomentazioni che non siano stupide.
Il fatto che si faccia così fatica a riconoscerlo ci dice qualcosa su Djokovic, ma forse ci dice anche qualcosa su di noi e su cosa vogliamo dallo sport.
La partita che tutti aspettavano nello scorso Roland Garros era la semifinale tra Djokovic e Alcaraz. Un contenitore di storie succulente: un duello intergenerazionale e un confronto di stili e giochi estremamente differenti - la somiglianza tra Alcaraz e Federer è meno peregrina di quanto sembri a un primo acchito, almeno a grandi linee, e l’incastro con Nole è spettacolare. Ma anche la scarsità di precedenti, e il semplice fatto che fossero i vincitori degli ultimi tre Slam. Per due set la partita ha mantenuto le aspettative ma all’inizio del terzo set una gamba di Alcaraz si è bloccata per crampi. Un colpo di sfortuna o il frutto dello sforzo nervoso che fin lì gli aveva causato giocare contro una macchina da tennis perfetta come Djokovic? Bisogna prendere per buona la seconda opzione, visto che dopo Alcaraz parlerà di “crampi di tensione”. In un certo senso è stato il suo vero capolavoro, per lui che batte i suoi avversari esplorando tutta la dimensione intangibile dello sport, fino a far sembra il suo tennis un potere occulto. Contro Alcaraz non ha avuto nemmeno bisogno di batterlo davvero: la sua forza, la sua aura, il livello medio che riesce a mantenere, ha fatto il lavoro per lui. D’altra parte è una vittoria che ha mostrato in modo iperbolico la capacità di Djokovic di svuotare d’epica le sue partite.
Questa dimensione invisibile della forza di Djokovic, questa violenza occulta, è ciò che ha contribuito a renderlo poco amato. Non ha mai avuto l’epica di Nadal, che è arrivato all’essenza del tennis tramite la sofferenza e il superamento del limite; non ha mai avuto il talento e l’eleganza di Federer, che è arrivato all’essenza del tennis mostrandoci la sua dimensione trascendente. Djokovic è il gran sacerdote della parte mentale del gioco, che però è anche quella di cui facciamo più fatica ad avere contezza, e di cui invece cogliamo sottilmente la violenza. Il modo in cui spesso lascia ai suoi avversari il controllo delle partite, gli permette di arrivare sul limite della vittoria, per poi vincere lui per qualche ragione non sembra qualcosa di epico - come lo sono in genere le rimonte nello sport. Sembra piuttosto una manipolazione sadica, una di quelle forme di tortura psicologica in cui il carnefice si mostra passivo e amicale verso la vittima, guadagnando la sua fiducia solo per poi tradirla. Certo, sono sempre dimostrazioni di forza, ma agli occhi del pubblico sono spesso mostruose. Se Nadal nelle sue partite epiche sembra andare in pezzi fisicamente, se Federer era sempre in conflitto con le proprie fragilità psichiche, Djokovic non sembra mai davvero fuori controllo, dover fare qualcosa che gli costa qualcosa. Naturalmente è solo una percezione. Stiamo parlando di sottigliezze estetiche, di sensazioni: è difficile spiegarle con esempi tangibili, ma chiunque abbia visto una partita di Djokovic in cinque set sa a cosa mi riferisco.
È difficile entrare in contatto con lui. La sua ci sembra una forza aliena: né umana, né divina. Eppure in ogni vittoria Djokovic ci ha comunicato qualcosa di potente, anche se difficile da cogliere. Il modo in cui riesce a controllare sé stesso, e le variabili del tennis, attraverso la concentrazione e l’intensità mentale ci dice quanto il regno psicologico domini lo sport più di quanto riusciamo a realizzare - e di questo regno lui sembra un pioniere. D’altro canto ci parla anche delle potenzialità dell’essere umano, della sua intelligenza intesa come «capacità di risolvere problemi» che descrive Mancuso parlando di alberi (esseri che Djokovic infatti rispetta massimamente). Il tennis di Djokovic è in fondo anche una forma di umanesimo: non serve fare il proprio corpo a pezzi come Nadal, né attingere a un talento che è fuori da questo mondo come Federer. La soluzione ai problemi è già dentro di noi, l’essere umano ha più energie e potenzialità di quanto possiamo immaginare.
È un messaggio profondo, ma non crea forme di spettacolo.
Chi ha celebrato il traguardo dei suoi ventitré Slam lo ha fatto con tepore, con un entusiasmo burocratico. E forse non c’è trattamento peggiore che si può riservare a Djokovic: una lieve indifferenza, un rispetto diplomatico. Forse c’entra il senso di nausea che ci accompagna ormai di fronte a questi traguardi. Il nostro disperato desiderio di novità e rinnovamento. Forse il senso di nausea ha colto anche Djokovic stesso: è sempre stato ossessionato alla rincorsa dei record, lui su Federer come Bryant su Jordan, ma forse negli ultimi tempi è riuscito a guardarsi dal di fuori. Forse dopo quel violento bagno d'amore a New York qualcosa è cambiato davvero dentro di lui.
L’impressione è che fosse tutta la grande narrazione dei Big-3 a ricoprire di valore i traguardi sportivi. Forse senza Nadal e Federer la natura antagonista di Djokovic, a livello narrativo, si è spenta. E allora cosa è rimasto?
Forse è il momento di sforzarsi di notare la sua grandezza di per sé, svincolata dall’impianto narrativo che abbiamo elaborato in questi quindici anni. Significherebbe però sforzarsi di andare oltre la superficie dei numeri, aprire il dibattito per davvero, non nella forma viziata, partigiana o pigra di questi giorni.