Ci arrendiamo? Decidiamo che il gioco non è valso la candela, non siamo disposti a spendere energie per sentirci vicini a Giuseppe Rossi? Interrompiamo i quasi quindici anni di innamoramenti, delusioni, speranze nuove, nuove frustrazioni, che ci hanno mossi per un talento incenerito?
Il deferimento per positività all'antidoping, qualche settimana fa (seguito da una nota di biasimo), è sembrato l'atto finale per poter sciogliere finalmente le ultime resistenze e mandarci in pace, dire basta. Trentunenne, svincolato dopo l'ultima modesta parentesi a Genova, troppo fragile per continuare a essere un professionista se non aiutandosi in modo illecito.
Invece no. Giuseppe Rossi ha ricevuto solo una nota di biasimo per quella che è stata considerata una distrazione. Nessuna squalifica per aver assunto (casualmente, in una contaminazione alimentare, a quanto ha sostenuto lui) la sostanza che gli hanno trovato nel sangue a maggio scorso. D'altronde la dorzolamide è un anti-glaucoma che si considera doping solo quand'è somministrato regolamente. «Sono sempre stato pulito».
Così, siamo di nuovo davanti alla questione, per chi ancora non si risolve a mollarlo.
Da parte sua, Giuseppe Rossi non ha mai fatto la vittima. In uno dei momenti più complicati, dopo il terzo infortunio a un ginocchio, disse: «La cosa peggiore che tu possa pensare è di essere perseguitato dalla sfortuna. Questo meccanismo si mette a creare dubbi nella testa e ti distrae. Invece io penso che andrà sempre bene, provo a pensare sempre positivamente».
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L'Americano.
Un nome e cognome che rappresentano l'assoluta normalità, intesa sia come universalità sia come modestia. Un ragazzo mite, che parla un italiano a tratti incerto per gli anni in America, con una voce che si raccoglie più che farsi udire. E anche la fisicità fragile, anche l'aspetto novecentesco, hanno contribuito a far scattare un'immedesimazione. Chi prima, chi dopo, chi a lungo, chi per poco.
Profilo moderno, internazionale per nascita e per formazione. Una grande promessa italiana cresciuta all'estero, un ragazzo con la stoffa e la buona volontà, pronto a cambiare Paese seppur giovanissimo (dagli USA all'Italia, dall'Italia all'Inghilterra).
Il futuro della Nazionale. Il crack nel Manchester United di Rooney, Giggs e Cristiano Ronaldo. Il miglior marcatore esordiente Under 20 nella storia del campionato italiano (ex aequo con Roberto Mancini, ma con soli sei mesi a disposizione).
“Pepito” lo soprannominò Enzo Bearzot, per far risaltare il paragone con Pablito Rossi. Secondo l'ex viola Gigi Milan invece assomigliava alla leggenda Hamrin. E anche Prandelli, che pure non se la sentì di portarlo in Brasile a mezzo servizio, disse: «In lui vedo qualcosa di particolarmente meraviglioso».
Con la maglia azzurra, nel Novecento più che nel 2008 (foto di Hoang Dinh Nam / Getty Images).
Verosimilmente siamo già al punto di poter fare un bilancio. E allora è indiscutibile che il punto più alto della sua carriera sia stata la stagione 2010/11: 31 reti e 11 assist, quarto posto in campionato, semifinale di Europa League (persa contro il Porto di Falcao, Hulk e James Rodríguez) col piccolo Villarreal, di cui Rossi si laurea capocannoniere storico. Sono mesi straordinari sul campo benché fuori, nella vita, Giuseppe perda suo padre.
Pochi mesi dopo, tutto sfuma. Il 26 ottobre 2011, contro il Real Madrid, si rompe il crociato del ginocchio sinistro. È la prima stazione di una Via Crucis di operazioni, ricadute, tempi di recupero abnormi, stagioni perse. Lui non farà gerarchie: «Tutti gli infortuni so' brutti, perché ti hanno tolto sempre qualcosa». Doveva rientrare in quella primavera, ma il ginocchio cedette di nuovo in allenamento. Finì che il Villarreal retrocesse e Giuseppe perse l'Europeo 2012.
Nei sette anni esatti che sono trascorsi dall'infortunio contro il Real a oggi, Giuseppe Rossi ha giocato appena 101 gare ufficiali (33 reti). Al livello di club non ha vinto niente. Nella sua bacheca c'è solo la League Cup alzata nel 2006, quando aveva diciannove anni.
Foto di Jose Jordan / Stringer
Viene da una famiglia di migranti italiani in America, padre abruzzese e madre molisana. Nasce a Teanock (1° febbraio 1987) e cresce a Clifton, nel New Jersey. Tranquille cittadine sulla sponda destra del fiume Hudson, a un quarto d'ora da New York, in un territorio strettamente legato al settore tessile. Appassionato di calcio, il padre allenava la squadra della scuola di Clifton dove insegnava italiano. E allenava il figlio nel giardino di casa. Anche quando Giuseppe sarà ormai un professionista, continuerà a sentire suo padre, “dietro le orecchie”, suggerirgli cosa fare in campo.
Ogni estate la famiglia torna in Italia. In una di quelle visite, il Parma lo nota in una scuola calcio estivo. Ha dodici anni e rimane in Italia. «Il calcio mi ha fatto cittadino del mondo», riconoscerà molto tempo dopo. Ma nelle sere di quel 1999 Giuseppe piange, lontano dalla famiglia: non si sente forte come il padre, ma si sforza di nasconderlo.
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Nel giardino della casa di Clifton, col padre.
La società del Parma crolla, nell'estate 2004, perdendo l'onore e il nome di Associazione Calcio. Tra le macerie e il fumo sollevato nel caos, gli altri club vengono a prendersi i pezzi migliori. Inclusi ovviamente i crack delle giovanili.
Se Arturo Lupoli va all'Arsenal, Giuseppe Rossi per 200mila Euro si ritrova nel Manchester United di Ferguson. Trascorre un anno con le giovanili (tra gli altri c'è il coetaneo Gerard Piqué), ma ottiene anche qualche minuto in League Cup. Nella stagione seguente, esordisce in Premier: è il 15 ottobre 2005, viene chiamato a sostituire Van Nistelrooy. Dopo pochi minuti Pepito, diciott'anni, riceve palla e scarica un tiro debole ma angolato. Gol.
Segnare al debutto gli riesce bene, e questo dice forse qualcosa della sua psicologia. Lo farà con il Parma, col Villarreal e con la Fiorentina in campionato.
In una carriera martoriata da pagine strappate bruscamente, lui stesso ha parlato diverse volte di “nuovo inizio”. Di sicuro nell'ottobre 2013, in occasione del ritorno in nazionale, nel punto di massima illusione, e nel maggio 2018, quando aveva trovato di nuovo minuti in maglia genoana. Perfino quando scherza, per un Pesce d'Aprile del 2014, fingendo di aver iniziato una carriera nel baseball con i New York Yankees, annuncia la scelta parlando di “nuovo inizio”.
Estate 2004. Insieme a Sir Alex, il padre, la madre e la sorella (foto di John Peters / Getty Images).
Il percorso di Giuseppe Rossi ha la circolarità del continuo ritorno. Lo scorso inverno è in Italia per la terza volta da calciatore, stavolta al Genoa. L'allenatore, Davide Ballardini, è stato suo tecnico nella Primavera del Parma ben quindici anni prima. Il rendimento non darà segnali di grande discontinuità: un infortunio muscolare, qualche scampolo di gara, un solo gol (inutile, contro la Fiorentina). Pochi mesi che non cambieranno la sua condizione: svincolato era, svincolato rimarrà.
Un ritorno più solido e incoraggiante era stato quello in Spagna, nell'inverno 2006. In prestito dalla Fiorentina, prima al Levante e poi al Celta Vigo di Berizzo. La Liga sembrava il contesto in cui potesse esprimersi al meglio.
Il 3 aprile 2017 realizza una tripletta, contro il Las Palmas, che è la sua prima tripletta dall'ottobre 2013. Passano sei giorni e si rompe di nuovo il ginocchio. Stavolta il crociato del sinistro. «Eccoci qua, un altro ostacolo da superare», commenta. Nell'estate che arriva, si ritrova svincolato. I club si stanno arrendendo.
Ottobre 2013, dopo un gol alla Juventus (foto di Gabriele Maltinti / Stringer).
La massima illusione è la prima metà della stagione 2013/14: i suoi fantastici sei mesi in maglia viola (14 gol e 4 assist in 18 partite). Ma nel gennaio 2014 si rompe il legamento del ginocchio destro. Rotola a terra spalancando la bocca, urlando. «Non ho sentito dolore. Era solo la tristezza». Giuseppe Rossi perde il resto della stagione e il Mondiale in Brasile.
Riceve però una telefonata da un suo idolo, Roberto Baggio, che si sente in dovere di incoraggiarlo. Anche lui ha perso un Mondiale, quello del 2002, per un infortunio troppo grave. Era un Parma-Brescia al Tardini, semifinale di Coppa Italia. Quel giorno anche Giuseppe Rossi si trovava a Parma, tesserato del settore giovanile crociato.
Calmo e gentile, eppure ci ha sempre tenuto a non passare per santo. Qualcosa come: “Don't Take my Kindness for Weakness”. Negli anni ha sottolineato come gli capiti di passare col rosso di notte e come si conceda il blackjack un paio di volte al mese al Casinò di Grau. L'esatto opposto del tipo sregolato che nasconde gli eccessi.
Le ombre di Giuseppe Rossi non sono pubblicamente note. Se ne può intuire la forma, ma si rischia di forzare le interpretazioni. Certo, è curioso come descriva le sensazioni del gol, il momento in cui la palla entra: «Quei dieci, quindici secondi... Sei libero». O ancora, è interessante come si riferisca agli obiettivi e al futuro: «I miei sogni sono sempre lì», diceva nel 2015, e tre anni dopo ribadiva: «Tuttora ho sogni da realizzare e li vedo, sono lì, e ho tanta voglia di raggiungerli». Interessante perché è come se li tenesse d'occhio, per rassicurarsi che esiste un filo – tra lui che gioca e i sogni che lo aspettano – intanto che il percorso è rallentato da infortuni come zavorre.
Gennaio 2007, pochi giorni prima di compiere vent'anni (Foto New Press / Stringer).
Giuseppe Rossi può essere il simbolo, suo malgrado, di un Paese vecchio e in crisi. Il grande talento portato via da un top club inglese, dopo la sciagura del crac Parmalat. La scommessa sicura che non riesce a inserirsi nel rinnovamento della nazionale dopo il 2006. Lui e Sebastian Giovinco, le stelle della classe '87, nate nella stessa settimana, sembravano le certezze su cui ricostruire dopo il Mondiale vinto. Invece il futuro si è inceppato, e quel ricambio generazionale è venuto meno.
La capacità di Giuseppe Rossi di sapersi rialzare, pronto pure a cadere di nuovo, per rialzarsi magari, e ancora cadere, quella capacità assolutamente rara fa pensare che lui no, non si è arreso. D'altra parte, come ha detto una volta: «Se hai deboli le ginocchia, non puoi permetterti di avere anche la testa fragile». Sta a noi decidere se andargli dietro, per l'ennesima volta, oppure no.