Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche, in questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse
Sono passati sette anni dalla famosa intervista in cui Cristiano Ronaldo, collegato da remoto ma con l’aria distante di un principe sul trono, con un diamante per orecchio e delle cuffie dorate intorno al collo, si alzava e se ne andava perché gli era stato chiesto cosa ne pensasse dello scandalo che stava investendo la Fifa, con una dozzina di dirigenti accusati di corruzione, compreso il presidente Joseph Blatter costretto ad abdicare - uno scandalo che è arrivato fino allo scorso 2021, con Blatter e Platini, ai tempi presidente della Uefa, banditi per sei anni ciascuno (Blatter poi è stato bandito per altri sei anni dal Comitato Etico). Insomma, i vertici del calcio mondiale erano marci e Cristiano Ronaldo rivendicava il proprio diritto alla superficialità, il diritto ad avere come priorità le borse, i tagli di capelli e di chiamare tutto il resto “bullshits”.
Che sfacciataggine, abbiamo detto allora. Che arroganza. Che cinismo.
Sette anni dopo dobbiamo ammettere che, anche da questo punto di vista, il mondo in cui viviamo è diventato molto di più il mondo di Cristiano Ronaldo di quanto non fosse prima.
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La sfacciataggine di Ronaldo è la stessa di Gianni Infantino che per zittire le critiche più che legittime al Qatar ricorda il colonialismo europeo. L’arroganza con cui ha detto che se un giorno la Corea del Nord vorrà organizzare un torneo, in fondo, perché no. Il cinismo con cui ha detto di sentirsi gay, migrante, eccetera, solo per togliere il microfono a gay, migranti, eccetera; e poi ha paragonato la schiavitù, le morti sul lavoro e le discriminazioni di uno stato omofobo al fatto che lui, una volta, chissà quanto tempo fa, aveva i capelli rossi.
Abbiamo passato gli ultimi anni a sottolineare l’ipocrisia del marketing sociale delle grandi aziende, il green-washing, il pink-washing, gli slogan “no to racism”, “no to war” delle leghe a cui non costa niente. Abbiamo alzato il sopracciglio di fronte ai giocatori inginocchiati, ai lacci arcobaleno che gli preparavano i loro sponsor, alle dichiarazioni più o meno di facciata - a volte così di facciata che diventavano ridicole, tipo Chiellini che diceva di voler combattere “il nazismo” a Euro 2020 (che, forse, era un lapsus, ma uno di quelli che in qualche modo ci dice qualcosa).
Ci siamo così impegnati a raccontare i loro privilegi, la lontananza del calcio dalla vita reale, che non ci siamo accorti che il calcio stava finendo - anzi sicuramente ci era già finito da tempo - in una distopia scritta male. In un racconto in cui i cattivi sono involontariamente comici e arrivano a vietare la parola “love” sulla parte interna del colletto di una maglietta (quella del Belgio), a cui dà fastidio una fascia arcobaleno con scritto “one love” ma non una gialla con su scritto “no discrimination” (forse pensano che anche le critiche nei loro confronti siano discriminazioni nei confronti della loro cultura).
Viviamo in un romanzetto sci-fi da quattro soldi in cui un’istituzione che dovrebbe essere super partes finisce per essere così ottusa e impunita da bandire la parola amore su richiesta di un Paese di proprietà di una famiglia, piccolo come la Corsica. Ma è il mondo che abbiamo costruito anche noi in occidente, dove l’arcobaleno è considerato un simbolo politico, dove la parola “pace” è diventata divisiva. Siamo anche noi - alcuni di noi - sfacciati, arroganti, violenti.
Stando al vocabolario Treccani ipocrisia sarebbe una “simulazione di virtù (...) per guadagnarsi i favori o la simpatia di una o più persone, ingannandole”. Ed è vero che a volte è meglio un sincero vaffanculo di un sorriso ipocrita, perché l’ipocrisia ti confonde su cosa è vero e cosa no. In confronto sembra ingenua l’ipocrisia di Infantino quando paragona crimini di “tremila anni” fa, su cui non possiamo fare niente, a crimini a noi contemporanei su cui potremmo in qualche modo influire. Così come è troppo evidente il modo in cui strumentalizza il proprio capo ufficio stampa, omossessuale, per dimostrare la tolleranza del Qatar.
Non c’è nessun inganno, in questi casi. Sappiamo benissimo come stanno le cose nella realtà, quale visione del mondo c’è dietro. Che è una visione secondo cui, in fin dei conti, siamo tutti marci e quindi va bene così, nessuno può dare “lezioni morali agli altri” (qualsiasi cosa significhi), paese che vai usanze che trovi, e così via. All’universalismo dei diritti umani si sostituisce l’universalismo della violenza e della repressione.
È una situazione strana, quella che si è creata in questo Mondiale. Con da una parte l’ipocrisia dei marchi e dei messaggi social, e dall’altra una realtà più franca e brutale che vieta persino quella. Da una parte chi non vedeva l’ora che dal calcio sparissero quei simboli che vedeva come delle semplici mascherate, come se fossero tutti ipocriti, senza distinzione; dall’altra chi già prima faticava ad accettare un Mondiale ideato nella corruzione e cresciuto grazie alla schiavitù e la sola cosa che poteva fare era pensare di “boicottarlo”, cioè non vederlo per provare a dare un segnale, per piccolo che sia, attraverso lo share delle tv.
Da una parte la FIFA che minaccia di ammonire o squalificare i capitani delle nazionali europee che avevano deciso di indossare la fascia arcobaleno, dall’altra Harry Kane che dice che non dipende da lui come se servisse il permesso per protestare. Ed è una situazione deprimente proprio per questo, perché dimostra la debolezza dei buoni propositi (da non confondere con i valori di per sé) degli organi istituzionali sportivi di questa parte di mondo. In questo senso non ha vinto solo il Qatar, ma anche tutti quelli che dietro la richiesta di separare lo sport da tutto il resto - il diritto alla superficialità di Ronaldo - nascondono ipocritamente il fastidio nei confronti delle istanze portate avanti in questi anni dalle diverse minoranze ancora oggi perseguitate, discriminate o svantaggiate.
Ci sono anche, però, i giocatori dell’Iran che sfidano apertamente il regime che li aspetta a casa (dove sono le loro famiglie) decidendo di non cantare l’inno nazionale. Allora voglio provare però a vedere il lato positivo di questa faccenda. Adesso che abbiamo tolto dal tavolo l’ipocrisia di brand e federazioni possiamo anche noi essere sinceri. Questo Mondiale dovevano boicottarlo loro, le grandi nazionali, o i grandi brand, rinunciando a partecipare. Però noi possiamo boicottare loro. Protestare qui, contro le nostre istituzioni, i nostri governi.
Su una cosa Infantino non aveva torto. E cioè che è difficile pensare che i governi europei, che pagano Turchia e Libia per tenere lontani i migranti in qualsiasi modo, complici quindi di torture e omicidi (oggi, non tremila anni fa) possano ritenersi così migliori di quello qatarino. Prendiamo allora la frustrazione di dover vedere un Mondiale stando alle regole del Qatar, visto che non possiamo farci niente, e chiediamoci cosa possiamo fare qui. Altrimenti sarebbe come chiedere a qualcun altro di protestare al posto nostro e questa diventa, di nuovo… ipocrisia, no? Ben venga quindi se questo Mondiale ha svegliato un po’ le nostre coscienze, anche perché l’impressione è che se non facciamo niente presto o tardi anche noi ci ritroveremo a dover fare battaglie ridicole come quella per difendere la parola “love”.