È ormai impossibile parlare della stagione dei Sacramento Kings senza citare “The Drought”, ovverosia l’incredibile statistica che vede la franchigia mancare i playoff ininterrottamente dal 2006 a oggi. Nessuna franchigia nello sport professionistico americano non partecipa alla post-season da più tempo di loro, un dato reso ancora più assurdo dal fatto che ogni anno in NBA più della metà delle squadre — e ancor di più negli ultimi anni con l’introduzione del torneo play-in per le squadre dalla settima alla decima posizione, portando il totale da 16 a 20 — accede alla fase calda da dentro o fuori.
C’è però un’altra “drought” che si prolunga da meno tempo, più precisamente dal 2017, ma che spiega bene cosa sono stati i Sacramento Kings negli ultimi anni. L’ultimo giocatore di Sacramento a essere convocato per l’All-Star Game è infatti DeMarcus Cousins, che peraltro — in pieno stile “KANGZ”, un nomignolo dato alla franchigia ogni volta che ha commesso una nefandezza negli ultimi 10 anni — arrivò al weekend di New Orleans come rappresentante dei Kings e ne uscì come giocatore dei Pelicans, scambiato in quell’occasione dall’allora GM Vlade Divac.
I tifosi dei Kings alla lettura sono autorizzati a toccare ferro, ma superata la boa di metà stagione tutte queste “maledizioni” sembrano destinate a essere spezzate. Sacramento attualmente ha un record di 26 vittorie e 19 sconfitte, buono per il terzo record nella combattutissima Western Conference, pur avendo solamente quattro gare e mezzo di vantaggio rispetto all’undicesimo posto che vorrebbe dire un altro anno nell’inferno della Lottery del Draft. Se i Kings sono però sette partite sopra il 50% di vittorie è per merito di due giocatori che con le loro prestazioni si stanno ampiamente meritando la convocazione per il weekend di Salt Lake City di metà febbraio, al quale i Kings non mandano due rappresentanti dal lontano 2004.
Il primo è la point guard titolare De’Aaron Fox, probabilmente il giocatore più clutch della lega in questa stagione, secondo per punti nei finali di gara con 4.7 di media dietro solo ai 5.2 di DeMar DeRozan, ma primissimo per percentuali con un assurdo 60% al tiro. Con i numeri totali fa più impressione: Fox ha segnato 44 dei 73 tiri tentati per 108 punti totali in appena 83 minuti, molti meno rispetto a chi si avvicina ai suoi volumi di gioco, per di più con l’84% ai liberi (16/19) quando conta di più. Una stagione eccezionale per un giocatore che, non più tardi di un anno fa, sembrava completamente perso, tanto da vedere ridotto al lumicino l’interesse delle altre squadre sul mercato e costringere i Kings a una scelta drastica.
Ma il focus di questo pezzo vuole essere il secondo, vale a dire proprio Sabonis. Catapultato nella galassia “KANGZ” a metà della passata stagione, accolto da un pubblico che si strappava le vesti (non del tutto a torto) per aver scambiato uno come Tyrese Haliburton senza alcuna avvisaglia che potesse succedere così all’improvviso, Sabonis è entrato in campo e ha cominciato a fare quello che ha sempre fatto da quando è entrato nella lega nel 2016: macinare doppie doppie (12 nelle prime 15 gare disputate in maglia Kings, prima di fermarsi per un infortunio a stagione ormai compromessa), portare i migliori blocchi della lega, essere via via sempre più centrale per i destini della propria squadra, mettendo il proprio gioco granitico a disposizione dei compagni e dello staff. Ma è stato solo quando i Kings hanno deciso di costruirgli attorno il contesto tattico ideale che Sabonis ha messo in scena tutto il meglio del suo repertorio.
Un hub offensivo di livello assoluto
Per trovare l’ultima partita in cui Sabonis non ha chiuso in doppia doppia bisogna tornare al 3 di dicembre, giorno in cui i Kings hanno talmente maltrattato gli L.A. Clippers (+27 lo scarto finale) da tenerlo in campo per appena 26 minuti, nei quali lui peraltro ha chiuso con 24 punti, 5 rimbalzi e 6 assist sbagliando solo uno degli 11 tiri tentati. Da lì in poi il lituano ha collezionato 22 doppie doppie consecutive, portando a 35 il computo totale della sua stagione (primo in NBA davanti anche alle 32 di Nikola Jokic) di cui cinque triple doppie, piazzandosi sul terzo gradino del podio dietro solo a Jokic e Luka Doncic già in doppia cifra.
Anche lasciando da parte i numeri grezzi del tabellino, le statistiche avanzate semplicemente lo adorano: Sabonis è terzo per “Win Shares” dietro solo a Jokic e Doncic, è quinto secondo l’MVP Tracker di Basketball-Reference.com davanti a gente come Giannis Antetokounmpo e Kevin Durant, è ottavo per percentuale effettiva dal campo e settimo per quella reale, nonché ottavo per Value Over Replacement Player. Il suo rating offensivo di 134 punti segnati su 100 possessi è inferiore solamente a quello di Jokic in tutta la NBA. Se si prendono in considerazione i rimbalzi, poi, non c’è competizione: Sabonis è primo sia per volume che per percentuali, specialmente nella metà campo difensiva dove sembra avere un magnete sulle mani per attirare a sé tutto quello che viene sputato dal ferro (primo in NBA per percentuale di rimbalzi difensivi tra i titolari), dando una grossa mano a una squadra che fa un lavoro egregio nel non concedere seconde opportunità agli avversari (sulle prime opportunità, invece, ci torniamo dopo).
Ci sono momenti in attacco in cui sembra proprio un uomo in mezzo ai bambini.
Basta osservare una partita qualsiasi dei Kings per notare come Sabonis sia al centro di tutto quello che fanno, agendo non come “playmaker ombra” della squadra, ma come playmaker e basta. Il lituano ha la percentuale di assist più alta dei suoi al 29.2% (anche qui: solo Jokic con un assurdo 42% fa meglio di lui tra i lunghi) e nei primi tre quarti della partita tutti i palloni transitano da lui, salvo poi finire nelle mani di un Fox riposato e lucido nei quarti periodi per decidere le partite. Ma pur essendo un passatore degno del cognome che porta sulla schiena, non è solo attraverso gli assist che si giudica l’influenza di Sabonis sui suoi compagni.
Coach Mike Brown ha disegnato il suo intero sistema offensivo attorno alle qualità tecniche e tattiche del suo numero 11 e ne ha ricevuto in cambio una stagione da All-NBA nella metà campo offensiva, sfruttando in maniera quasi ossessiva il pezzo forte del repertorio di Sabonis: il passaggio consegnato. Gli Indiana Pacers hanno costruito per anni le loro second unit attorno al lituano con quattro giocatori della panchina, spesso liberando un quarto di campo per i suoi giochi a due insieme a tiratori come Doug McDermott o Chris Duarte nella passata stagione e tirando fuori attacchi efficienti e competenti anche da un talento complessivo decisamente mediocre.
Brown ha preso quei minuti e li ha elevati all’ennesima potenza, facendo girare tutti i suoi migliori esterni come delle trottole attorno a Sabonis. Il figlio di Arvydas ha giocato 200 passaggi consegnati più del secondo in classifica (sì, sempre Jokic) e non è un caso che tra i primi 25 giocatori della lega per numero di possessi in “hand-off” a partita ci siano ben tre rappresentanti dei Kings, dagli 1.7 di Malik Monk agli 1.9 di De’Aaron Fox fino a sua maestà Kevin Huerter, di gran lunga il giocatore che usa di più i passaggi consegnati di tutta la NBA con 3.4 possessi a partita. I giochi a due tra Sabonis e Huerter nascono in maniera spontanea come l’acqua che sgorga dalle fonti di montagna: non c’è soluzione di continuità tra il modo in cui Sabonis posiziona il suo corpo e l’uscita dal blocco di Huerter che si ritrova il pallone già infiocchettato per farci quello che vuole, confezionando una delle combinazioni più belle da vedere di tutta la lega.
Ed è anche incredibilmente produttiva: Huerter segna 1.16 punti per possesso in situazioni di passaggio consegnato, tirando con il 65% effettivo dal campo, un dato semplicemente assurdo considerando il volume di possessi che gioca e il fatto che le difese sanno esattamente cosa vogliono fare quei due, che hanno raggiunto un’intesa che va oltre la telepatia. Dei 177 canestri assistiti dai compagni segnati da Huerter, ben 85 sono da parte di Sabonis — più del doppio rispetto a Fox fermo a 35. Non vi basta? Quando gioca con Sabonis, la sua percentuale effettiva è di 18 punti percentuali superiore a quando non c’è — la differenza tra il giorno e la notte.
Huerter non è l’unico beneficiario dei blocchi di Sabonis, che ormai anche le statistiche avanzate certificano come i migliori di tutta la lega. Sono 13.6 a partita i punti generati dai suoi blocchi (i cosiddetti “screen assist”), primo in tutta la lega davanti anche ai 12.8 di Steven Adams, e ormai non esiste un singolo angolo per il quale Sabonis non conosca l’esatto effetto che provoca su compagni e avversari, specie quando trova arbitri permissivi che gli concedono anche di aggiustarli all’ultimo secondo e oltre (ma non esiste grande bloccante che non spinga in là i limiti di ciò che è consentito dal regolamento).
Ospiti su ESPN, lui e Fox hanno spiegato i segreti del gioco base dei loro Kings nel finale di gara, facendo felice Jalen Rose che ha potuto sottolineare uno degli aspetti che li rendono così difficili da marcare: sono entrambi mancini, cosa che per qualche motivo continua a cogliere di sorpresa i difensori meno attenti.
Sabonis è al suo meglio in attacco quando può giocare al servizio dei compagni, portando blocchi a chiunque ne abbia bisogno come un medico che gira tra i feriti in un campo di battaglia e recapitando assist che sono messaggi d’amore solo da recapitare a canestro, in particolare quando le difese hanno la brutta idea di lasciare troppo spazio alle proprie spalle per un taglio backdoor. Ma è perfettamente a suo agio quando deve mettersi in proprio e segnare per conto suo: tra i giocatori che giocano almeno due possessi in post a partita, solo Jokic e Joel Embiid fanno meglio dei suoi 1.07 punti per possesso, e solamente il due volte MVP in carica ha una percentuale effettiva migliore (62.6% contro il 59% del centro dei Kings).
Tanto è raffinato il gioco di passaggi di Sabonis, tanto sa essere brutale quando sfrutta tutti i chili del suo corpo scolpito nella pietra e i suoi gomiti affilati per farsi spazio nelle aree della NBA, dove spesso gira gente anche decisamente più grossa di lui. Ma Sabonis ha almeno due cose che gli altri non hanno: una capacità irreale di controllare il proprio corpo e un tempismo sensazionale per mandare fuori giri chi gli si para davanti, con una finta di tiro killer sulla quale non solo tanti avversari finiscono inevitabilmente per saltare (quest’anno siamo a 8.2 tiri liberi tentati su 100 possessi, massimo in carriera), ma anche quelli che hanno l’accortezza di rimanere con i piedi per terra vengono presi sul tempo da Sabonis, che capisce sempre il gioco con quella frazione di secondo di anticipo per capire quando ha tempo e spazio di salire prima che l’avversario si accorga di che cosa sta succedendo.
Due canestri presi dalla distruzione dei Brooklyn Nets andata in scena a metà novembre, partita nella quale i Kings hanno rifilato 153 punti a Kevin Durant e soci. Dopo questa partita KD nel suo show ha detto: «Questa è una squadra difficile da battere per chiunque. Per prima cosa non puoi cambiare difensivamente contro Sabonis perché è troppo forte fisicamente. E già solo questo fa saltare il tuo piano difensivo. Ma se vuoi rimanere uomo-contro-uomo, devi andare a inseguire Kevin Huerter, che sta tirando in uscita dai blocchi come se fosse Klay Thompson o Steph Curry»
Aggiungete a tutto questo le spaziature fornite da due ali versatili come il rookie Keegan Murray (41% da tre su quasi 6 tentativi a partita) e Harrison Barnes (che dopo un inizio difficile ha riportato al 37.7% le sue percentuali dall’arco), e il cocktail che otterrete è quello del terzo miglior attacco a metà campo di tutta la NBA dietro solo a Dallas e Boston, con il quintetto base dei Kings che viaggia a +10.7 di differenziale su un volume gigantesco di possessi (1060 in stagione, il più utilizzato in assoluto), sostanzialmente il quarto migliore della lega dietro quelli di Golden State, Denver e Atlanta (gli unici con un differenziale superiore al loro con almeno 650 possessi giocati).
Ma anche in una squadra che ha una spaccatura netta il talento dei propri titolari e quello delle riserve, nessun giocatore dei Kings va neanche lontanamente vicino all’impatto di Sabonis. La differenza tra quando è in campo e quando è fuori è +13.4 punti su 100 possessi, crollando tanto nella metà campo offensiva (-10.1 punti segnati senza di lui) quanto anche in quella difensiva (-3.3 quando c’è Sabonis rispetto a quando è seduto). Di fatto, solamente Jokic (+25) e chi gioca tanto con Jokic (Caldwell-Pope +22.6, Aaron Gordon +19), Luka Doncic e Draymond Green (+14.1) hanno un impatto superiore a quello di Sabonis.
Sabonis ha dimostrato il suo attaccamento alla causa a metà dicembre, quando si è procurato una frattura al pollice della mano destra per la quale la soluzione migliore sarebbe stata quella di procedere con un’operazione chirurgica il prima possibile. Andando sotto i ferri però Sabonis avrebbe perso dalle quattro alle sei settimane di partite, pari a circa una ventina di gare, e considerando l’impatto che ha il lituano sulle sorti della squadra, oltre alla lotta serratissima che si è sviluppata nella Western Conference, sarebbe probabilmente equivalsa a una condanna a morte per le speranze di post-season dei Kings. Nonostante un contratto che lo vede sottopagato anche nella prossima stagione a 19.4 milioni (e con zero possibilità di estenderlo, visto che da free agent potrà guadagnare molto di più tra un anno), Sabonis ha deciso di stringere i denti e di non operarsi, saltando appena una partita e tornando subito in campo per metterne 31 con 12/18 al tiro, 10 rimbalzi e 5 assist in una vittoria interna contro i Nuggets di Jokic. È anche con gesti come questo che Sabonis ha conquistato il cuore dei suoi tifosi, che hanno imparato ad amare il suo gioco tutto lavoro e abnegazione e la sua personalità da leader silenzioso che non ha mai creato un problema ovunque sia andato.
Sabonis dà, Sabonis toglie
Per quanto Sabonis abbia indubbiamente un impatto positivo sulle sorti dei suoi nella metà campo offensiva, non si può negare però che abbia anche un'influenza negativa in quella difensiva — non tanto a livello di differenziali, complice anche una rotazione dei lunghi poco profonda alle sue spalle, quanto di rendimento complessivo. Per quanto Mike Brown sia da sempre considerato una mente difensiva di alto livello, neanche lui fino ad ora è riuscito a rendere consistenti i Kings nella propria metà campo, come dimostra il 25° posto per punti concessi su 100 possessi su base stagionale. Tolte le squadre che stanno attivamente cercando di perdere come San Antonio, Detroit, Houston e Charlotte, solamente Utah ha una difesa peggiore di quella di Sacramento, e molto è dovuto alla presenza di Sabonis — che ha un bersaglio puntato addosso da parte di tutte le squadre che vogliono mettere in crisi la difesa dei Kings.
Sacramento generalmente fa un buon lavoro in difesa, costringendo gli avversari a prendersi tanti tiri dalla media distanza e poche triple (nessuno ne concede meno di loro fronte a canestro), ma gli avversari segnano con percentuali superiori alla media più o meno dappertutto, e in particolare al ferro. Come ha detto recentemente Steven Adams dopo averli affrontati: «Sono una squadra che fa fatica al ferro, non hanno alcuna protezione. Perciò il nostro principale obiettivo era attaccare l’area il più possibile». I dati confermano questa impressione: solo New Orleans, Denver, Orlando e Houston concedono percentuali superiori a quelle dei Kings al ferro, e preso singolarmente Sabonis concede agli avversari di tirare con il 54.2% dal campo contro di lui. Per trovare un dato individuale peggiore su almeno 12 tiri difesi a partita bisogna scendere a Thomas Bryant dei Lakers, che però viene puntato molto meno rispetto a Sabonis — che non a caso è il quarto giocatore che difende più tiri a partita dopo Brook Lopez, Embiid e Jokic.
La scarsa mobilità laterale e la pressoché inesistente esplosività nel salto di Sabonis sono due mancanze troppo grandi a questo livello e mettono i Kings davanti a un dilemma: come si fa a costruire una difesa competente, o quantomeno una che non venga eviscerata in una serie di playoff, quando il proprio giocatore più importante è così deficitario? Tutto sommato, non è lontano da quanto dovevano affrontare i Boston Celtics ai tempi di Isaiah Thomas — indispensabile in attacco per sopravvivere, ma anche troppo deficitario in difesa per poter reggere contro le migliori squadre.
Chiedetelo in giro per Sacramento, però, e riceverete giustamente una scrollata di spalle: la franchigia manca dai playoff da troppo tempo per poter pensare a queste sottigliezze e, come si dice negli States, attraverserà quel ponte quando ci arriverà. Per il momento c’è da difendere una qualificazione diretta ai playoff che, se confermata al termine della stagione, avrebbe del miracoloso. Ma anche se nella seconda metà di stagione dovesse arrivare un calo, i Kings rimangono una delle storie più divertenti di questa annata, con un entusiasmo contagioso anche in cose futili come l’accensione del fascio di luce viola (“LIGHT THE BEAM!”) con cui festeggiano ogni vittoria.
E al centro di tutto c’è Domantas Sabonis, che al di là di come finirà questa stagione ha già raggiunto un risultato che molti ritenevano impensabile: ha reso di nuovo i Sacramento Kings una squadra da rispettare.