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Marco D'Ottavi

Doncic, Irving e il potere dell’amicizia

Come questa improbabile unione ha portato Dallas alle Finals.

Sul Twitter calcio ciclicamente, ogni volta che il Real Madrid vince uno scontro diretto di Champions, va molto forte un meme. Da una parte si vede un allenatore tipo Guardiola (cioè un allenatore scienziato-pazzo, tutto schemi e tattica) che a velocità doppia muove delle pedine su una lavagna, dall’altra Ancelotti e i giocatori del Real che ballano, cantano, si divertono. Sopra c’è scritto: “Pressing, tattica, possesso, riaggressione” vs “il potere dell’amicizia”.

 

Come tutti i meme è incompleto e ingiusto, ma contiene in sé una parte di verità: quanto è importante la relazione tra gli atleti all’interno di uno sport di squadra? È una di quelle domande a cui è impossibile rispondere: non si può quantificare con una statistica e di certo l’amicizia non segna o fa assist. Però è indubbio che abbia un suo peso, anche piuttosto consistente a sentire le parole degli atleti stessi, sempre pronti a glorificare uno spogliatoio unito come segreto del successo.

 

Se parliamo di amicizia nello sport, raramente se n’è vista una più improbabile ma genuina di quella che lega Luka Doncic e Kyrie Irving. Lo si vede in campo e fuori, lo ripetono in ogni intervista e siparietto: la loro è la bromance perfetta. Sembrano la trasposizione cestistica di J.D. e Turk della serie TV Scrubs. «Lui è Batman, io sono Robin… Al di fuori del basket, è semplicemente una persona fantastica e andiamo tutti molto d’accordo. L’alchimia è davvero buona in questo momento» ha detto qualche tempo fa Doncic, e se conoscete almeno un po’ l’ego dello sloveno, capite quanto affetto gli ci sia voluto per mettersi nei panni della spalla. 

 

 

Un inizio difficile

Quando con un colpo di mano Mark Cuban aveva portato Irving a Dallas, in molti avevano storto il naso. Prima ancora del fit tecnico tra lui e Doncic, su cui era difficile sindacare, c’erano dei dubbi sulla coesistenza più generale tra i due. Da una parte lo sloveno aveva avuto un pessimo rapporto con l’unica stella di simile grandezza avuta in squadra fino a quel momento, Kristaps Porzingis; dall’altra Irving arrivava da un esperienza a Brooklyn ai limiti del surreale, tra mancate dosi di vaccino, video antisemiti, assenze non giustificate e un più generale disinteresse verso il basket come sport di squadra.

 

L’inizio sembrava aver dato ragione agli scettici: con Irving Dallas era precipitata fuori anche dal play-in in maniera disastrosa e – seppur Kyrie si fosse comportato da giocatore e cittadino modello – era difficile non trovare nella sua aggiunta al roster almeno parte delle ragioni. Le difficoltà dei due si erano sintetizzate nel possesso finale di una gara contro Minnesota, con Irving e Doncic che si passano il pallone senza riuscire a tirare.

 

L’esperimento sembrava essere fallito già in estate, e più voci davano Irving pronto a rifiutare il rinnovo per fare le valigie direzione Los Angeles, dove lo aspettava LeBron James. Lui sì un vero amico, con un’amicizia costruita nel tempo e cementata dall’incredibile titolo del 2016, pur con qualche incomprensione a seguito del burrascoso addio di Irving nel 2017 salvo riappacificarsi dopo, quando Irving ha provato sulla propria pelle cosa voleva dire guidare un gruppo di giovani a Boston. La realtà era però ben diversa: i Lakers hanno deciso di confermare il gruppo che li aveva portati fino alle finali di Conference e Irving è rimasto a Dallas. Così, allenamento dopo allenamento, partita dopo partita, viaggio dopo viaggio il rapporto con Doncic è decollato fino a portarli alle Finals

 

In Texas Irving sembra aver trovato una nuova serenità: «Quando sono arrivato», ha raccontato, «stavo affrontando molte cose mentalmente, spiritualmente ed emotivamente. Loro mi hanno accolto a braccia aperte». In qualche modo Doncic – un 25enne con la faccia da schiaffi, che ama giocare ai videogiochi e litigare con tutti  – è stato fondamentale nell’aiutare a fare pace con sé stesso il giocatore più complicato della lega. A 32 anni, e con tutti i problemi avuti dentro e fuori dal campo, non era affatto scontato che quest’anno Irving potesse mettere insieme una delle migliori stagioni della carriera. 

 

Dal dubbio se fosse ancora interessato a giocare a basket a segnare gli alley-oop in campo aperto. 

 

Una strana calorosa amicizia

È curioso che un rapporto del genere tra due maschi adulti nasca tipo “colpo di fulmine”, ma sembra essere andata proprio così. Forse, come disse in estate Cuban, il segreto è che «Kyrie sa che la squadra è di Luka e questo è ciò che conta». Secondo Kidd a Irving «non importa essere una seconda opzione o l’opzione 1-B». Che la gerarchia sarebbe stata così lineare, però, non era scontato. Irving, e bisogna dargliene merito, ha invece abbracciato perfettamente questo ruolo a metà tra il gregario di lusso e Robin Williams in Will Hunting

 

C’è infatti qualcosa di dolce e protettivo nel modo in cui si rapporta con Doncic: «Mi piace vederlo fare il padre» ha detto dopo la vittoria decisiva nella serie contro gli Oklahoma City Thunder, «Mi piace vederlo crescere come persona prima e poi il basket si prenderà cura di tutto. È un buon essere umano». Nella stessa intervista, con Luka accanto, lo ha definito un «orsetto di peluche (Teddy bear) a cui piace competere». In altre occasioni lo ha chiamato Mi hermano.

 

Dopo una vittoria in rimonta, da -22 al supplementare contro Houston, Doncic e Irving sono usciti dal campo abbracciati in un’immagine simbolica del loro rapporto. «Alla fine della partita Luka mi ha detto: “Sono stanco, amico”. Ecco perché l’ho abbracciato. Ha lasciato tutto sul campo e ha fatto tutto quello che poteva… Era un momento nostro da compagni di squadra e dovevamo condividerlo al meglio». Dopo averli visti abbracciati, il padre di Kyrie gli ha mandato la canzone Ebony and Ivory.  

 

A voler essere cinici la loro è un’amicizia ai limiti del cringe, soprattutto in una lega che ha costruito il suo successo sulla durezza dei suoi giocatori. Eppure l’umanità del loro rapporto è genuina e corroborante. «Sento che sto deludendo Kyrie», ha detto Doncic durante la serie contro i Clippers quando i suoi tiri non entravano; «A fine partita ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: un’altra ancora» sono state invece le sue parole dopo il 3 a 0 contro Minnesota. Secondo Doncic, «Kyrie mi ha aiutato a maturare, e a vedere la pallacanestro in un modo diverso. Giocare con lui è semplicemente fantastico. E non parlo solo di talento, parlo di leadership. È il leader della nostra squadra, è il leader al quale faccio sempre riferimento. E poi è una persona eccezionale».

 

Se probabilmente non diventerà mai un giocatore in grado di controllare le proprie emozioni in campo (cioè non smetterà mai di protestare con gli arbitri e discutere con pubblico e avversari), dividere il destino dei Mavs con Irving lo sto aiutando a non caricarsi tutto il mondo sulle spalle e giocare più leggero, senza quella cupezza che sembrava frenarlo ogni tanto.  

 

Il miglior backcourt di sempre?

Oltre l’effetto salvifico su Irving e quello spirituale su Doncic, ci sarebbe molto da dire sugli X&O della loro amicizia. Se potevamo aspettarci che due geni di questo gioco trovassero un modo di convivere in campo, non era scontato che funzionassero così bene. Solitamente le coppie più funzionali sono quelle più complementari (Jokic e Murray, per fare un unico esempio), ma la realtà è che, semplicemente, Doncic e Irving giocano troppo bene a basket, e se credono di poter funzionare insieme perché stanno bene insieme, beh: allora funzionano alla grande.


Se pensate che io stia esagerando, in questo momento negli Stati Uniti c’è una conversazione molto partecipata sul fatto che potrebbero essere il miglior backcourt nella storia della NBA, pur avendo giocato insieme solo una stagione e mezzo, di cui mezza disgraziata. Questo è il tipo di impatto che Irving e Doncic stanno avendo sulla NBA come coppia. 

 

 

È inevitabile che tra i due ad adattarsi sia stato Irving. Aver giocato con LeBron lo ha sicuramente aiutato a venire a patti con lo stile di Doncic, che rimane un accentratore che non ha eguali in NBA. La sua stagione, però, è stata anche troppo sottovalutata: Kyrie ha chiuso a 0.3 punti percentuali dal campo dal mettere insieme quel 50/40/90 che è garanzia di efficienza sopraffina. Nei playoff, poi, siamo tornati a ricordarci di lui come uno dei giocatori più clutch di quest’epoca. Irving può avere interi quarti di silenzio in cui regna Doncic, per poi mettere due o tre canestri in fila decisivi nel quarto periodo con la partita in bilico, che ti faranno chiedere come sia stato possibile. 

 

Anche qui: se non è una novità – Irving ha segnato il canestro più importante nella serie di finale più importante degli ultimi 10 anni di NBA – è curioso come sia stato disposto a dividere i meriti del suo basket con Doncic: «Luka mi ha spinto a cambiare il mio gioco, e a diventare più efficiente ed utile per la squadra». Dall’altra parte, ogni volta che può, Luka gli riconosce questa superiorità nei finali di partita: «Incredibile. Ecco perché lo chiamiamo Mr. 4th Quarter, giusto?» ha detto con un sorrisone dopo gara-3 contro Minnesota, «Kyrie è nato per giocare in situazioni di punto a punto come quella di questa sera, perciò ci limitiamo a dargli la palla». Possono sembrare considerazioni banali, ma non è banale che un giocatore come Doncic riconosca a un altro essere umano questo ruolo – diciamo – alla pari, lui che da quando ha 16 anni è chiamato a prendersi tutte le responsabilità in attacco. 

 

 

Fidarsi di Irving per Doncic vuol dire poter staccare la spina di quando in quando, anche solo mentalmente, conservare energie per segnare triple in faccia a Rudy Gobert a un secondo dalla fine o muovere di più i piedi in difesa. E questo sta facendo tutta la differenza del mondo: un Doncic non esausto è un problema insormontabile per tutta la NBA.

 

L’amicizia come fondazione della franchigia

Alle spalle della loro perfetta armonia c’è una franchigia che sta volando. Dallas sta azzeccando tutto, a partire dalla decisione che sembrava sciagurata di estromettersi dagli scorsi playoff per tenere una scelta in Lottery, cioè la 10 che è diventata una 12 e poi è diventata Dereck Lively, uno dei rookie più sorprendenti dell’anno. Il vero cambio di passo però è arrivato a febbraio, con le trade che hanno portato Daniel Gafford e PJ Washington in Texas. Da quel momento i Mavericks sono diventati indiscutibilmente una delle migliori squadre della NBA specialmente nella metà campo difensiva, qualcosa di assolutamente impronosticabile appena la scorsa estate.

 

Il merito è anche di Jason Kidd, capo allenatore con pochi estimatori nella lega, che però sembra aver trovato il modo di far funzionare tutto, fungendo da eminenza grigia dietro al rapporto tra Luka e Kyrie. Se apparentemente è facile avere a che fare con due così, anche il talento va assecondato e portato dalla propria parte. Dallas fa cose semplici, ma le fa molto bene. Difensivamente protegge le sue due stelle mettendogli sempre accanto difensori di alto livello e cercando di stressarli il meno possibile (ma chiedendogli partecipazione, soprattutto Doncic non è mai stato così difensivamente presente); in attacco poi ruota tutto intorno alla maestria con cui i due usano l’antica ma letale arte del pick and roll.

 

Portando palla in un gioco a due, Doncic e Irving possono arrivare al ferro, segnare dal mid-range, segnare con lo step-back. Possono trovare Gafford e Lively al ferro con un lob oppure il tiratore giusto dietro la linea da tre punti, soprattutto nell’angolo (sono la squadra che ne segna di più per distacco). Per gli avversari difendere in queste situazioni è spesso un enigma senza soluzione: che la difesa decida di droppare, switchare, bilizzare o qualunque via di mezzo, Doncic e Irving hanno sempre una risposta.  

 

 

Ora provarci toccherà alla difesa dei Celtics. Se a Boston tutti hanno messo le mani avanti (coach Joe Mazzulla ha detto che «non esiste un modo per fermarli», Jrue Holiday ha proposto le preghiere come soluzione), per Doncic e Irving sarà la sfida più difficile: White, Tatum, Brown e Holiday sono tutti ottimi difensori e tutti si spenderanno al massimo per limitarli il più possibile. Che ci riescano o meno, l’amicizia tra i due sembra salda e più forte di una vittoria o una sconfitta. Dopotutto, come si dice, chi trova un amico trova un tesoro, che è pure più di un anello.
 

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.