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La maturazione di Donovan Mitchell
01 ott 2019
Il giovane degli Utah Jazz deve rifinire il suo gioco se vuole diventare la stella che promette di essere, e Team USA lo può aiutare a riuscirci.
(articolo)
12 min
(copertina)
Foto di Mark Evans/Getty Images
(copertina) Foto di Mark Evans/Getty Images
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Quando Nicolas Batum completa il gioco da quattro punti, dando alla sua Francia dieci punti di vantaggio su Team USA nei quarti di finale del Mondiale, Donovan Mitchell ha già capito che il suo momento sta per arrivare. Già nel primo tempo le sue scorribande antigravitazionali a centro-area avevano tenuto a contatto i suoi, ma adesso serve qualcosa di più. Per sei minuti Don è perfetto: segna undici dei 22 punti di squadra, ricucendo lo svantaggio quasi da solo e permettendo ai suoi di chiudere avanti il terzo periodo con una tripla che si arrampica sul ferro, perfetta immagine della sua capacità di piegare la realtà al suo volere.

Il parziale di Mitchell semina un’illusione di un controllo che, nell’ultimo periodo, la nazionale di Gregg Popovich non riuscirà a mantenere, finendo col perdere meritatamente una partita nella quale sono venuti fuori tutti i limiti della selezione a stelle e strisce. Mitchell nel quarto periodo non segnerà più un’altro punto e chiuderà a quota 29, il ritratto di talento un discontinuo. Un ragazzo capace di cose straordinarie ma che, ancora, non ha la maturità per non schiantarsi contro le braccia infinite di Rudy Gobert invece di completare il proprio capolavoro.

La prestazione di Mitchell contro la Francia.

Ma quanti demeriti si possono realmente attribuire a Mitchell del fallimento di Team USA? Pochissimi, ad essere onesti, soprattutto considerando tutte le rinunce delle stelle più luminose. Donovan ha dovuto prendersi un palcoscenico più grande di quelli ai quali è abituato finora. Mitchell non ha ancora lo status della stella NBA assoluta ma possiede le spalle larghe sia per essere il volto di una franchigia ambiziosa come gli Utah Jazz, sia per non rimangiarsi la parola data a Gregg Popovich (a differenza di altri giovani in rampa di lancio come lui, come De’Aaron Fox o Devin Booker).

La partita contro la Francia può essere usata come cornice ideale per descrivere il suo talento controverso. I suoi primi due anni nella lega sembrano una perenne contraddizione, dove a picchi esaltanti (come la sua stagione da rookie) sono seguiti prestazioni preoccupanti (la serie contro gli Houston Rockets al primo turno degli scorsi playoff, per esempio). Eppure Donovan Mitchell ha chiuso la scorsa stagione con 23.8 punti, 4.1 rimbalzi e 4.2 assist di media a partita ed è il giocatore della storia NBA ad aver totalizzato più partite con almeno 25 punti, 4 assist e 4 triple segnate nei primi due anni di carriera.

Nessuno gli nega di essere uno dei talenti più intriganti del panorama NBA ed è pressoché certo che il suo livello sia destinato a salire ancora: allora come mai, quando pensiamo ai due anni di Mitchell in NBA ci sentiamo in qualche modo delusi? Forse non abbiamo ancora capito come valutarlo?

Spida-man

Mitchell è un giocatore sul quale è piuttosto semplice schierarsi, con fazioni di tifosi sempre pronti a prenderne le difese o a criticarlo per ogni errore o prestazione deludente. La sua natura catalizzante è diretta conseguenza della sua esplosione repentina e inaspettata, che ci ha lasciato inebetiti senza una definizione chiara con la quale definirlo.

Chi lo critica spesso mette in campo la scarsa efficienza e la monodimensionalità nel ruolo, chi lo ama vorrebbe aggrapparsi ai pantaloncini e volare sopra il ferro insieme allo Slam Dunk Champion 2018.

Paradossalmente, quelli che sembrano soffrire di più da tutti questa guerra di bande sono proprio colore che vorrebbero vederlo avere successo. Le sue giocate spettacolari, la sua comunicatività matura e la narrazione positiva che accompagna la sua carriera sono il costume perfetto per la sua consacrazione ad eroe mortale, quello che non ha bisogno di essere unico o unicorno, un prodotto da laboratorio o un predestinato, per diventare un vincente.

Mitchell rappresenta la lotta alla mediocrità, una battaglia che chiunque faccia il tifo per Don è convinto lui possa vincere grazie alle sue gambe alla dinamite. E qualora dovesse davvero confermare le aspettative che lo circondano, allora tutto sembrerebbe più dolce, più umano e raggiungibile, nella vita come nell’NBA.

Per questo viene quasi facile attribuirgli responsabilità sempre più grandi, per questo pretendiamo da lui il massimo anche quando, forse, il massimo è già stato raggiunto, perché Donovan Mitchell è un supereroe che ci fa credere in una nuova speranza. Purtroppo, però, il suo talento è un nodo che non si può districare attraverso le emozioni semplici.

Donovan ha anche indossato l'iconica tutina del supereroe Marvel in un promo per l'ultimo "Far From Home", ghiotta occasione per pubblicizzare la sua prima Signature Shoe con Adidas.

Mitchell è un realizzatore esaltante: ha chiuso entrambi i suoi primi due anni nella top-20 dei marcatori della NBA ed è in grado di giocare minuti di onnipotenza cestistica; ma spesso commette errori anche banali, come se non riuscisse ancora a controllare bene i suoi poteri. Non ha la fluidità tecnica istintiva del campione di razza – dato che nasce come specialista difensivo ha dovuto lavorare sodo sul suo gioco – e paga pure il pregiudizio di essere leggermente sottodimensionato, nonostante recuperi con l’apertura alare gigante. Mitchell, soprattutto, è un giocatore parecchio controverso: ha la faccia pulita, gli occhi grandi ed espressivi, il carisma lucido del ragazzo maturo, ma possiede un gioco grezzo e molto istintivo.

Non è del tutto chiaro ancora che tipo di giocatore sarà da grande e nonostante la sua struttura fisica potrebbe spingere verso considerazioni prefissate, il suo gioco non si incrocia con quasi nessuno degli archetipi dei giocatori tradizionali, e anzi, sembra aprire a sviluppi specifici ancora tutti da verificare.

Comprendere l’inefficienza

Nel corso dell’ultima stagione si è discusso molto di come Mitchell sia un giocatore che deve migliorare la propria efficacia, dato che il 49% di percentuale reale con quasi 20 tentativi a sera con cui ha chiuso l’anno aleggia come una nuvola minacciosa sul suo futuro. Ma è davvero così? Per un giovane caricato di così tante responsabilità non è mai facile seguire uno sviluppo lineare e anche Mitchell ha alternato periodi esaltanti a grosse sparatorie a salve. Ma per quanto la serie contro Houston abbia lasciato nell’immaginario collettivo l’idea di un Mitchell facilmente arginabile e dannoso nella selezione di tiro (e in questo l’essere circondato da giocatori incapaci di costruire dal palleggio non gli ha semplificato la vita), nel 2019 ha aumentato il suo livello fino a raggiungere i 26.2 punti a partita con il 41% su quasi 7 tentativi da tre, migliorando sia nei rimbalzi (4.6) che negli assist (4.8).

Mitchell tira con il 35% da tre in carriera in NBA, ma con il 38% da entrambi gli angoli (un dato non eccellente ma comunque solido), col 40% in catch-and-shoot (bene) e con il 44.3% nei completamente aperti (benissimo!). Inoltre tira i liberi con oltre l’80% e finora è quasi sempre stato costretto a giocare contro il miglior difensore avversario, se non addirittura raddoppiato. La sua mappa di tiro, comunque, presenta comunque diverse zone migliorabili.

Un assaggio delle doti realizzative di Mitchell, compresa l’esplosività delle gambe e la compattezza del jumper.

Il 59% al ferro è ben lontano dall’eccellenza, soprattutto in una squadra come i Jazz che hanno chiuso la scorsa stagione al sesto posto per tentativi dentro la restricted area, convertiti con un ottimo 65% (grazie soprattutto a Rudy Gobert). Mitchell possiede l’esplosività necessaria per battere il proprio uomo dal palleggio e ha buon tocco con entrambe le mani per chiudere al ferro con cifre migliori (cifre che comunque restano superiori a quelle di giocatori come James Harden, Damian Lillard o Kemba Walker) ma complice anche l’assenza di tiratori affidabili, le difese avversarie hanno avuto vita facile nell’aspettarlo negli ultimi metri di campo.

Alcune delle scelte rivedibili di Mitchell quando non può arrivare al ferro. Nella quarta clip invece un floater mancato, un’arma da introdurre assolutamente per crescere come attaccante.

Mitchell è anche il primo della stagione passata per tiri presi nel resto del pitturato (5.1) assieme a DeMar DeRozan, ma a differenza del giocatore degli Spurs chiude con un pessimo 37.6% – solo De’Aaron Fox e Blake Griffin fanno peggio di lui tra quelli con almeno tre conclusioni del genere a partita. Il fatto che si prenda quasi il 50% dei tiri di squadra da questa posizione non aiuta a perorare la sua causa, ma con l’introduzione di un floater più efficace e dei compagni attorno in grado di concedergli spazio per attaccare, sono cifre destinate a migliorare.

Nei suoi primi due anni Mitchell ha pagato molto l’assenza di giocatori in grado di sostituirsi a lui sia come costruttori che come finalizzatori. La presenza di Ricky Rubio, Derrick Favors e Jae Crowder facilitava il compito delle difese avversarie, rendendolo l’obiettivo primario dei loro game plan. Per questo le aggiunte di Mike Conley e Bojan Bogdanovic potranno dare una visione migliore della sua reale dimensione, visto che entrambi sono ugualmente in grado di costruire un tiro dal palleggio (in proprio o per i compagni) e soprattutto di punire sugli scarichi. Nella scorsa stagione solo Hawks e Bucks costruivano più triple aperte dei Jazz, che dal prossimo anno avranno tre dei primi quindici realizzatori della lega in questo particolare aspetto del gioco.

Grazie al 43.3% di Conley e al 45.8% di Bogdanovic, i Jazz si sono assicurati due tiratori letali se lasciati aperti. Ed entrambi sono capaci anche di sparare dal palleggio, andando a sommarsi ai già presenti Joe Ingles e Royce O’Neale una batteria di tiratori molto competente.

Inserire due giocatori di quella qualità nel sofisticato sistema di pallacanestro di Quin Snyder potrebbe dargli una grossa mano, sia per attaccare dal palleggio che nella gestione dell’attacco. Mitchell non è un passatore naturale, ma ha buoni istinti e sa trovare i corridoi aperti: quello che gli manca non è certo il coraggio, ma deve imparare a leggere meglio il campo ed evitare di ritrovarsi imbottigliato nel traffico.

Mitchell probabilmente non possiederà mai la capacità di Harden di manipolare le difese e orchestrare un attacco partendo da posizione statica, ma ha più sensibilità di quanto sembri e sta studiando sodo, grazie alle interminabili sessioni video con Snyder e Johnnie Bryant, uno degli assistenti di Utah – considerato un vero e proprio genio dello sviluppo dei giocatori. Come Harden, anche Mitchell ama penetrare a centro area e infatti, in una squadra che utilizza così tanti drive a partita come i Jazz, il prodotto di Louisville è secondo solo al Barba e a DeRozan per punti da questa situazione (10.4). Anche qui l’efficacia è un punto dolente: il 45% è troppo poco per un attaccante del suo livello, ma nel corso della scorsa stagione ha iniziato a smussare gli angoli, riuscendo a commettere meno palle perse e sfruttando meglio il proprio corpo per procurarsi falli e andare in lunetta.

Mitchell è già in grado di tagliare le diagonali di passaggio con entrambe le mani per servire i tiratori aperti.

L’aggiunta di Conley potrebbe far scendere leggermente il suo Usage Rate e “regolarizzare” i suoi possessi: non tanto per togliergli la palla dalle mani (cosa che i Jazz non pensano proprio di fare), quanto per aumentare le armi a sua disposizione e renderlo più efficace. La sua gestione del pick and roll è già di buon livello, con 0.95 punti per possesso che lo posizionano nel 79° percentile della lega, ma quando deve creare dal nulla spesso si perde e in questo Conley e Bogdanovic gli daranno la possibilità di migliorare i numeri in isolamento. Inoltre potrà agire maggiormente anche lontano dalla palla, potendo sfruttare sia la sua cilindrata per attaccare la difesa dopo una ricezione dinamica, sia agendo da tiratore sugli scarichi, dove nella scorsa stagione ha chiuso nel 93° percentile.

Ambizione e consacrazione

Donovan Mitchell è il motivo per cui i Jazz hanno voluto fare le cose in grande durante l’estate, centrando una delle migliori off-season della loro storia, scommettendo su di lui per avere un ruolo da protagonisti nella corsa all’Ovest più aperta degli ultimi anni. Il Mondiale giocato da protagonista con Team USA - per quanto l’esito finale abbia aperto a più critiche che altro - è stato senza dubbio un tassello importante da aggiungere alla sua maturazione, dove sebbene Don abbia confermato di non essere ancora pronto per inclinare le partite al proprio volere come una superstar assoluta, ha fatto vedere spunti interessanti sulla sua capacità di aspettare le partite per poi aggredire quando serve.

L’aver condiviso il parquet con un giocatore come Kemba Walker - per certi versi molto simile, almeno nella metà campo offensiva, a Mike Conley - tornerà utile nella configurazione degli spazi e dei tempi del nuovo attacco di coach Snyder; così come la possibilità di spendere un estate ad ascoltare i consigli di guru come Popovich e Steve Kerr non può che fargli bene sotto il profilo della maturità tecnica.

Mitchell non ha mostrato sempre il miglior lato della luna del suo talento, nel corso della manifestazione, tirando piuttosto male da fuori (34%) e non andando praticamente mai in lunetta (4/4 in tutto il Mondiale) e sembra essere ancora più a suo agio quando viene messo in ritmo e può sfruttare ricezioni dinamiche, piuttosto che essere costretto a creare dal nulla come succedeva spesso anche nella scorsa stagione con i Jazz. Essere l’ unico go-to-guy surriscalda il motore di Mitchell, in grado di tenere tutto sotto controllo nei primi possessi delle partite per poi affrettare conclusioni o accontentarsi delle scelte più scontate nei finali.

La stoppata subita del compagno di squadra Rudy Gobert nel finale della partita contro la Francia è la sintesi perfetta della sua scarsa lucidità nei finali di gara.

Se le doti difensive non sono mai state in discussione - e anche in area FIBA il suo atletismo è stato un bel problema per gli avversari - le note più liete vengono dagli incoraggianti miglioramenti nella visione di gioco, dove a 30 assist distribuiti ha sottratto appena sei palle perse. Avere un supporting cast di un livello tecnico superiore a quello con cui condivide il parquet di Utah lo ha certamente aiutato a mettere insieme numeri migliori, con i tiratori finalmente in grado di punire lo spazio che Don è in grado di creare (ancora, avere Conley e Bogdanovic come compagni di squadra rischia di essere una svolta davvero significativa per la sua carriera), ma Mitchell ha mostrato letture più precise e costanti, bravo nel circumnavigare i blocchi come nello scandagliare con il sonar i movimenti delle difese avversarie.

https://twitter.com/jacobrexlee/status/1171078852157685760

Mitchell ha provato ad essere non solo Spider Man ma anche il nuovo Captain America - o una fusione tra i due, dal momento che adesso che il franchise è fuori dal circuito Marvel la sperimentazione può assumere qualsiasi forma - ma la sua ambizione ha dovuto fare i conti nuovamente con una realtà più cinica e razionale. Poco importa, ci sarà tempo e modo per prendersi un oro: quello che serve adesso per Mitchell è riuscire a mettere insieme tutti i pezzi del suo notevole talento, levigando e smussando gli angoli ancora ottusi e imprecisi per diventare il nuovo prototipo di supereroe in maglia Jazz per tornare a calcare i più prestigiosi palcoscenici della NBA.

Sarà un fardello troppo grande per un giocatore che non ha ancora completato il proprio sviluppo e che non più tardi di tre anni fa sembrava destinato a tutt’altra carriera?

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