A due anni e mezzo dal Mondiale di calcio, che aprirà i battenti il 14 giugno 2018 allo stadio Luzhniki (in piazza del Maneggio a Mosca è già partito il countdown), e col ricordo delle Olimpiadi di Sochi ancora vivo, la Russia si ritrova nella più grande bufera sportiva a memoria d’uomo. Secondo la World Anti-Doping Agency (WADA), Mosca ha barato sui test di centinaia di atleti, sabotando di fatto le manifestazioni internazionali di atletica leggera più importanti, a cominciare dalle Olimpiadi di Londra 2012. Ancora più grave è che il sistema di occultamento delle prove di doping sarebbe stato organizzato e gestito dal ministro dello Sport in persona, Vitalij Mutko, da agenti del Federal’naja sluzba bezopasnosti Rossijskoj Federacii, i servizi segreti conosciuti con la sigla FSB, e da una rete di corruzione che comprende politica e malavita organizzata.
Alla conferenza stampa della WADA si inizia a parlare di “doping di Stato”.
Si tratta del caso di doping più clamoroso degli ultimi vent’anni, in grado di riportare persino in uso la locuzione “clima da guerra fredda”.
Sistema dopato
Trecentoventitré pagine di inchiesta, un uomo e una richiesta clamorosa: il canadese Richard Pound, ex presidente della WADA e oggi a capo della commissione, ha chiesto l’esclusione della Russia da tutte le competizioni di atletica per due anni e la radiazione immediata di un dirigente, quattro allenatori e cinque atleti. Tra questi ci sono Marija Savinova e Ekaterina Poistogova, oro e bronzo degli 800 metri a Londra. Una richiesta del genere vuol dire la rimessa in discussione delle 17 medaglie (8 d’oro) vinte dal Paese di Vladimir Putin nelle gare di atletica delle Olimpiadi 2012 e l’impossibilità di partecipare a quelle di Rio della prossima estate. Il CIO, infatti, si è detto pronto a ritirare le medaglie degli atleti russi.
https://www.dailymotion.com/video/x2uj1t9_mariya-savinova-rus-wins-800m-gold-london-2012-olympics_sport
Le due russe fiaccano le regine keniane.
Tra gli allenatori coinvolti risulta il nome di Viktor Chegin, gran capo della marcia russa con il poco invidiabile record di atleti allenati positivi ai test antidoping: 20. Chegin viene squalificato a luglio dalla sua federazione, ma continua a imperversare nonostante il suo impressionante curriculum. Diversi atleti russi non mettevano nella loro scheda di reperibilità il loro numero di telefono, ma quello di Chegin. Per lui ora la WADA raccomanda la squalifica a vita.
L’occhio del ciclone è il centro antidoping russo, costruito nel 1976, al numero 10 di via Elisavetinskij nella zona orientale di Mosca, per preparare le storiche Olimpiadi del 1980, quelle in cui fare incetta di medaglie e mostrare al mondo la forza e la preparazione del mondo dietro la cortina di ferro, sfruttando il fatto che gli americani non avrebbero partecipato. Il capo dell’Agenzia Antidoping di Mosca (ADC), Grigorij Rodchenkov, è accusato di aver distrutto 1.417 provette compromettenti su richiesta diretta del ministero dello Sport e con la collaborazione dei servizi segreti.
Lo stesso FSB è accusato di aver impiantato un laboratorio fantasma per fare “controlli preliminari”. Un laboratorio di Stato “parallelo”, più attrezzato di quello ufficiale. Diretto dallo scienziato Giorgi Bezhanishvili, il laboratorio era specializzato nel neutralizzare i campioni biologici positivi e conservava grandi quantità di urina “pulita” per eventuali rabbocchi. Attiguo al centro, un polo trasfusionale risolveva ogni problema. Sergey Portugalov, capo della commissione medica federale russa, procurava e dosava il doping agli atleti.
I controlli a sorpresa, arma fondamentale dell’antidoping moderno, in Russia si sono dimostrati inefficaci: tra marzo e maggio 2015, emissari della WADA hanno visitato senza preavviso i centri di allenamento riservati a marciatori e maratoneti, hanno scoperto che nel campus olimpico di Saransk, sperduta repubblica autonoma della Mordovia, gli atleti (obbligati a presentarsi entro 15 minuti dall’arrivo dei controlli) apparivano dopo molte ore qualificandosi sotto falso nome. Nelle schede di reperibilità, le mail e i numeri di telefono appartenevano ai dirigenti. Erano loro a essere avvisati, molto tempo prima dei controlli.
Il doping era così sfrontato che, grazie ai prelievi nelle competizioni internazionali, alcuni atleti sono stati comunque trovati positivi o con alterazioni clamorose del passaporto biologico. Ecco che scattava il piano B: all’atleta veniva chiesto, secondo l’accusa, denaro per coprire il caso, rallentando le procedure di sanzione. A quel punto, spiega la WADA, la International Association of Athletics Federation (IAAF) iniziava una lunga melina per permettere ai sospetti di preparare la loro difesa senza essere incriminati. È su questo aspetto che si concentreranno le indagini dell’Interpol.
Inoltre, a chiusura del cerchio di doping e corruzione, gli atleti sotto squalifica venivano fatti regolarmente gareggiare sotto falso nome nelle competizioni nazionali e internazionali sul suolo russo, in modo da farsi trovare pronti al rientro alle gare. In Russia la federazione pensava a tutto. Anche alla redenzione dei peccatori.
L’inchiesta in atto si occupa solo di atletica, ma la WADA ha voluto precisare che forti sono i sospetti che i servizi segreti russi abbiano manipolato anche i dati degli atleti impegnati nelle Olimpiadi di Sochi, fiore all’occhiello di Putin e miniera di vittorie senza precedenti, con ben 33 medaglie conquistate (13 gli ori) e il primo posto nel medagliere, quando nell’edizione del 2010 a Vancouver la Russia aveva vinto appena tre gare e si era piazzata undicesima.
Origini del disastro
Le indagini di Dick Pound sono iniziate nel dicembre 2014, quando un documentario trasmesso dal canale tedesco ADR dal titolo "The Secrets of Doping: How Russia makes its winners" raccontò attraverso la storia di Vitaliy Stepanov e Yulia Stepanova, un dipendente dell’agenzia antidoping russa e un’ex atleta squalificata per doping, il vasto e regolare uso di doping fra gli atleti russi. Nel documentario veniva raccontata la facilità con cui gli atleti russi potevano avere EPO, l’eritropoietina, la sostanza dopante generatrice di tutti gli ultimi scandali nello sport.
Ad agosto di quest’anno l’ADR e il settimanale britannico Sunday Timeshanno dichiarato di essere in possesso della lista Fischetto e che, dopo aver fatto analizzare gli esami da due scienziati australiani, era stato evidenziato un uso capillare di sostanze dopanti fra gli atleti, di cui circa l’80 per cento di nazionalità russa. Sia Russia che Kenya, l’altra nazione maggiormente coinvolta dalle accuse, hanno sempre negato di aver qualcosa a che fare con l’uso di sostanze dopanti, mettendo in dubbio l’autenticità dei dati diffusi negli ultimi mesi.
La cosiddetta lista Fischetto prende il suo nome da un medico italiano, Giuseppe Fischetto, ritrovato in possesso di un enorme, e per anni dimenticato, database della IAAF. Circa 12.365 test ematici su 5.000 atleti nel periodo 2001 - 2012. Lì c’è la storia ematica dell’atletica dell’ultimo decennio. Dati che raccontano l’evoluzione recente di uno sport, rimasti sepolti fino a quando la Procura di Bolzano, che indagava sul doping del marciatore azzurro Alex Schwazer prima dei Giochi di Londra, non li ha riportati alla luce.
Il sequestro di quel database al medico italiano, responsabile dell’antidoping federale e contemporaneamente esperto della federazione internazionale, adesso a processo per aver favorito, secondo l’accusa, il doping dell’altoatesino, ha aperto il vaso di Pandora.
Fischetto disponeva di dati in chiaro senza averne diritto e per questo è accusato dalla Procura di Roma di violazione della privacy. In quanto esperto IAAF aveva il compito di segnalare casi e valori sospetti, in una situazione di evidente conflitto, dovendosi occupare contemporaneamente dei “suoi” italiani e degli avversari degli stessi. Intorno c’era un silenzio incredibile su alcuni dati controversi, come ad esempio l’ematocrito del fondista britannico di origine somala Mo Farah, oro su 5 e 10mila a Londra, che era salito negli anni 2007 – 2013 da 39,7% a un ben più alto 44,5% e l’emoglobina da 13,9g/dl a 16,5g/dl.
I numeri in sé non sono fuori norma, infatti solo un ematocrito sopra il 50% porta allo stop precauzionale dell’atleta (vedi Marco Pantani a Madonna di Campiglio 1999). Il fatto che crescano così di anno in anno non è usuale però. Una crescita che coincide con l’exploit dei risultati dell’atleta britannico, e questo potrebbe far pensare che nel corso della sua carriera gli indicatori, invece di restare costanti, sarebbero aumentati. La IAAF ha ritenuto di considerare sospetti i parametri di Farah senza giungere a una conclusione.
Molti si chiedono se le vittorie di Farah siano effettivamente pulite.
In relazione alle indagini della WADA, il 4 novembre sono stati arrestati l’ex presidente della IAAF Lamine Diack (predecessore dell’attuale presidente Sebastian Coe) e altri importanti membri dell’organizzazione, tutti accusati di aver coperto diversi casi di doping negli ultimi anni e di aver ricevuto in cambio alcune grosse somme di denaro. Secondo le autorità francesi, Diack avrebbe ricevuto più di un milione di euro per coprire alcuni atleti risultati positivi ai controlli antidoping. Diack è stato sospeso dalla carica di membro onorario del CIO.
Sandro Donati, campione della lotta contro il doping e attuale consigliere WADA, lancia il suo allarme dalle pagine di Repubblica: «Nel Codice WADA nulla è previsto nel caso che a fare o coprire il doping siano le istituzioni: federazioni nazionali, internazionali, comitati olimpici, agenzie nazionali. Una lacuna gravissima che rende l’antidoping attuale una lotta solo di facciata».
Il corpo dello Stato
Quanto accade in Russia non è un caso nuovo o isolato, già altre volte si è parlato di doping di Stato e sempre per nazioni di quel blocco orientale, che abbiamo iniziato a chiamare così nello stesso momento in cui abbiamo conosciuto il concetto di guerra fredda. Questa espressione è stata usata per la prima volta da George Orwell nel 1945 nell’articolo scritto per il Tribune, “You and the atomic bomb”, nel quale preconizzava uno scenario in cui Stati Uniti e Unione Sovietica, non potendo affrontarsi direttamente, avrebbero finito per dominare e opprimere tutti gli altri.
La guerra fredda secondo l’Istituto Luce.
La tensione, creatasi tra l’Occidente della NATO e l’Oriente del Patto di Varsavia, durata circa mezzo secolo, non si è infatti mai concretizzata in un conflitto militare diretto. Ha portato le due potenze a una corsa all’armamento nucleare e si è sviluppato nel corso degli anni incentrandosi sulla competizione in vari campi, contribuendo almeno in parte allo sviluppo ed evoluzione della società stessa con l'avvento della terza rivoluzione industriale. Tra i campi di competizione serrata, in posizione privilegiata c’è stato certamente lo sport.
Il doping di Stato è il passo oltre le capacità umane degli atleti di dare lustro alla propria patria. Vincere sul terreno di gioco diventa fondamentale quando la conquista dello spazio non tira più tanto e la guerra termonucleare crea sgomento più che sogni di gloria. Il corpo dell’atleta è proprietà dello Stato, usato come la terra coltivata a OGM: si succhia tutto quello che si può e poi si butta via.
La prima volta è stata con la Germania Est, un piccolo paese dal grande ego. Appena 16 milioni di abitanti, eppure in cinque apparizioni alle Olimpiadi estive (dal 1968 al 1988, escluso ill 1984) e in sei a quelle invernali ha messo le mani su 519 medaglie, di cui 153 d’oro. Densità mai raggiunta nemmeno dai capibastone USA e URSS, due superpotenze ridicolizzate. La DDR pianificava anche per lo sport piani di sviluppo, quadriennali invece che quinquennali, per essere pronti a dominare Olimpia: pista e piscina erano i terreni preferiti, le donne più facili da costruire degli uomini a essere portatrici di gloria.
Nessuna lanciava come Heidi.
Heidi Krieger a 15 anni lancia il peso a 14 metri di distanza, a 18 pesa cento chili, ha il vocione e si fa la barba ogni mattina. Nel 1986 diventa campionessa europea lanciando a 21,10 metri. Nessuno al mondo poteva tanto. Ha vent’anni e da cinque prende sotto prescrizione dei medici federali due pillole blu al giorno: 3000 milligrammi di Oral Turinabol (nel solo 1986), uno steroide made in DDR. Mille in più di quelli che consentiranno a Ben Johnson di mangiarsi i 100 metri di Seul con due limoni al posto degli occhi. Nel 1991 la carriera di Heidi Krieger è già finita, il corpo macinato.
Quello che non è finito è il suo calvario. Oggi Heidi non esiste più, dal 1997 c’è Andreas, che vive a Magdeburgo ed è sposato con Ute Krause, ex nuotatrice, dopata di Stato e per vent’anni afflitta da bulimia. Entrambi hanno tentato il suicidio prima di conoscersi. L’attestato del titolo mondiale vinto da Ute nel 1978 è appeso alla parete del bagno di casa.
Allyson Felix, campionessa del mondo 2015, in questa gara non sarebbe nemmeno sul podio.
C’è poi la storia di Marita Koch, la dominatrice del giro e del mezzo giro di pista per dieci anni: dal 1976 al 1986 ha vinto 10 titoli europei, quattro mondiali e l’oro olimpico a Mosca 1980 nei 400 metri. Proprio dei 400 detiene ancora oggi il record mondiale, stabilito a Canberra il 5 ottobre 1985: 47’’60, un record spaziale che rimarrà a lungo, visto che oggi si corre quasi due secondi più piano. Marita ha sempre negato di aver assunto steroidi, benché documenti svelati dopo la caduta del Muro di Berlino riportassero il suo nome tra gli atleti coinvolti nei piani della federazione.
Inavvertenze occidentali
Ma anche dall'altra parte della cortina non sono mancati scandali e coperture tentate e, forse, meglio riuscite. Il capolavoro in tal senso rimane la finale dei 100 metri alle Olimpiadi di Seul '88: il canadese Ben Johnson arriva sul traguardo con il braccio alzato, gli occhi paglierino, col tempo impossibile di 9”79. Lo tradisce l’esame antidoping, che rivela la presenza di un massiccio steroide anabolizzante.
L’oro viene assegnato a Carl Lewis, che ai trials era risultato positivo all’efedrina, l’inglese Linford Christie, trovato positivo anche lui, ma dopo la finale dei 200 metri, viene riammesso perché i giudici accettano la versione che la sostanza dopante fosse contenuta in un tè al ginseng bevuto a Seul, e anche il quarto, l’americano Dennis Mitchell, ha lasciato più di un dubbio.
I centometristi arrivati alla finale di Seul sono finiti tutti sotto accusa.
Seul è un punto di non ritorno: il giorno in cui si corsero i primi cento metri interamente drogati della storia. Wade Exum, ex direttore del controllo antidoping del comitato olimpico americano, pubblica nel 2003 un dossier di 30mila pagine dichiarando che dal 1988 al 2000 la positività di molti atleti USA era stata insabbiata. E che in Corea del Sud 12 atleti a stelle e strisce, già risultati positivi nel corso dell’anno, erano stati coperti. Questa la lettera che ricevette il velocista DeLoach: «Caro Joe, questa è la notifica formale che ti devo inviare da protocollo. Ma come sai non c’è sanzione per la tua inavvertenza. Buona fortuna».
Anche l’Italia ha avuto il suo momento di gloria, intesa al modo della Germania Est. All’inizio degli anni ‘80 il CONI affida al professor Francesco Conconi e al suo laboratorio di Ferrara una delega medico-scientifica per seguire gli atleti. La dimostrazione che il metodo Conconi funziona è la vittoria di Alberto Cova a Los Angeles ’84 nei 10mila metri. Ma il trionfo di quello che è stato condannato solo nel 2003 come doping del sangue si ha a Lillehammer ’94, le Olimpiadi invernali in cui l’Italia raccoglie 20 medaglie. Come documentato in seguito, molti degli atleti dello sci di fondo registrano un tasso di ematocrito superiore al 50%: il dato costituisce un indizio dell'uso dell'eritropoietina (EPO) e comporterebbe oggi (ma non nel 1992 e 1994) la sospensione dell'atleta in via cautelativa per motivi di salute.
Alberto Cova campione olimpico grazie al lavoro del prof. Conconi.
Assistente di Conconi è quel Michele Ferrari re delle autotrasfusioni di sangue che preparò il ciclista Francesco Moser al record dell’ora e che lega il suo nome all’ascesa e caduta del fenomeno del ciclismo mondiale, Lance Armstrong, e di tutta la sua squadra, la US Postal. La testimonianza del ciclista Filippo Simeoni svela al mondo l’uso indiscriminato di eritropoietina e testosterone nel 2002. Questo porta alla sua emarginazione nel mondo del ciclismo oltre che a una scena mai vista sulla strada. Armstrong ammette per la prima volta di aver fatto uso di doping soltanto il 17 gennaio del 2013 nel programma di Oprah Winfrey.
Persino la Finlandia ha avuto il suo scandalo doping. Durante i Mondiali di sci nordico del 2001 viene ritrovata una sacca piena di prodotti per le autotrasfusioni in una stazione di servizio di Helsinki, mentre viene provata la positività all’HES (una sostanza che espande il sangue) del campione di fondo Janne Immonen. Nel frattempo viene confermata la squalifica di Jari Isometsä, altro mostro sacro della corsa con gli sci. Sono i giorni più neri della Finlandia e la stampa arriva a scrivere: «Siamo come la Germania Est». Non è la prima volta per i finnici: si diceva che Lasse Virén, oro olimpico nei 5 e 10mila a Monaco ’72 e Montreal ’76, facesse uso dell’emotrasfusione, all’epoca non vietata.
L’armata di Ma
A metà degli anni ’90 arriva la Cina delle donne del fondo, la cosiddetta "Ma family army". Ma Junren è il padre padrone di questa macchina perfetta, troppo perfetta a detta di molti. La nuova Cina vuole visibilità, lo sport individuale e di fatica è la vetrina perfetta per la sua rivoluzione contemporaneamente capitalista e comunista. La lunga marcia è finita, ora bisogna correre e dragare medaglie. Arrivano gli ori e i record delle cinesi figlie del buon padre Junren, che le nutre a sangue di tartaruga.
Non c’è fatica sul viso di Wang.
In particolare le predilette sono Wang Junxia e Qu Yunxia, le chemical sisters, secondo la definizione di Matt Lawton, giornalista del Daily Mail. Junxia ha corso per cinque anni, a rotta di collo come si sarebbe detto un tempo. Tra il 1991 e il 1996 ha dato un’altra dimensione alla corsa sulla lunga distanza. Nel solo ’93 ha ritoccato tutti i record asiatici dai 3000 alla maratona. Ai Mondiali di Stoccarda di quello stesso anno, mentre le figlie di Ma vincono tutte le gare di fondo, lei si laurea campionessa con un record inconcepibile: 29’31’’78. Che significa 42 secondi sotto il precedente limite e prima donna a infrangere il muro dei 30 minuti. Dopo di lei ce l’hanno fatta solo in quattro, tutte etiopi di nascita e nessuna è scesa sotto i 29’50’’.
Wang sparisce dai radar occidentali per tre anni e ricompare ad Atlanta, dove si laurea campionessa olimpica nei 5.000 e arriva seconda nei 10.000, dove non perdeva da 13 gare consecutive, battuta dalla portoghese Fernanda Ribeiro. Ma a quel tempo Ma Junren non è più il suo allenatore e i tempi di Wang sono tornati intorno ai 31’.
Rarissime immagini di Qu Yunxia.
La storia di Qu Yunxia è ancora più breve: bronzo sui 1500 metri a Barcellona ’92, oro ai Mondiali di Stoccarda l’anno dopo nei 3000 metri e un mostruoso 3’50’’46 sempre sui 1500 ai Giochi della Repubblica Cinese il 9 novembre. Un record durato 22 anni e battuto soltanto quest’estate da Genzebe Dibaba. Poi Yunxia è sparita. L’esercito di Ma vince nel Mondiale tedesco sei medaglie sulle nove a disposizione tra 1.500, 3.000 e 10.000, poi si dissolve. A Göteborg, due anni dopo, non c’è traccia di alcuna delle atlete medagliate di Stoccarda.
Nel 1997 arriva una nuova infornata di sconosciute adolescenti e la seconda collezione di risultati incredibili, stavolta ottenuta a Shanghai. La ventenne Bo Jiang (3’50’’98) e la diciottenne Yinglai Lang (30’51’’34) sfiorarono il record sui 1.500, mentre sui 5.000 prima Dong Yanmei (14’31’’27) e poi Bo Jiang (14’28’’09) spazzano via il 14’36’’45 di Fernanda Ribeiro. Poi spariscono nel nulla, come le colleghe di quattro anni prima. Di loro sono rimasti i tempi marziani, inavvicinabili per quasi tutte le atlete arrivate nei venti anni successivi. E una montagna di sospetti.
La Federazione mondiale di atletica leggera non ha mai cancellato i risultati ottenuti dalle atlete cinesi. Junren, cacciato dalla squadra olimpica alla vigilia di Sydney 2000, dopo la squalifica per doping di sei atlete e la scoperta di gravi problemi di salute di molte ex figlie prodigio, si è sempre difeso dicendo che i suoi segreti erano nella fantasiosa alimentazione. Dal sangue di tartaruga già citato, al ragù di cane, ai funghi dei bruchi morti. E ai suoi metodi di allenamento, che lo hanno portato a essere accusato di violenze e molestie.
Oggi Ma alleva mastini da competizione, dopo essere stato per anni assessore allo sport nella regione di Liaoning nel nord della Cina, la sua terra di origine.
Nascondere i corpi, in questo caso di persone vive, è la tattica usata da tutti gli Stati coinvolti dal doping. Lo ha fatto come visto la Cina e lo sta facendo la Russia. Grigorij Rodchenkov, accusato di occultare il doping, di estorcere soldi agli atleti e di aver distrutto i 1.417 campioni sospetti, si è già dimesso e anche il suo laboratorio di analisi verrà chiuso.
Per il resto il sistema viene difeso. Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, dichiara che «le accuse, finché non saranno fornite prove, sono prive di fondamento». E se Valentin Balakhniciov, per oltre 20 anni presidente della federazione di atletica russa, annuncia l'intenzione di ricorrere al Tribunale sportivo di arbitrato a Losanna per «difendere i miei interessi personali e quelli del Paese», il suo successore, Vadim Zelicionok ammette che il doping è stato un problema in passato, ma assicura che «ora non c'è corruzione, posso giurare sulla Bibbia».
Intanto la WADA tira dritto, con Dick Pound che ha già anticipato i prossimi obiettivi. Rischiano grosso i paesi africani dominatori delle discipline di resistenza, Kenya ed Etiopia. Tremano anche i nuovi fenomeni turchi, già decimati da una recentissima indagine interna che ha squalificato 31 atleti. Il nuovo rapporto della Federazione Antidoping arriverà entro due mesi.