Negli ultimi anni si parla sempre di più del livello e dello stato dell'arte del campionato italiano. Anche quest'anno i temi del dibattito sono tanti, a cominciare dal VAR per arrivare alla valorizzazione dei giovani e alle tendenze tattiche. Abbiamo provato ad affrontare sette grandi e difficili questioni, se non per dare delle risposte univoche almeno per offrire dei punti di vista interessanti.
Speriamo vi piaccia, buona lettura!
1. Il VAR aumenta o diminuisce le polemiche?
Dario Saltari
L’introduzione dei VAR, dopo un’inevitabile fase di digestione iniziale, probabilmente porterà ad una diminuzione delle polemiche, ma non per i motivi che di solito si adducono, e cioè che porti effettivamente ad una riduzione degli errori arbitrali. In realtà, già considerarli errori significa nella maggior parte dei casi partire da una base logica erronea. La cosa da tenere bene a mente quando si parla dei VAR, infatti, è che non stiamo parlando di un computer che può calcolare la correttezza delle chiamate dell’arbitro (il calcio è uno sport con un sistema di falli poco codificato e le decisioni possono cambiare molto da arbitro a arbitro, senza essere per questo sbagliate), ma di due persone - due arbitri - che rivedono gli episodi più controversi in video.
I VAR, quindi, possono sbagliare o prendere decisioni su cui lo spettatore non è d’accordo tanto quanto l’arbitro (l’abbiamo già visto con l’intervento di Skriniar in Roma-Inter o il rigore su Galabinov in fuorigioco in Genoa-Juventus) e in realtà portano ad una reale miglioramento dell’occhio arbitrale in una frazione di episodi molto più limitata di quanto non si pensi: i gol segnati o i rigori assegnati in fuorigioco netto, i casi di mistaken identity (quando l’arbitro ammonisce o espelle il giocatore sbagliato) o quelli di violenza a palla lontana. In tutti gli altri casi, che per nostra sfortuna sono anche i più controversi (assegnazione o meno di un rigore, annullamento o meno di un gol per fallo, alcuni casi di espulsione diretta), i VAR non possono fare altro che proporre il proprio punto di vista soggettivo all’arbitro, che poi decide se accettarlo o meno.
La riduzione delle polemiche, secondo me, verrà come conseguenza del fatto che i VAR formano le proprie decisioni sulle stesse immagini televisive con cui l’opinione pubblica decide se fare polemica o meno, e sotto questa spada di Damocle gli arbitri tenderanno sempre di più ad abdicare al proprio potere decisionale in favore dei VAR e quindi, indirettamente, del pubblico. Anche se il campione statistico è ancora limitatissimo, è interessante notare che già in queste prime giornate tutte le volte in cui un mancato fischio è stato messo in discussione dai VAR, l’arbitro ha sempre deciso di cambiare la propria decisione. È paradossale, perché si spinge l’arbitro a fidarsi di più di un’immagine zoomata e rallentata che dei suoi occhi a pochi metri dall’azione, ma in questo modo si dà al pubblico l’illusione che un errore sia stato corretto.
Fabrizio Gabrielli
Uno degli aspetti più interessanti dell’introduzione del VAR è la sua sfaccettatura culturale: come nella trama di un romanzo sci-fi di Asimov dagli esiti ribaltati, la tecnologia, anziché trasformarsi in una minaccia potenzialmente distruttiva, viene investita del compito di restituire all’essere umano la serenità perduta. Rizzoli, che ha illustrato a ogni singolo uomo coinvolto nei processi decisionali degli arbitri in campo il funzionamento del VAR in un tour pedagogico prima dell’inizio del campionato, ha raccontato di aver riscontrato come «giocatori, allenatori, dirigenti e pubblico hanno accettato il cambio di alcune decisioni con grande serenità». È un concetto fondante della nuova Serie A, la serenità, o almeno uno spunto promozionale, perché potrebbe permette di gettare le basi di un nuovo inizio. A quella stessa pacatezza d’animo ha accennato anche Buffon, che anziché effetto l’ha individuata come causa in mancanza della quale il cambiamento è stato percepito come necessario: davvero ci voleva un’innovazione di questa portata per tornare a mettere, al centro del villaggio, il campanile della meritocrazia, della libertà di giudizio del valore di tutte le parti coinvolte?
Se ci aspettavamo grosse rivoluzioni, forse quattro giornate non sono sufficienti per darcene prova: alla fine i rigori assegnati sono stati esattamente quelli dell’anno scorso. Cambia però la percezione del pubblico che a goderne, o a subirli, non siano stati gli stessi attori che, tradizionalmente, in virtù di una legacy costruita negli anni più nell’immaginario che nella realtà, li hanno sempre subiti o ne hanno goduto. Questo, soprattutto in partenza (perché poi la bilancia cosmica finirà per tornare in equilibrio, inevitabilmente) è sembrato il successo più grande del VAR: lo sgretolamento, o l’idea che se ne stesse compiendo uno, dei falsi miti, dei pregiudizi, delle nomee.
Dario Saltari
Oltre all’impatto culturale sul pubblico, che ha già sviscerato Fabrizio, bisogna infine parlare dell’effetto che i VAR hanno e avranno sul gioco, aspetto in cui mi sembrano si annidino i problemi principali. La criticità maggiore mi sembra ci sia sui calci di rigore e sui falli in area che portano all’annullamento di un gol. L’immagine televisiva non è imparziale e neutra come sembra, e un giudizio su un episodio di questo tipo può cambiare radicalmente a seconda dell’inquadratura e della velocità a cui è portata l’immagine - lo slow motion, in particolare, tende a dare l’impressione che un contatto sia stato molto più duro di quanto non sia stato dal vivo. In questi casi, quindi, ci potrebbe essere il pericolo che l’arbitro venga confuso più che aiutato. Pensiamo anche ai casi di espulsione diretta per gomitata, che rivisti rallentati al replay possono sembrare molto più gravi di quanto non siano stati in realtà (c’è stato un episodio di questo tipo abbastanza controverso durante il Mondiale U-20, ad esempio).
Poi c’è il problema dei tempi di gioco. Al di là della semplice quantità dei minuti di recupero, che mi sembra più un pretesto degli allenatori e dei tifosi per contestare l’operato dell’arbitro, c’è più che altro la questione dell’interruzione del flusso di gioco, che a volte oltrepassa i confini della “naturalità” (cioè di quello a cui eravamo abituati finora) fermando l’azione per troppi minuti. Questa è una preoccupazione reale dell’IFAB (l’organo che decide sulle regole del gioco) che nelle sue linee guida, però, afferma chiaramente che l’accuratezza della revisione dei VAR è più importante della velocità a cui si arriva alla decisione finale. Soprattutto nelle partite più tese e combattute, i VAR rischiano quindi di spezzare il filo emotivo della partita. La soluzione di cui si parla più al momento, e cioè il tempo effettivo, magari solo per gli ultimi (10? 20?) minuti di partita, potrebbe peggiorare ulteriormente il problema, allungando il tempo di gioco indefinitamente e rendendo i finali di partita, che basano il loro pathos proprio sull’esaurimento del tempo, più noiosi di quanto non siano attualmente. Forse sarebbe meglio prendere spunto da altri sport e impostare un numero di chiamate della revisione dei VAR limitato per ogni allenatore (magari 2), come succede già nel tennis e nel football americano. In questo modo, si limiterebbe l’invadenza dei VAR nel flusso di gioco e si darebbe anche l’impressione agli allenatori, ai giocatori e ai tifosi di avere un’arma contro i presunti torti arbitrali.
2. Quale strategia di mercato pagherà di più: rivoluzione o conservazione?
Daniele Manusia
Anche se non sono amante delle opposizioni troppo nette vorrei difendere l’argomento della “conservazione” come possibile alternativa a quello della “rivoluzione” che mi sembra essere diventata la quotidianità di molte squadre non di prima fascia. Anzitutto perché tenere i propri giocatori migliori dovrebbe essere considerato come parte del mercato: sui giocatori in rosa è stato già fatto un lavoro tecnico, tattico e di ambientamento, che andrebbe calcolato come investimento per ogni nuovo acquisto (ovviamente non parlo di squadre che possono comprare Neymar). È un “costo” intangibile, difficile da misurare e comunque fuori dai bilanci, per questo si può tranquillamente non tenerne conto finché l’eventuale nuovo acquisto avrà deluso di brutto le aspettative: anche a quel punto, però, si parlerà del giocatore con cui sostituirlo, facendo ricominciare la giostra da capo. Non converrebbe aumentare gli investimenti quotidiani sulla squadra, su tutte quelle cose che possono migliorare le condizioni in cui vive e lavora, che possono ulteriormente professionalizzare il gruppo già a disposizione, piuttosto che su risorse esterne?
Dico questo perché, oltretutto, sono dell’idea che escludendo il 5% composto dai migliori giocatori del pianeta la differenza tecnica non sia così marcata da giustificare da sola un nuovo acquisto. Mi sembra che moltissimi scambi siano a somma zero dal punto di vista strettamente tecnico (tattico e atletico) e che poi la differenza tra le prestazioni di un giocatore o di un altro dipendano in gran parte dalle connessioni con i compagni (difficili da anticipare e comunque non molto considerate quando si parla di fanta-mercato), dall’adattabilità alle richieste dell’allenatore (e quindi dalla coordinazione tra allenatore e DS), dallo stato mentale e fisico del giocatore stesso (anche questo difficile da prevedere). Anziché lavorare su altre variabili con cui si può migliorare una squadra per un periodo anche lungo, si tenta sempre la strada più breve: l’acquisto che può svoltarti una stagione, o anche un paio, e che magari al momento della rivendita possa finanziarti altri acquisti con cui mandare avanti la giostra.
Un'alternativa sarebbe quella in cui un allenatore lavora sulle proprie idee con un gruppo di giocatori collaudati, tenendo, anche con dei sacrifici, i migliori, con la possibilità che magari i dirigenti si concentrino su tutti quegli altri dettagli che mandano avanti un club ogni giorno, senza la pressione di dover portare un nome che sazi la piazza ogni sei-dieci mesi. Ci sarà una ragione se certi giocatori, diciamo così, “normali” in alcune squadre diventano “qualcosa di più che normali”, mentre certi altri con un talento naturale evidente appassiscono come cactus in una cantina buia?
Quest’anno ci sono alcune squadre che si sono dette che difficilmente sarebbero riuscite ad alzare il proprio livello tecnico e che non per questo saranno meno competitive, anche se su differenti livelli. Il Napoli su tutte, ma anche l’Inter (pur cambiando allenatore il gioco e i giocatori sono in decisa continuità con alcuni princìpi dello scorso anno), il Chievo, il Bologna (mentre uscendo dall’Italia l’esempio principale è quello del Tottenham). Adesso, non sempre a questo tipo di mercato, o di non-mercato, si accompagnano dei cambiamenti strutturali o un tipo di gioco che richiede apprendimento lento e profondo, ma sono curioso di vedere se in alcuni casi non basterà semplicemente lasciare che i giocatori giochino per due anni di seguito insieme ad alzare le prestazioni della squadra.
Francesco Lisanti
If it ain’t broke, don’t fix it è sempre una valida strategia di mercato, d’altra parte mi rendo conto che la maggior parte dei direttori sportivi si trovi di fronte al problema opposto: ritrovare la credibilità per tornare a vincere dopo anni di sconfitte. È banale dirlo oggi, ma la nuova dirigenza milanista non avrebbe mai ricevuto lo stesso credito, dalle banche, dalla stampa e dai tifosi, se avesse insistito sul centrocampo Sosa-Poli-Kucka-Bertolacci per risalire la china del calcio mondiale.
Alle condizioni attuali, programmare il futuro di una società di calcio significa tenere in conto fattori come le dimensioni del mercato e la solidità del brand. Soltanto una società con un forte bacino economico e di tifosi alle spalle può permettersi di assorbire senza contraccolpi il fallimento sportivo, come ha fatto il Manchester United dopo Moyes e Van Gaal. In questo senso è più utile inquadrare la rivoluzione come una strategia comunicativa, piuttosto che una strategia di mercato: il Milan ha scelto (perché poteva permetterselo) di restituire da subito l’immagine di una grande società, per poterci costruire sopra con il tempo una grande squadra.
Presumo che il mercato aggressivo sottintendesse una precisa priorità, trascendente da valutazioni tecniche: recuperare il prima possibile quella fetta di pubblico che negli ultimi anni si era allontanata dal club. Il dato degli abbonamenti sottoscritti negli ultimi anni segnalava vertiginose vette di disaffezione, fino al paradosso per cui il Verona di quest’anno, costruito per salvarsi a forza di preghiere, ha registrato più abbonati del Milan della passata stagione. Impressionante, se pensiamo ai vent’anni di vittorie in Italia e in Europa, anni in cui la maggior parte dei tifosi di calcio contemporanei cresceva e formava la propria cultura calcistica.
Certo, per inseguire questa visione i dirigenti hanno dovuto accontentarsi di strappare ogni opportunità disponibile, lasciando a Montella una rosa non perfettamente funzionale, senza le istruzioni per l’assemblaggio. Eppure questo travolgente calciomercato, capace di sollevare l’asticella delle aspettative settimana dopo settimana come una serie tv ben costruita, ha portato 65mila persone allo stadio per un preliminare di Europa League contro il CSU Craiova, una partita che sotto una luce diversa sarebbe stata la metafora perfetta per descrivere la caduta dell’impero.
In un campionato che non smette di innovarsi sul piano della ricerca tattica, e che pure fatica a tenere il passo della competizione in termini di stadi pieni e appeal commerciale, ho apprezzato particolarmente la forza del messaggio: la rivoluzione è servita, venite già mangiati.
3. Quali tendenze tattiche stagionali possiamo prevedere?
Emiliano Battazzi
Fino a pochissime stagioni fa, la difesa a 3 dominava incontrastata in Serie A: Conte, Montella, Gasperini, Mazzarri, Ventura lo usavano costantemente, mentre molti altri, da Guidolin a Donadoni, da Mandorlini a Reja, ne facevano un uso moderato. Lentamente, abbiamo esportato l’importanza della difesa a tre nel difendere i mezzi spazi e consolidare l’inizio azione in Premier League, dove Conte ha praticamente costretto tutti gli altri ad adeguarsi (persino Wenger!); ma nel frattempo, in Serie A, cominciava a perdere peso, in favore della classica linea difensiva a 4. Nella nuova Serie A, di convinti assertori della trinità difensiva abbiamo solo Gasperini e il suo discepolo Juric, con un’applicazione però molto specifica di marcature a uomo in tutte le zone del campo, e Semplici. Ad usarla spesso ci sono poi Simone Inzaghi alla Lazio, Montella al Milan (che però è ancora un po’ titubante), e adesso anche Bucchi al Sassuolo (ma potrebbe essere una soluzione temporanea).
Il temporaneo offuscamento della linea a 3 (la celebreremo ancora, vedrete, magari anche durante questa stagione) potrebbe essere dovuto a varie motivazioni, tra cui una generale diffusione del tridente offensivo (si va in parità numerica con l’attacco avversario), la scarsa necessità di consolidare il possesso iniziale (sia per una generale mancanza di pressione alta, sia perché quasi nessuno segue principi posizionali), e le necessità di non perdere un uomo a centrocampo (nella versione a cui siamo più abituati, gli esterni si abbassano a comporre una difesa a 5: ma per Cruyff, invece, giocare a 3 significava liberare un uomo in zone avanzate di campo. Anche per i moduli, todo depende).
Questa esigenza si interseca pienamente con le motivazioni dell’eterno ritorno della difesa a 4: mi sembra che in molti stiano facendo attenzione a sistemare gli uomini tra le linee, sulla trequarti, ed è lì che per la Serie A conta davvero la superiorità posizionale. E oltre a concederti un uomo in più per la trequarti, la difesa a 4 consente anche di creare superiorità numerica sulle fasce, con l’utilizzo dei terzini come vere e proprie armi offensive. Il Real Madrid di Zidane insegna (ma anche la nuova versione del City di Guardiola): attaccare in ampiezza con i terzini è rischioso ma può pagare altissimi dividendi, perché permette alle ali di occupare gli spazi di mezzo e crea un enigma quasi irrisolvibile per la difesa avversaria. E infatti anche in Serie A le squadre di vertice cercano elementi sempre più di spinta: oltre ad Alex Sandro, ci sono a Karsdorp e Kolarov (e sta per tornare Emerson), Conti e Rodriguez, Dalbert e Cancelo (talmente offensivi che per ora Spalletti non li fa giocare), e poi Romulo, Lirola, Masina, Gaspar e via dicendo. Insomma, il trend è usare le fasce per sorprendere gli avversari in ampiezza: con gli esterni a tutto campo richiesti in un 3-5-2 è molto più complicato, ad eccezione dei rombi di fascia gasperiniani. E mentre gli altri ancora elaborano le contromosse del 3-5-2, la Serie A prova a decollare sulle fasce, in attesa di un nuovo trend da decriptare, consolidare ed esportare.
Emanuele Atturo
Due anni fa Emiliano Battazzi scriveva un pezzo intitolato Trequartisti, dove si definitiva la Serie A una riserva di numeri 10, tutti differenti fra loro. Trequartista, peraltro, è una parola esclusivamente italiana, a testimonianza quindi della visione tattica peculiare che si trascina dietro.
Due anni dopo questa tendenza, che in quel momento sembrava un relitto nostalgico del nostro campionato si è rivelata all’avanguardia e i trequartisti hanno iniziato a proliferare, sotto diverse forme, anche nel resto dei campionati europei. In Premier League, ad esempio, diverse squadre (Tottenham, Manchester City, Bournemouth, Everton) giocano con un 3-4-1-2 o con un 3-4-2-1 che ha lo scopo di difendere e attaccare al meglio negli spazi di mezzo.
Le ricezioni tra le linee sono storicamente prerogativa dei trequartisti, e nel calcio attuale stanno diventando sempre più importanti, semplicemente perché consentono di ricevere nelle zone più sensibili del campo: centrali e vicine alla porta. Anche senza il pallone la posizione dei trequartisti è importante, perché permette un buon scaglionamento posizionale per facilitare la riconquista alta, specie nella fase di riaggressione.
Ora bisogna dire che in Serie A l’uso del trequartista rimane comunque peculiare, vista la diffusione dei sistemi a rombo, in cui il trequartista funziona da vertice alto. Da ormai tre anni il 4-3-1-2 è uno dei moduli più utilizzati in Serie A: Chievo, Sampdoria e Cagliari ne fanno uso questa stagione. Meno squadre rispetto al passato - pesa l’assenza dell’Empoli, che ha fondato su questo modulo di matrice “sarriana” la propria identità tattica - ma comunque più che in qualsiasi altro campionato, in cui questo modulo è assente.
Il vertice alto del rombo deve preoccuparsi di offrire una traccia verticale nel corridoio centrale. Il possesso avanza sia con la regola di “un tocco avanti, un tocco indietro”, che direttamente verso la porta se c’è lo spazio. Ecco un esempio di Joao Pedro che offre la linea di passaggio centrale. Ma al trequartista del rombo anche il compito di allargarsi e creare superiorità numerica sulle catene laterali (ecco sempre Joao Pedro). Nel Chievo il trequartista raccoglie il tracce diagonali del terzino o della mezzala abbassatasi momentaneamente, come in questo caso. Specie nel Cagliari, Joao Pedro deve poi attaccare la profondità aperta dai movimenti ad allargarsi delle punte. È richiesta abilità nel gioco spalle alla porta, un ottimo primo controllo e capacità di rifinitura e definizione.
Accanto a questo trademark della Serie A, ci sono giocatori che non sono trequartisti solo nominalmente, ma che del trequartista ricoprono le funzioni più classiche: occupare i mezzi spazi, rifinire, attaccare l’area con inserimenti da dietro. Un esempio di trequartista mascherato è Kurtic, che nell’Atalanta riceve nei mezzi spazi e crea delle catene laterali a destra, ma poi resta molto vicino alla punta al centro e si preoccupa di attaccare l’area quando (spesso) arrivano i cross dal lato forte di Gomez. Per questo la “Dea” quest’anno ha comprato per quel ruolo un giocatore ancora più offensivo come Ilicic. Amato Ciciretti gioca invece largo a destra in un 4-4-2, ma la sua creatività è fondamentale per regalare un po’ di verticalità e qualità di rifinitura all’attacco del Benevento.
Nel 4-2-3-1 di Spalletti Joao Mario funge principalmente da moltiplicatore di linee di passaggio, muovendosi ai fianchi dei centrocampisti avversari per far avanzare il possesso. Nella Fiorentina la linea dei trequartisti è totalmente fluida: se in fase di non possesso Benassi si mette al centro per guastare il gioco avversario, col pallone è Thereau a girare alle spalle di Simeone.
La Lazio, nel suo 3-4-2-1, schiera addirittura due trequartisti, anche se con funzioni opposte. Milinkovic-Savic ha un’influenza enorme sul gioco della squadra: si offre sempre come riferimento nel gioco aereo, alleggerendo i difensori da un’impostazione bassa e pulita. Il serbo è uno dei rari giocatori in grado di dominare fisicamente il gioco fra le linee senza scendere neanche un minimo di precisione tecnica. Accanto a lui però in questo inizio di stagione ha giocato anche un trequartista più classico come Luis Alberto, che si abbassa molto per aiutare la costruzione bassa e sfruttare il suo talento associativo.
Molte delle strategie delle squadra da calcio di oggi consistono nel cercare di prendere la zona profonda e centrale del campo, quella abitata dai trequartisti, soprattutto attraverso una buona occupazione degli spazi di mezzo. La Serie A si conferma anche quest'anno una confortevole riserva per i numeri dieci.
Daniele Manusia
Qualche settimana fa avrei potuto fare un discorso più convinto sul fatto che molte squadre del campionato, anche medio-piccole, scendono in campo con un atteggiamento propositivo. Ogni giorno che passa, però, allenatori e giocatori faranno sempre più i conti con le esigenze di classifica: con la paura, con la stanchezza fisica e mentale di chi ha iniziato a subire le prime sconfitte e con la prudenza di chi non vuole fallire una stagione per una questione di principio. Il Benevento aveva avuto un bell’atteggiamento contro Sampdoria e Torino e contro il Napoli ha pagato proprio un atteggiamento “troppo” spregiudicato - la linea difensiva alta, il tentativo, anche se sporadico, puntualmente punito. Per questo, forse, contro la Roma ha giocato una partita di una passività sconcertante, prossima all’autolesionismo, che però potrebbe servire da modello per una stagione magari meno entusiasmante ma che - contro squadre del proprio livello - possa portarlo più agevolmente alla salvezza.
Insomma, il paradosso è sempre lo stesso: difficilmente chi gioca meglio non vince (nel medio periodo almeno) ma è vero anche che statisticamente è più importante non subire gol che farne. La Serie A, più di ogni altro campionato in Europa secondo me, è consapevole di questa ambivalenza ma sta affrontando l’argomento solo da quando non può ottenere entrambi gli scopi ingaggiando i giocatori migliori, e inserendoli in un contesto organizzato anche se non concettualmente d’avanguardia. Proprio come nel caso del Benevento, che forse scenderà a patti con una realtà più difficile del previsto, la ricerca tattica più coraggiosa che serve a compensare il vuoto di talento “divino”, a livello di sistema, è per forza di cose frenate da un realismo culturalmente irrinunciabile.
In ogni caso, penso che la Serie A stia sempre di più facendo i conti con alcune idee molto in voga nel calcio europeo, e che anche quest’anno vedremo un maggiore utilizzo di meccanismi che comprendano pressione alta (non solo su palla inattiva) e recupero aggressivo in avanti nella metà campo avversaria, squadre normalissime che faranno del palleggio insistito anche in difesa, e anche sotto pressione, una tattica per creare spazi da attaccare. La Spal è un ottimo esempio di come persino le neopromosse non rinuncino più (non sempre almeno) a far uscire la palla a terra dalla difesa. Ma possiamo prendiamo anche Torino-Sampdoria, giocata una settimana fa, come un esempio di partita in cui entrambe le squadre hanno rinunciato a un controllo tattico della partita, sbilanciandosi per recuperare palla o per sfruttare lo spazio in transizione.
Anche se penso al discorso pubblico, mi sembra che si sia diffuso - come un antidoto a una paralisi intellettuale precedente - un desiderio di veder giocare veramente a calcio che risponde anche a un contesto europeo sempre più stimolante e competitivo da questo punto di vista. Anche se a molti piace dire che il calcio in fondo è un gioco antico e semplice (e lo è, come lo sono quasi tutte le nostre attività sportive, tutte caratterizzate da un continuo cambiamento) è innegabile che chiunque abbia visto il Borussia Dortmund di Klopp o il primo Atletico Madrid di Simeone (per fare due esempi molto diversi) abbia pensato: perché noi no? Perché non possiamo almeno provarci?
Certo c’è ancora della strada da fare, per spingere il campionato italiano il più lontano possibile da quella ricerca del compromesso sicuro che diventa nei casi peggiori immobilismo. Forse è proprio per un residuo di prudenza che spesso e volentieri a un recupero iper-aggressivo del pallone si preferisce costringere l’avversario al lancio lungo, per poi eventualmente recuperare la seconda palla; forse è per la paura di immaginare soluzioni collettive originali che le transizioni dipendono spesso dalle qualità di giocatori atleticamente fuori dal comune (e che lo sarebbero anche all’estero, come Belotti, Immobile, Perisic, Chiesa, per fare solo i primi esempi che mi vengono in mente) e la maggior parte delle volte la scelta più sicura è un possesso puramente conservativo; forse è per questo che, in fondo, in molti pensano che sia più conveniente sfruttare l’errore dell’avversario, piuttosto che creare lo spazio dove non c’era.
Una tensione tra la sperimentazione e la prudenza, tra l’immaginazione e lo spirito di conservazione, che secondo me può fare da chiave di lettura del campionato e che caratterizza la storia di molte squadre quest’anno.
4. Il Player trading ostacola la costruzione di un progetto tecnico di lunga durata?
Daniele V. Morrone
Ora che i soldi in Italia sono finiti, che le squadre si reggono esclusivamente sui soldi dei diritti tv, il player trading (il gioco delle plusvalenze per intenderci) per le medio-piccole spesso non è una scelta, ma l’unico modo con cui possono sopravvivere. Il rovescio della medaglia di questa strategia è talmente evidente da rendere la domanda fatta quasi retorica. La ricerca compulsiva della plusvalenza va a discapito proprio del progetto tecnico, che il più delle volte è solo un modo per mettere in mostra giocatori da poter poi vendere il prima possibile. Il player trading abbassa terribilmente il tetto di sviluppo di un progetto perché lo porta a morire prima di vederne il compimento, l’esempio più importante che mi viene in mente è quello della Sampdoria che ha portato Giampaolo allo sfogo la scorsa stagione: «Non si può mai programmare nulla, così vale anche per il prossimo anno. Ma è sempre il club che decide». Ma gli stessi rivali diretti del Genoa fanno la stessa cosa da anni, arrivando a gennaio e vendendo già lì un paio di giocatori che si sono messi in luce.
Vorrei però sottolineare che ci sono squadre che vanno controcorrente. Il Chievo ad esempio è uscito dal sistema per costruire un progetto tecnico di lungo periodo. Invece di rincorrere nomi giovani da vendere per avere nuovi nomi giovani ha lavorato sui giocatori ormai non più ricercati dal mercato perché scartati dalle big o troppo “anziani”. In un certo senso si è estromesso dalla catena alimentare perché nessuno vuole andargli a comprare i giocatori, cosa che ha permesso la costruzione di uno dei progetti tecnici più interessanti e peculiari del campionato italiano, con una squadra che gioca a memoria. Al Chievo può arrivare la cessione di Inglese per 10mln, ma viene vista come una piacevole plusvalenza, non come la necessaria cessione per poter comprare un giocatore nello stesso ruolo da poter poi vendere a 12mln la prossima estate. C’è vita, insomma, fuori dal player trading, basta avere la volontà di cercarla.
Emanuele Atturo
Bisogna sottolineare ancora il punto fondamentale di questo discorso: in Serie A è praticamente impossibile costruire dei ricavi strutturali, soprattutto a causa dell’assenza di stadi di proprietà e di un’iniqua distribuzione dei diritti tv. Il player trading diventa così una strategia di sopravvivenza fondamentale. In un rapporto del CIES si può leggere come tra i 10 club europei che hanno cambiato più giocatori nell'ultimo lustro 7 su 10 siano italiani.
Non sono d’accordo però sul fatto che il player trading sia nocivo, di per sé, ai progetti tecnici. In fondo il principio di funzionamento del player trading è la creazione di un contesto tecnico virtuoso, che permetta ai giocatori di mettersi in mostra. È vero che alcune squadre funzionano quasi solo da "vetrine", ma a volte sono davvero belle vetrine. Se guardiamo ai club che negli ultimi anni hanno giocato di più col player trading - Sassuolo, Genoa, Sampdoria, Atalanta - sono anche quelli che hanno puntato di più sulla continuità tattica. Un sistema che potesse mettere a proprio agio i giovani per esprimere il proprio calcio, facendo in modo anche che le loro caratteristiche risaltassero dentro un certo contesto tattico. Player trading e progettualità tecnica non sono quindi princìpi contraddittori nel nostro campionato e anzi: Sassuolo, Atalanta, Genoa e Sampdoria, ad esempio, hanno deciso di puntare su un modello tattico ben preciso e coerente proprio per oliare il meccanismo di player trading. La rivoluzione permanente di uomini viene comunque attenuata dalla continuità dei princìpi di fondo. I risultati anche sono stati più o meno positivi, a patto di rispettare un minimo il ciclo vitale stagionale del calcio e non stravolgere la squadra a stagione in corso come ha fatto il Genoa di Preziosi negli ultimi anni. C’è player trading e player trading, insomma.
Naturalmente il discorso cambia se vediamo nel player trading uno strumento per aumentare la competitività sul lungo periodo e aiutare le squadre a scalare le gerarchie del campionato. Vendere ogni anno i propri pezzi migliori e sostituirli con delle scommesse può, nel migliore dei casi, garantire una continuità dei risultati ma è difficile migliorare. Anzi, quando le scommesse si rivelano un insuccesso le ripercussioni sul bilancio sono profonde e strutturali, e possono essere pagate per anni. Altre volte, quando non si riesce a valorizzare nessun giovane, la squadra è costretta a fare di necessità virtù, puntando sulla continuità e sperando che gli investimenti prima o poi paghino: è il caso del Bologna di quest'anno, che non è ancora riuscita a valorizzare i giovani acquistati con i soldi della cessione di Diawara. Il player trading obbliga a una programmazione tecnica perfetta, che non permette errori.
Se però ci lamentiamo del livellamento verso il basso del nostro campionato, come citato anche in questo inizio di stagione, il problema non mi pare più di tanto il player trading in sé, ma il fatto che è spesso l’unico strumento delle squadre per autofinanziare la propria sopravvivenza. Quello che dovrebbe migliorare è tutto ciò che non permette ai club di avere un economia propria: sono convinto che il player trading sia solo l’effetto di alcuni problemi, non la causa.
5. La Serie A sta diventando un campionato per giovani?
Fabrizio Gabrielli
Osservando i Mondiali U-20 e soprattutto gli Europei U-21 dell’estate scorsa ci siamo fatti l’idea che stessimo quasi quasi diventando un Paese Per Giovani: non tanto per il fatto che nell’U20 ci fossero elementi (tipo Barella e Mandragora) più o meno in pianta stabile nella rotazione dei titolari delle squadre d’appartenenza, quanto - soprattutto - per l’inedito livello d’esperienza che poteva vantare la nostra U-21, tutta composta da calciatori che, pur giovani, potevano considerarsi habitué della Serie A.
Eppure la polaroid dello stato anagrafico del nostro campionato ci restituisce una realtà complessa, in virtù della quale affermare che la Serie A stia diventando un campionato per giovani, pur non essendo per certi versi falso, non è alla stessa maniera altrettanto vero.
Nell’ultimo triennio, in un’ideale curva del ringiovanimento, il picco più alto in realtà l’abbiamo già sperimentato nella stagione passata, quando dai 27 anni di media del 2015/16 (una media età calcolata per giocatori utilizzati per partita, sulla base dei dati Transfermarkt) eravamo scivolati ai 25,5 (quest’anno siamo tornati su una media, comunque sbarazzina, di 26,2: sufficiente abbastanza per surrogare l’affermazione che no, non abbiamo scoperto ancora la Fonte della Giovinezza calcistica).
Non è tanto interessante discutere di quanto giovane possa essere diventata la Serie A, ma su quale tipo di gioventù si regga.
Le tre neopromosse, per esempio, pur puntando come in passato sull’innesto di giocatori dal tasso d’esperienza utile per la categoria, hanno confermato negli undici di partenza giovani U-23 che si presentano non tanto come scommesse, quanto come punti di raccordo, di continuità nella produzione calcistica delle rispettive squadre: Chibsah e Puscas nel Benevento, Ferrari e Bessa nel Verona, Vicari nella SPAL sono tanto giovani quanto veterani negli schieramenti e nelle idee tattiche di Baroni, Pecchia e Semplici.
Tra le squadre di vertice, o comunque di prestigio, invece, le più ringiovanite sono quelle che, intuitivamente, sono più associabili ai concetti di rivoluzione strutturale: la Fiorentina, per ammissione di Corvino, che quest’anno punta sui giovani per «ricostruire la squadra dalle fondamenta» (e rispetto a due stagioni fa la media si è abbassata in effetti di due anni e mezzo); e il Milan, che nel giro di due stagioni si è rinverdito in maniera direttamente proporzionale alle aspirazioni coltivate (per quanto influiscano le presenze di Donnarumma e - almeno nelle prime partite della nuova stagione - di Cutrone).
Di contro, le realtà più conservative sono andate incanutendosi di stagione in stagione: Inter, Napoli e soprattutto Juventus, che da tre anni a questa parte ha la rosa più anziana della Serie A, dopo l’immarcescibile Chievo. Il fatto che ad oggi le tre rose più senili occupino le prime tre posizioni della classifica, magari, potrebbe non significare molto: ma in linea generale la Serie A, questo sì, sta diventando un campionato per “meno vecchi”. Non sarà molto, ma forse è già qualcosa.
Emanuele Atturo
Sebbene i dati non siano del tutto chiari, è innegabile l'impressione che rispetto a qualche anno fa i club del campionato italiano puntino di più sui giovani rispetto al passato. Lo fanno perché, tutto sommato, sono costretti a farlo. È un tema legato a quello sul player-trading: se i club devono lavorare sulle plusvalenze devono innanzitutto aumentare il patrimonio tecnico ed economico della rosa. In buona sostanza devono puntare su giovani che possano essere valorizzati e rivenduti a un prezzo più alto di quello d'acquisto.
La Serie A ha una media età più alta della Ligue 1 e della Bundesliga, che infatti sono campionati in cui si cede più di quanto si faccia da noi, ma più bassa di Premier League e Liga. Verrebbe quasi da pensare che la media età di un campionato sia direttamente proporzionale alla competitività. Al di là delle teorie indimostrabili, però, le squadre di Serie A continuano ad avere dei problemi strutturali nel lanciare giovani provenienti dal proprio settore giovanile. Il CIES ha calcolato quali sono i settori giovanili ad aver lanciato più professionisti nei cinque maggiori campionati europei, solo Roma e Milan, fra le italiane, sono fra le prime venti. Se guardiamo ai giocatori cresciuti in casa nelle rose delle squadre di Serie A il panorama è sconfortante: Juventus e Napoli, ad esempio, cioè la prima e la terza in classifica della scorsa stagione, hanno in rosa, rispettivamente, appena 3 e 2 giocatori cresciuti in casa. Un dato paradossale se pensiamo anche alla qualità del settore giovanile della Juventus. Anche l'Atalanta - un settore giovanile comunque d'eccellenza nel nostro movimento - quest'anno ha in rosa solo 4 giocatori cresciuti in casa, che insieme hanno accumulato meno di 50 presenze in Serie A. C'è qualcosa che si blocca nella trafila di formazione che va dal contesto primavera a quello professionistico, ed è probabilmente un gradino di mezzo che alcuni pensano possa essere occupato dalle squadre B.
La Serie A, insomma, è diventato un campionato che punta di più sui giovani, ma lo fa in maniera improvvisata e poco progettuale. Più per sfruttare le onde del mercato e della compravendita dei giovani che per seguire dei progetti tecnici individuali sui talenti.
6. La Serie A è ancora un campionato reattivo?
Emiliano Battazzi
La Serie A mantiene la caratteristica di essere come un grande Mexican Stand-off in cui nessuno vuole fare la prima mossa per paura di rimanerci stecchito. Il valore dell’errore in Serie A è talmente grande che influenza il modo di pensare il gioco (rispetto alla Premier, ad esempio, che fa dell'errore continuo addirittura la sua attrattività): un terzino che sbaglia la diagonale, e hai perso la partita. Per questo il fascino del calcio reattivo è intramontabile: e però bisogna intendersi bene sul significato delle parole.
Il sistema di gioco della Roma di Di Francesco, ad esempio, prevede una ricerca spasmodica delle verticalizzazioni, che rende quasi impossibile controllare davvero una partita, e anche dominare il possesso. Il gioco della Roma è reattivo ma offensivo: cioè cerca attivamente il recupero del possesso in zone alte, non attende l'errore ma lo determina.
In Serie A ancora diverse squadre praticano un calcio reattivo difensivo, in cui il pallone è meglio lasciarlo agli avversari affinché sbaglino. E in qualche modo però il calcio italiano ha già svoltato a livello di mentalità: non è un caso che le grandi pratichino quasi tutte un calcio propositivo/offensivo, anche se in realtà sono quelle che hanno più da perdere.
Certo, visto che ci sono solo 3 retrocessioni, ci sarebbe un'ampia rete di protezione per squadre di mezzo livello che volessero affidarsi a progetti di calcio proattivo e offensivo. E invece ce ne sono meno di quanto si potrebbe sperare, sopratutto rispetto ai rappresentati di alta qualità di un calcio reattivo, i vari Gasperini, Giampaolo, Maran, Juric, anche Bucchi. Tipo: perché Paulo Sousa non allena in Serie A? E De Zerbi?
A me sembra che il nostro calcio sia talmente attento al dettaglio tattico, e così sofisticato tatticamente, che i progetti di calcio proattivo sono ritenuti troppo rischiosi, solo per presidenti illuminati, perché non c'è mai tempo, in Serie A. È anche un aspetto culturale: fate caso a quanti ex giocatori o allenatori, ora commentatori, critichino la necessità di iniziare l'azione sempre dalla difesa, anche sotto pressione. “Perché rischiare?” è la domanda di fondo: si può sempre attendere il tronco della sconfitta avversaria sulle rive della propria area di rigore. Ma per recuperare il gap con il resto d'Europa il calcio italiano ha dovuto smettere di aspettare, e Guardiola che cita il Napoli come modello di calcio propositivo in Europa è una specie di simbolo della rivoluzione.
Fabio Barcellona
Sì, è bene intendersi bene sulle parole. Schematicamente un modello di calcio reattivo è quello che prova a speculare sulle mancanze e gli errori di quello dell’avversario, minimizzando i rischi; all’estremo opposto sono posizionati modelli che cercano le proprie fortune, anche provocando gli errori altrui, attraverso le proprie iniziative, a costo di prendersi dei rischi. Pur considerando che gli estremi sono solo teorici e che in un gioco estremamente complesso come il calcio a dominare tra il bianco e il nero sono le varie tonalità di grigio, è possibile classificare la Serie A come un campionato in cui si gioca un calcio mediamente più reattivo che negli altri maggiori tornei europei.
La protezione dai rischi è un concetto davvero radicato nella scuola tecnica italiana (e non è detto che ciò sia un male in assoluto) e per questo è difficile vedere in Italia esperienze radicali che invece appaiono molto più frequentemente negli altri paesi. In Germania alcune squadre negli ultimi anni (Bayer Leverkusen, RB Lipsia) hanno estremizzato il concetto di gegenpressing; in Liga piccole squadre come il Rayo Vallecano di Paco Jemez o il Las Palmas di Quique Setien hanno dominato le classifiche del possesso palla, seconde solo al Barcellona, giocando un calcio di possesso molto spinto. Al di là del successo contingente, queste esperienze rappresentano un’avanguardia da cui trarre spunti per uno sviluppo tattico complessivo dell’intero sistema. La Serie A non è un campionato disposto a prendersi tutti i rischi connessi a esperienze innovative ma, rispetto al passato, sembra più disposto a giocare un calcio maggiormente proattivo.
Non bisogna comunque dimenticare che 3 dei 4 campionati maggiori europei dello scorso anno sono stati vinti da allenatori italiani: ad alti livelli la capacità di sintesi dei tecnici italiani, abili ad attingere da diverse esperienze e attenti al dettaglio, si rivela vincente. Questo vale complessivamente anche per la serie A, a cui manca però la voglia di prendersi dei rischi e di scommettere su un calcio meno reattivo, anche a costo di accettare maggiori rischi e possibilità di errori.
7. Come valutate il valore della Serie A in relazione agli altri campionati europei?
Emiliano Battazzi
A livello di competitività stiamo recuperando terreno, e quest'anno forse ancora di più con 5-6 squadre davvero ben costruite e con caratteristiche anche molto diverse. Secondo il ranking uefa siamo sempre al quarto posto, ma per me la vera distanza è solo con La Liga, che rimane il campionato calcisticamente migliore se si considera un ecosistema tecnico-tattico, e anche per la presenza dei migliori giocatori al mondo. Penso che l'aumento della nostra competitività in Europa si vedrà ancora meglio nella prossima stagione, con le 4 squadre in Champions: ma già quest'anno abbiamo squadre che possono arrivare tra le prime 4 sia in CL che in Europa League.
La Bundesliga è il campionato più dinamico, il laboratorio tattico più intrigante e moderno, certo, e a noi manca un po’ di quella freschezza nella visione del gioco, l'idea che si debbano provare nuovi percorsi, nuove metodologie, pensare gli allenamenti in un modo molto più complesso, stimolare i giocatori sotto punti di vista che non siano solo tattici. La Premier è il campionato più intenso e che ti incolla alla sedia e gli invidiamo i grandi allenatori e la varietà di stili che esprimono, certo, ma dal punto di vista della competitività è al nostro livello: proprio perché la Premier ti logora e ti allena a non ragionare mai in campo. Insomma, impariamo a non buttarci giù: la Serie A non è tornata ai grandi fasti del passato, ma è tornata ai massimi livelli europei.
Fabio Barcellona
Io sono curioso di vedere la Premier League di questa stagione. Ci saranno Conte, Mourinho, Guardiola e, in fondo, anche Klopp al loro secondo anno. Portare progetti tattici radicali come quelli di questi allenatori, escluso forse Mourinho, in un campionato per storia refrattario alla complessità tattica è un’impresa difficile; alla seconda stagione nei loro club potremmo davvero vedere le loro idee e quanto dei loro principi verrà sacrificato sull’altare della tradizione della Premier League. La combinazione tra grandi allenatori e disponibilità economica potrebbe - e sarebbe davvero ora - fare risollevare il livello tecnico-tattico del campionato inglese che negli anni passati, a dispetto della sfavillante confezione, è stato talvolta inferiore a quello della serie A.
La Bundesliga, come tutto il calcio tedesco dai mondiali in casa del 2006, è in continuo rinnovamento. Persino le età dei tecnici è indice della voglia continua di cambiare e migliorare: in quale campionato si possono trovare allenatori giovani e dalla scarsissima esperienza come calciatori come il trentenne Julian Nagelsmann dell’Hoffenheim e il trentunenne Domenico Tedesco dello Schalke 04? Negli ultimi anni la Bundesliga è stata un interessantissimo laboratorio tattico: dal gegenpressing di Klopp, portato alle estreme conseguenze da Schimdt a Leverkusen e da Ralph Hasenhuttl nella splendida scorsa stagione a Lipsia, agli ibridi di Thomas Tuchel, che combinava al pressing continuo il gioco di posizione. Tuttavia, il modello economico dei club tedeschi porta le squadre, ad eccezione del Bayern Monaco, ad investimenti oculati e quindi a un livello tecnico non sempre elevatissimo.
Bisogna poi fare i conti con la Ligue 1. L’anno scorso il Monaco è arrivato in semifinale di Champions, il Lione in semifinale di Europa League e il PSG è il PSG. La continua produzione da parte dei club transalpini di giovani di talento, immette, in un contesto di cifre di mercato sempre più alte, un’enorme quantità di denaro all’interno della Ligue 1 di origine endogena (PSG) ed esogena. È un torneo in grande ascesa, pieno di giocatori giovani e sempre più anche di campioni. Se l’effetto traino del Paris Saint Germain non si tramuta in una cannibalizzazione dell'intero movimento, la Ligue 1 potrebbe velocemente risalire posizioni.
Il vero gap della serie A è però con la Liga, dove la combinazione tra campioni, livello tecnico medio e un generale gusto per un calcio propositivo regala oggi il campionato più interessante da seguire per uno spettatore neutrale.