“In un mondo che sta sviluppando un crescente entusiasmo per lo sport, non c’è altro stadio paragonabile a Wembley”. Questa frase era inserita all’interno della Guida Ufficiale alla British Empire Exhibition del 1924, come strumento di marketing (diremmo oggi) per incuriosire e invogliare il pubblico a visitare il nuovo edificio. D’altronde, all’epoca, Wembley era il più grande e il più incredibile stadio al mondo, qualcosa di mai visto prima.
A inizio ‘900, l’area che circondava il luogo dove sarebbe sorto lo stadio di Wembley era un’aperta campagna (e sarebbe rimasta tale almeno fino al secondo dopoguerra). Il censimento di Londra del 1851 aveva registrato appena 209 abitanti, mentre molte altre aree della capitale britannica erano già in forte sviluppo urbano sulla scia delle grandi trasformazioni conseguenti alla Rivoluzione Industriale, che stava cambiando il volto dell’Inghilterra, e avrà un ruolo decisivo nella nascita del calcio, prima, e nella costruzione degli stadi, poi.
Un visitatore che si fosse avventurato in questi spazi rurali, in corrispondenza dell’attuale sobborgo londinese di Brent, verso la fine dell’Ottocento, avrebbe peraltro fatto in tempo a vedere quella che rimane una delle più grandi utopie dell’ingegneria britannica, la Watkin’s Tower. Pensata per essere il corrispettivo della Torre Eiffel, che affascinava l’Europa dell’epoca, doveva inserirsi nel neonato parco di Wembley, denominato Pleasure Gardens, ed essere più alta della rivale francese di circa 50 metri (358 contro 300 metri), sulla scia dell’esempio già realizzato della Blackpool Tower, nella cittadina costiera di Blackpool (costruita nel 1894 dagli architetti James Maxwell e Charles Tuke, 158 metri di altezza).
La Blackpool Tower, nel 2018 (foto dell'autore).
Costruita soltanto nel suo primo piano (45 metri circa), la torre ideata da Sir Edward Watkin, membro del Parlamento inglese e fra gli imprenditori ferroviari più importanti dell’epoca, non sopravvisse alla sua stessa utopia, agli elevati costi di costruzione e alle carenze strutturali e di fondazione. Fu inaugurata incompleta nel 1896, mai terminata e infine mestamente demolita nel 1907, aprendo involontariamente la strada al mito di Wembley.
L’Expo dell’Impero Britannico
Il tentativo di costruire la Watkin’s Tower, e l’annessa creazione del parco e del lago artificiale di Wembley, rientravano infatti nel progetto di investire su quest’area rurale e trasformarla in un business immobiliare e turistico, sottolineato dalla realizzazione di un nuovo tratto ferroviario che garantiva un collegamento diretto con Londra (una delle eredità più importanti lasciate da Sir Watkins). Per tutti questi motivi, e superata la Prima Guerra Mondiale 1914-18, il Governo britannico rilanciò l’idea di organizzare in quell’area una grande Expo per celebrare l’Impero Britannico e l’eccezionale diversità culturale dei suoi possedimenti, da svolgersi nel 1924.
I piani dell’evento includevano la costruzione di uno stadio monumentale, adatto ad accogliere l’inaugurazione e gli eventi maggiori dell’expo, e la Football Association inglese si mostrò subito fortemente interessata. Dal 1872, il board del calcio britannico aveva deciso di far giocare la finale di FA Cup sempre a Londra, passando prima dallo storico stadio di cricket Kennington Oval e poi dal campo da gioco adiacente al mitico palazzo di vetro Crystal Palace, con un paio di finali organizzate anche a Stamford Bridge. L’occasione di un nuovo stadio da far diventare impianto di calcio “nazionale” era più unica che rara e nel gennaio 1922 i lavori iniziarono con il cerimoniale ufficiale alla presenza dell’allora Duca di York, il principe Alberto, che sarebbe poi diventato Re Giorgio VI (1936-1952) e padre dell’attuale sovrana Elisabetta II.
I lavori furono affidati all’impresa di Sir Robert McAlpine (ancora oggi la più importante in Inghilterra), che dovette soprattutto eliminare tutti i detriti rimasti dalla demolizione della Watkin’s Tower, prima ancora di gettare le fondazioni.
Per il progetto firmato dagli architetti Sir John Simpson e Maxwell Ayrton, e dall’ingegnere strutturale Sir Owen Williams, servirono 25mila tonnellate di cemento armato, materiale rivoluzionario per l’epoca, e appena 300 giorni di lavoro: un superellisse in pianta, definito da due tribune coperte e una cavea di gradinate a un unico anello, che abbracciavano una pista d’atletica e il rettangolo verde centrale. All’esterno, la tribuna nord accoglieva i visitatori al termine di un viale che collegava lo stadio con la nuova fermata della metropolitana, e lo affascinava con una facciata beige a due piani, dalla scansione elegante e regolare, incastonata da due splendide torri che terminavano a cupola, con uno stile coloniale influenzato dalla Casa del Viceré Sir Edwin Lutyen, a Nuova Delhi, in India.
Una foto di Wembley nel 1947 (Foto di Barratts/PA Images via Getty Images).
Nel corso dell’Expo 1924, tutto intorno al nuovo stadio si sviluppavano i padiglioni dedicati alle Nazioni dominate dall’Impero, in un tripudio di pagode (quella della Birmania era praticamente a ridosso dell’ingresso dello stadio) e ricostruzioni di palazzi esotici indiani (il Royal Pavilion di Brighton, ancora esistente, può essere un utile riferimento visivo). Intanto, lo stadio aveva già fatto in tempo a scrivere la sua prima pagina di storia con la finale di FA Cup 1923, tre settimane dopo l’inaugurazione, nella quale un gendarme a cavallo era entrato in campo per disperdere il pubblico che aveva ormai invaso il terreno di gioco prima che la sfida fra Bolton e West Ham potesse cominciare. Il cavallo bianco Billy, condotto dal poliziotto George Scorey, diventò più famoso della partita stessa, da allora chiamata “The White Horse Final”, a cui assisteranno 127mila persone.
Dopo i due anni di expo, e aver sfiorato il rischio di essere venduto (e demolito), Wembley fu astutamente aperto anche alle corse dei cani, sostituendo la pista d’atletica con un ovale in terra, a cui si aggiunsero subito dopo le corse motoristiche, un binomio che avrebbe influenzato la passione sportiva degli inglesi per i decenni a venire, contribuendo alla nascita di vari stadi dedicati a queste discipline in giro per il Paese. Nel 1927 la BBC aveva iniziato a trasmettere la radiocronaca delle finali di FA Cup, mentre l’edizione del 1933 fu la prima con i numeri sulle maglie delle due squadre (anche se, curiosamente, quel primo esperimento portò l’Everton a vestirli dall’1 all’11 e gli avversari del Manchester City dal 12 al 22).
La gloria e il declino
Il secondo dopoguerra contribuirà a creare l’epica di Wembley, che per certi versi supererà anche la sua stessa realtà. I Giochi Olimpici del 1948, la finale di FA Cup 1953 (la “Matthews Final”, con il Blackpool che rimontò da 1-3 a 4-3 negli ultimi venti minuti contro il Bolton, trascinato da Stanley Matthews e dalla tripletta di Stan Mortensen), fino ovviamente ai Mondiali di calcio del 1966: momento spartiacque nella storia del calcio inglese, la vittoria della Coppa Rimet dell’Inghilterra contribuì a definire l’estetica moderna dello stadio, a costruire una storia mista a leggenda (il gol/non gol di Hurst) e creare una nuova tradizione iconica (quella della maglia rossa da trasferta vestita dagli inglesi contro la Germania).
Le partite della Nazionale inglese e le annuali finali di FA Cup continueranno a rinsaldare il mito dello stadio come luogo mistico e impenetrabile (rimangono famose e celebrate per la loro eccezionalità le vittorie dell’Italia nel 1973, 0-1 gol di Fabio Capello, e nel 1997, 0-1 gol di Gianfranco Zola) ma curiosamente, Wembley raggiungerà il suo punto più alto a livello culturale globale non con un evento sportivo ma con un concerto. E cioè il “Live Aid” del 1985: il momento in assoluto più pop per lo stadio, che lo farà entrare definitivamente nell’immaginario collettivo di luogo riconosciuto a livello mondiale.
Negli anni ‘90, la necessità di un nuovo stadio al passo con i tempi e con le trasformazioni del mondo contemporaneo si rese improcrastinabile. Euro 96 rappresentò l’ultima, sfavillante esibizione per sé stesso e per l’identità sportiva e culturale inglese, dopodiché Wembley sembrava dovesse avviarsi alla fine, che tra l'altro concideva curiosamente con la fine del secolo (e di un’intera epoca).
La sfida che l’architetto Sir Norman Foster dovette affrontare, quando venne incaricato dalla Football Association e dalla municipalità di Brent di progettare il nuovo stadio nazionale inglese, fu quella di reinventare uno stadio la cui epica era diventata parte integrante della cultura popolare, ben al di là del mero aspetto sportivo. Costruire un nuovo Wembley, di fatto, era come sostituire un monumento storico con qualcosa che potesse reggere il peso dell’eredità.
Un arco luminoso per il nuovo Wembley
Escluse le ipotesi di realizzare il nuovo stadio nazionale a Birmingham, Bradford, Manchester o Sheffield (tutte opzioni vagliate fra il 1995 e il 1996), il nuovo Wembley fu fondato sulla necessità di avere gradinate a ridosso del campo e una serie di servizi essenziali al pubblico in numero adeguato al rapporto con la capienza. Per quanto il vecchio stadio fosse affascinante, il suo livello di funzionalità era ben più che scarso per lo sport moderno, con una distanza siderale degli spalti dal campo e un numero di servizi igienici (360 su 78mila posti) e punti ristoro assolutamente insufficiente. Sir Norman Foster si avvalse della collaborazione con gli studi internazionali HOK (oggi confluita in Populous) e LOBB (già attivi nella progettazione di grandi stadi internazionali, come Sydney e Cardiff) e resistette alla tentazione di riproporre la pista d’atletica, nonostante ci fossero spinte in tal senso per poter intercettare i fondi provenienti dalla Lotteria Nazionale.
Quando fu chiesto a Sir Norman Foster quale fosse il suo edificio preferito al mondo, rispose candidamente “il Boeing 747”. E in effetti, con tutti i distinguo del caso, nella mente dell’architetto inglese uno stadio contemporaneo si basava sullo stesso schema costi/ricavi del più grande aereo di linea del mondo. Wembley fu quindi definito su una capienza di 90mila posti, di cui 16mila di tipo executive o VIP raccolti tutti nel piccolo anello centrale mediano.
Il problema principale, però, erano le due torri. Il nuovo stadio avrebbe dovuto essere un simbolo della nuova, scintillante Londra che si stava delineando fra architettura e urbanistica, e di un’idea di calcio e di sport che guardava al futuro, ma il fascino e il valore storico delle due torri non si poteva inventare da un giorno all’altro. Peraltro, le Twin Towers del vecchio stadio di Wembley erano l’unica porzione posta sotto tutela dall’English Heritage (i Beni Culturali inglesi) ed erano classificate come Grade II, il livello più basso nella scala gerarchica della tutela inglese (costituita, in ordine decrescente per importanza, da Grade I, Grade II* e Grade II) che include gli “edifici di speciale interesse, meritevoli di ogni sforzo per essere preservati” (per confronto, la tribuna Stevenage Road Stand dello stadio Craven Cottage è classificata Grade II*, “edifici di interesse più che speciale”, e quindi quasi intoccabile).
Sir Foster era quindi chiamato a tentare di salvaguardarle, considerando però che questo sarebbe stato un elemento terribilmente vincolante per il suo progetto. Il tratto ferroviario che correva sul lato sud dello stadio poneva un altro limite immodificabile al disegno dell’edificio, e i primi concept del nuovo Wembley risultarono in uno stadio a pianta ovale (assimilabile allo Stade de France, per farsi un’idea di massima) con una copertura a velario sorretta da vari pennoni perimetrali e le due torri storiche posizionate appena a distanza, come un ideale portale d’accesso storico al nuovo edificio.
I pennoni presentati nel concept del 1999 non sarebbero mai diventati un’icona mondiale, e le due torri continuavano a essere un ostacolo che avrebbe influito anche sul riassetto esterno del nuovo stadio, impedendo la riorganizzazione degli spazi e degli accessi per il pubblico (soprattutto per una questione di accessibilità dei diversamente abili e per i flussi viari). Bloccato da questo impedimento, Sir Foster riuscì a tagliare il nodo gordiano in un weekend in bici in Baviera, a pochi giorni dalla presentazione ufficiale. Ancora una volta, quindi, c’era una strana connessione fra Inghilterra e Germania, dentro e fuori dal campo (i tedeschi avevano battuto gli inglesi 1-0 nell’ultima partita della storia giocata al vecchio Wembley, il 7 ottobre 2000, gol di Dietmar Hamann).
In ogni caso, l'architetto britannico pensò che un grande arco luminoso forse poteva risolvere tutti i problemi, sia estetici che ingegneristici, e così fu. L’idea dell’arco reticolare, infatti, non solo regalò al nuovo stadio un simbolo estetico che sarebbe diventato unico anche nello skyline londinese, ma soprattutto fornì l’elemento chiave per sostenere la copertura riuscendo a convincere chi avrebbe dovuto autorizzare il progetto a fare a meno delle due torri, che tra l'altro obbligava anche a usare più spazio per lo stadio che nei fatti non c'era.
Un concept del 1995, tratta dal libro "Wembley Stadium", di Sir Norman Foster e Simon Inglis (2012). Nella didascalia originale si può leggere: "Un primo concept del nuovo Wembley, firmato da Sir Foster e datato 1995, con l'accesso da nord e la presenza delle torri. Quest'idea avrebbe però necessitato di molto più spazio di quello effettivamente a disposizione per l'edificio".
L’arco, progettato dall’ingegnere Alistair Lenczner, copre uno spazio di 315 metri e si eleva fino a toccare un punto massimo a 133 metri dal suolo (le due torri arrivavano a 38 metri), quasi alto quanto la ruota panoramica London Eye e con una sezione cava capace di ospitare il passaggio di un treno della metropolitana. La sua costruzione comportò l’uso di 1.750 tonnellate di acciaio, permettendo un enorme risparmio di materiali e strutture accessorie rispetto agli iniziali pennoni.
Il vecchio stadio di Wembley venne chiuso alla fine del 2000, mentre veniva approvato il progetto del nuovo impianto. Le ruspe demolirono l’edificio fra la fine del 2001 e il 2003 (ed erano ruspe importate dalla Germania), mentre i lavori per il nuovo stadio si conclusero con l’inaugurazione nella primavera del 2007.
L’attuale Wembley, costato quasi 800 milioni di sterline, ha una copertura a pannelli retrattili la cui chiusura è modulabile in modo da garantire un’ottimale illuminazione solare sul prato, mentre ogni singolo posto dei 90mila totali ha una vista libera sul campo (mentre circa il 25% dei posti del vecchio stadio avevano una visuale parzialmente ostruita). In senso longitudinale, l’intero ingombro dell’edificio ricalca il perimetro occupato dallo stadio precedente (confermando quanto fosse dispersivo), mentre i 2.600 servizi igienici rappresentano una percentuale sul totale della capienza che non ha eguali al mondo.
Un podio rialzato circonda lo stadio, rappresentando l’accesso principale per il pubblico e correndo tutto intorno all’edificio, mentre la statua di Bobby Moore (capitano dell’Inghilterra campione del mondo nel 1966) accoglie i visitatori nel punto esterno al centro della tribuna, mentre all’interno, in corrispondenza dell’avvio del percorso di visita guidata, viene conservata la traversa originale della porta dove Geoff Hurst segnò il discusso gol della finale ‘66. Lo stadio, infine, si sviluppa internamente su otto piani, è dotato di locali e ristoranti per un totale di 15mila coperti (fra cui la sala più grande di Londra, con 2mila posti) e due anelli principali di gradinata, da circa 34-39mila posti ciascuno, inframezzati dal livello box hospitality e posti VIP.
Oggi l’urbanizzazione dell’area si è quasi completata, la nuova Londra contemporanea ha definito anche qui parte della sua estetica, e tante cose sono diverse anche solo da com’erano negli anni ‘90. L’ultimo atto della trasformazione finale di questo luogo è stata la demolizione della storica rampa d’accesso costruita nel 1974 e sostituita ora da una scalinata monumentale che ha fatto il suo esordio accogliendo il pubblico in occasione di Euro 2020.
Foto di Bryn Lennon/Getty Images
È difficile giudicare il nuovo Wembley senza pensare al vecchio stadio. Ci si arriva sempre dallo stesso viale, come è successo per quasi 100 anni, uscendo dalla stazione della metropolitana di Wembley Park e camminando pian piano vedendo una splendida architettura all’orizzonte avvicinarsi sempre più. E l’obbligo di mantenere nel nuovo impianto la stessa colorazione rossa per i seggiolini, ricostruendo anche la famosa scritta blu “Wembley” bordata di bianco, nelle due curve, contribuisce a mantenere un filo identitario comune nel percorso della storia.
Forse l’attuale stadio non è ancora entrato nei sogni dei bambini come poteva esserlo il suo predecessore per le generazioni nate dal secondo dopoguerra in poi. Ma non è detto che non lo farà. D'altra parte, proprio durante Euro 2020 abbiamo visto più volte il tatuaggio sul braccio di Raheem Sterling (nato nel 1994 proprio nel quartiere di Brent) che rappresenta sé stesso, da piccolo, con un pallone sotto il braccio, in piedi di fronte all’arco e alla facciata scintillante del nuovo stadio.
Il nuovo Wembley, ovviamente, deve ancora costruirsi una leggenda e soprattutto un’epica proprie, ma aiutato dal suo glorioso passato e rilanciato da un’estetica capace di collocarlo nel futuro, continua a conservare il fascino di sommo palcoscenico a cui ambire, punto d’arrivo definitivo per ogni calciatore, e luogo in grado di sublimare la storia non solo dello sport nel mondo contemporaneo.