Prima che la sua ultima immagine in maglia Golden State Warriors fosse quella del suo tendine d’Achille destro che si rompe, e prima ancora dell’infortunio al polpaccio contro Houston che gli aveva fatto saltare nove partite di playoff, Kevin Durant era il miglior giocatore del mondo. O almeno sembrava sul punto di prendersi definitivamente il trono, dopo due titoli di MVP delle Finals in fila e un terzo che sembrava ineluttabile come lo schiocco delle dita di Thanos. Poi è successo quello che sappiamo: l’infortunio in gara-5 contro Toronto (in cui, praticamente su una gamba sola, aveva segnato 11 punti in 12 minuti terrorizzando il Canada intero) l’addio alla Baia e la firma con i Brooklyn Nets, una stagione intera saltata e 18 mesi di riabilitazione in cui i suoi video da lontano in allenamento erano tutto quello che potevamo vedere di uno dei talenti generazionali della pallacanestro mondiale.
Era legittimo avere dei dubbi che Kevin Durant non sarebbe tornato lo stesso giocatore di prima. D’altronde lo storico dei giocatori rientrati dopo la rottura del tendine d’Achille non è per niente incoraggiante, e pochi — forse nessuno, specie quelli dopo i 30 anni — sono riusciti a riavvicinarsi ai livelli toccati in precedenza. Ma se nella metà campo offensiva ci si poteva aspettare che Durant continuasse ad avere un alto rendimento, complice il suo fisico molto particolare e le sue straordinarie doti di tiro, i dubbi riguardavano più che altro la metà campo difensiva — dove nelle ultime stagioni KD era diventato un serio candidato al premio di Difensore dell’Anno.
Per questo le sue prime partite di pre-season e successivamente quelle di regular season sono state il vero avvenimento cestistico del mese di dicembre: la curiosità per vedere a che punto fosse il suo recupero non era condivisa solamente dagli appassionati ma da lui stesso, che si era dato un periodo di 15-20 partite — in accordo con Steve Nash — per capire a che punto fosse. A vederlo in campo, però, è come se non se ne fosse mai andato.
KD in formato MVP
Il Kevin Durant visto fino a questo momento in maglia Brooklyn Nets non è stato semplicemente buono-per-uno-che-non-gioca-da-18-mesi, ma buono-a-livelli-da-MVP. A vederlo mentre si muove per il campo ci si dimentica che abbia subito uno degli infortuni più gravi possibili per un giocatore di pallacanestro: i movimenti che realizza sono esattamente quelli che abbiamo imparato a conoscere da quando è entrato nelle nostre vite ormai quasi 15 anni fa, ma è soprattutto la decisione con cui si muove per il campo a fare spavento (alle altre squadre).
Qui tre canestri nella gara di pre-season contro Boston in cui lascia sul posto Jaylen Brown, Jayson Tatum e Marcus Smart ricevendo e attaccando senza la minima esitazione, spingendo con forza sulle gambe per arrivare fino in fondo.
Nel corso degli ultimi mesi molti giocatori che in passato hanno subito la rottura del tendine d’Achille hanno parlato della difficoltà nel ritrovare confidenza con il proprio corpo e con il campo, indicando in diversi mesi il tempo necessario per tornare a sentirsi sicuri nei movimenti. Lo stesso Durant ha raccontato di come abbia dovuto imparare a camminare di nuovo dopo mesi di inattività per permettere al tendine di ristabilirsi dopo l’operazione, e che voleva aspettare a definirsi ritornato al 100%. Durant ci ha messo esattamente 4 minuti e 40 secondi per segnare 10 punti alla sua prima gara di regular season contro Golden State. Ma non è solo quanto ha segnato, ma come ha segnato: i movimenti quando mette palla per terra sono sempre aggressivi e se non arriva al ferro è perché il suo tiro in sospensione parte da un'altezza tale da renderlo immarcabile per chiunque, rendendo ogni tiro che prende un buon tiro -- anche quando dal punto di vista analitico sarebbe consigliabile fare un passo avanti o indietro.
Kevin Durant non è mai stato un penetratore d’élite, anche perché con quel corpo sarebbe impossibile pensare di potersi infilare nelle maglie della difesa o spostare fisicamente avversari più pesanti di lui, ma con il suo sottovalutato ball-handling è sempre riuscito a mixare le sue soluzioni offensive in modo tale da non rendersi mono-dimensionale. I suoi numeri al ferro in questo inizio di stagione sono bassi (meno del 13% delle sue conclusioni è nell’ultimo metro di campo), ma in linea con le ultime stagioni a Golden State (in cui ha chiuso con il 19% e il 18%). Non che importi poi molto se non arriva sempre al ferro: uno alto 2.13 come lui non dovrebbe essere in grado di palleggiare e tirare in quella maniera, una peculiarità che si nota soprattutto quando viene marcato dai lunghi avversari.
Nel passaggio da Golden State a Brooklyn è passato forse inosservato come KD sia diventato un 4 in pianta stabile. Agli Warriors cominciava le partite in quintetto insieme a Draymond Green e a un lungo di ruolo (solitamente JaVale McGee o Kevon Looney), salvo poi scalare da 4 nei quintetti piccoli con l’ingresso di Andre Iguodala — e mettendo in mostra le sue eccezionali doti di protezione del ferro. Ora Durant parte da 4 al fianco di DeAndre Jordan e altri tre esterni attorno a lui, mettendo immediatamente gli avversari davanti a un dilemma tattico: quante squadre hanno in quintetto due ali in grado di stare davanti a Kevin Durant e inseguire sui blocchi un tiratore del livello di Joe Harris, senza considerare le attenzioni che si devono riservare a Kyrie Irving e Spencer Dinwiddie (o Caris LeVert dopo l’infortunio del playmaker)?
I Boston Celtics nella partita di Natale hanno mandato principalmente Brown e Tatum sulle sue piste, ma a inizio secondo tempo coach Brad Stevens ha provato una mossa un po’ strana, mettendo Tristan Thompson in marcatura su KD. La stella dei Nets l’ha preso quasi come un affronto personale: le statistiche di nba.com/stats dicono che nei 73 secondi in cui è stato marcato dall’ex lungo dei Cavs, Durant ha segnato 9 dei 14 punti della sua squadra con 4/5 dal campo — aprendo in due la partita che Brooklyn ha poi dominato fino alla fine.
Dopo un primo tempo da 9 punti con 2/6 al tiro, Durant ne ha segnati 16 nel solo terzo periodo ed è sembrato mandare un messaggio a tutti gli allenatori della NBA: non pensate neanche per un secondo di potermi marcare con un lungo di ruolo, altrimenti questa è la fine che gli faccio fare.
Il difensore più sottovalutato della NBA?
Un talento offensivo come quello di Durant — forse il migliore che abbiamo mai visto, ma ci sarà tempo per discuterne in futuro quando la sua carriera sarà conclusa — rischia di far passare in secondo piano le sue capacità difensive, che sono migliorate costantemente fino a renderlo uno dei migliori in assoluto nella lega.
Nella prima gara di pre-season si è ritrovato davanti un avversario come Rui Hachimura che, per quanto limitato, è uno che ti butta addosso i suoi chili quando ti attacca in isolamento: in questa azione semplicemente lo cancella. A Boston invece ha messo in mostra quanto le sue misure siano ingestibili per gli avversari: prima stoppando la tripla in angolo di Semi Ojeleje e poi segnando in transizione dal palleggio. Quanti giocatori al mondo possono produrre una sequenza del genere oltre a lui? Nessuno?
In una squadra dal talento offensivo eccezionale come questi Nets, è la metà campo difensiva quella che davvero determinerà le possibilità di vittoria di Brooklyn. E in questo Durant è assolutamente centrale: quando lui è coinvolto e attivo difensivamente, tutti gli altri giocatori in campo non possono permettersi di non esserlo, sopperendo anche alle limitazioni fisiche specialmente delle guardie. Durant è un playmaker difensivo di assoluta élite: la sua capacità di leggere il gioco e reagire ruotando dal lato debole fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
Due giocate per spiegare cosa sa fare Durant in aiuto: in pre-season contro Boston stoppa Grant Williams come fareste voi contro il vostro cuginetto di 10 anni, dopodiché nel giorno di Natale riesce a marcare contemporaneamente due giocatori sul lato debole semplicemente allargando le braccia e leggendo le intenzioni di Tatum.
La notizia migliore per i Nets è il fatto comunque che KD non si risparmi: nella partita contro Charlotte è finito dalla parte sbagliata degli highlights prendendosi in testa una torreggiante schiacciata da parte di Terry Rozier, in un’azione che avrebbe tranquillamente potuto “lasciar andare” visto che era ampiamente in ritardo. Aveva davvero senso andare a contestare un giocatore da solo in contropiede nel terzo quarto di uno Charlotte-Brooklyn di fine dicembre?
No, non aveva senso. Ma Durant lo ha fatto lo stesso, ed è stato forse il segnale più forte che ha mandato sul livello di fiducia che ha nel suo corpo.
Una nuova contender per il titolo
Nelle griglie di inizio stagione — cioè di settimana scorsa, è sempre bene ricordarlo — i Brooklyn Nets erano considerati la mina vagante della conference, un po’ perché non li avevamo mai visti assieme e un po’ perché le condizioni fisiche delle loro due stelle erano (e restano) un’incognita, per non parlare dell’esordiente Steve Nash in panchina. Per quanto visto in queste primissime partite di pre e regular season, però, diventa difficile non inserirli nello stretto novero delle candidate al titolo: il modo in cui hanno maltrattato i Boston Celtics a Natale è stato un messaggio mandato al resto della NBA e le condizioni con cui si è ripresentato Durant sono una pessima notizia per le altre 29 franchigie.
C’è ancora una stagione intera da disputare e non abbiamo ancora visto come reagirà il fisico di Durant ai rigori di una regular season accorciata e compressa in cui si giocherà — ad andar bene — un giorno sì e uno no. E notoriamente i giocatori reduci da grossi infortuni tendono a partire forte, anche per via dell’adrenalina del rientro, salvo poi pagare lo sforzo dopo qualche tempo. I Nets hanno il roster più profondo della NBA e potrebbero riuscire a sopperire anche alle assenze di un Durant in modalità load management, evitandogli i back-to-back almeno per la prima metà di stagione come già fatto contro Memphis.
Ma davanti a quello che ha fatto vedere fino a questo momento, è impossibile non sorridere per il ritorno in campo a questi livelli di uno dei migliori giocatori della storia della NBA — che vuole andare a riprendersi un trono che sembrava destinato ad appartenergli di diritto, spostando di peso gli equilibri della lega.