Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Duro come la pietra, duro come Gravesen
27 mag 2016
Fuori controllo, pericoloso, sincero, maniaco del lavoro. Thomas Gravesen, un grande giocatore.
(articolo)
14 min
Dark mode
(ON)

Tra difesa e attacco. Tra pubblico e calciatori. Thomas Gravesen è stato il ponte che univa due sponde, il guado necessario ad attraversare una distanza. Suona affascinante, quindi, che sia nato e abbia iniziato la sua carriera in una città di nome Vejle, che deriva dal danese arcaico wæthel, cioè “guado”.

Lo scorso marzo ha compiuto quarant'anni. Da quasi dieci ha abbandonato il calcio, e si è sottratto ai riflettori che lo hanno inseguito tanto a lungo.

È stato un calciatore serio, concentrato, e un uomo molto divertente, spesso sui tabloid per leggerezze e bizzarrie fuori dal campo. Lui per primo notava lo stridente cortocircuito tra l'aggressività del calciatore e la giovialità dell'uomo: «all'esterno sono un tipo completamente diverso, molto più calmo».

Vejle, Amburgo, Everton, Celtic Glasgow. Non ha mai giocato per due squadre dello stesso campionato. Una precisa scelta di lealtà: «È più opportuno cambiare Paese, so you're not in their faces».

C'è una frase che probabilmente meglio di altre spiega la sua visione del calcio. Si riferisce all'esistenza del calciatore moderno, ma sembra di leggere lo sfogo di un gladiatore dell'antichità: «È una vita che può essere molto monotona, con tanta routine, perché è così fortemente incentrata sulle battaglie e sul tuo ruolo nel combattimento. Non puoi essere stanco se quarantamila persone pagano per vederti giocare».

Ai tempi di Amburgo. Con i capelli, con il connazionale e compagno di squadra Allan Jepsen.

Ottobre 2001, Copenhagen. In città per un combattimento c'è Mike Tyson, che va allo stadio a vedere Danimarca-Islanda delle qualificazioni ai Mondiali 2002. I danesi vincono sei a zero. A fine gara, qualcuno chiede a “Iron Mike” chi lo abbia impressionato di più. Lui risponde Thomas Gravesen. Per l'atteggiamento, specificherà, non per la doppietta e l'assist che gli ha visto realizzare. E non solo va dal danese a chiedergli la maglia per ricordo, ma quella maglia la indossa durante la conferenza stampa del suo match. E Tyson con una maglia di calcio fa strano, ma Tyson con la maglia della nazionale danese è situazionismo puro.

Nella penisola dello Jutland, la città di Vejle sbocca su un fiordo omonimo. Cinquantamila abitanti, una tradizione mercantile e poi industriale, è celebre per i cotonifici che le hanno meritato il nome di “Manchester di Danimarca”.

La squadra locale, il Vejle Boldklub, ha vinto cinque titoli nazionali. Nel club ha iniziato e concluso la propria carriera il grande attaccante Allan Simonsen, famoso per aver giocato nel Borussia Mönchengladbach e nel Barcellona. E per aver vinto il Pallone d'oro del '77, giusto pochi mesi prima che a Vejle, l'11 marzo 1976, nascesse Thomas Gravesen.

Gravesen che cresce a Daugaard, mille abitanti, una dozzina di chilometri a est di Vejle, e si forma proprio tra i “Rubini dello Jutland”. È all'ultima stagione nelle giovanili quando gli viene assegnato come compagno di stanza John Sivebæk, nato a Vejle ma quindici anni prima di lui. Sivebæk è alla fine di una carriera che l'ha portato a Monaco, Saint-Étienne, Pescara, e a segnare con la maglia del Manchester United il primo gol dell'era Ferguson. Nel '92 ha vinto l'Europeo con la nazionale danese e si è ritirato dopo 87 presenze. Lui e Gravesen legheranno tanto che Sivebæk diventerà il suo procuratore per l'intera carriera.

Già allora Thomas ha un carattere difficile («Ero orgoglioso come l'inferno, non riuscivo a controllarmi»), e per esempio si lamenta per il ritardo con cui il Vejle gli offre il primo contratto da professionista. Ha un rapporto teso con l'allenatore, Ole Fritsen, che col senno di poi racconterà come «un mentore senza il quale probabilmente avrebbero lasciato perdere con me». Fritsen gli dà un consiglio che lui continuerà a seguire per molto tempo: appena sente di andare fuori di testa, immagina di avere tre pietre in una tasca e doverle spostare nell'altra, «così devo concentrarmi su quello e mi dimentico del resto».

È un ventenne irrequieto, insomma, quando fa il suo esordio in prima squadra nel 1995/96. Gli bastano quella e un'altra stagione, che si conclude con un grandioso secondo posto, per convincere l'HSV di Amburgo a scommettere su di lui.

Davanti allo stadio di Vejle, dove tutto è cominciato

Un mediano di rottura, attento tatticamente, un centrocampista di sacrificio. Con piedi buoni, però, tanto che secondo l'ex Ct della nazionale danese, Morten Olsen, «è stato il più forte nei passaggi tra tutti i giocatori che ho mai allenato». Tanto che Tony Hibbert, ex compagno e bandiera dell'Everton, ha sostenuto che Gravesen avesse più talento, “un'altra classe” rispetto a tutti i toffees, da Rooney ad Arteta, con cui ha giocato.

In campo è concentrato e attento, in una perenne condizione di agonismo. Come spiegava: «Penso molto a quello che faccio. Voglio essere il migliore, e serve un sacco di energia». Non sembra un caso che in carriera abbia giocato anche da centrocampista offensivo e difensore centrale: sempre lungo la spina dorsale della squadra.

In effetti Tyson aveva assistito a una gran prestazione di Gravesen. Con un assist e la sua unica doppietta in nazionale. Nel primo gol, recupera un pallone sulla trequarti, si invola e segna con un pallonetto tanto sorprendente, per lui stesso, da farlo esultare in un modo giocoso. Il secondo gol è una cannonata su punizione da trenta metri.

Il suo modello dichiarato era Stig Tøfting, di qualche anno più grande di lui. Mediano della nazionale danese, passato per l'Amburgo, come lui. Figura più complicata di quanto possa sembrare. Sì, un picchiatore dentro e fuori dal campo. Sì, la faccia da matto e le risse e il rapporto con gli Hell's Angels della sua Aarhus. Ma anche e soprattutto un paio di traumi da cui nessuno torna indietro. A tredici anni, Stig rientrò a casa dopo scuola e trovò il padre suicida e la madre assassinata. Vent'anni dopo, lui e sua moglie persero il figlio neonato per una meningite. Era la primavera 2002.

Nell'estate dello stesso 2002, Tøfting partecipa ai Mondiali con la nazionale danese. Lui e Gravesen sono gli interditori brutti e cattivi, col compito di formare una diga e lasciare i centrocampisti offensivi (Jørgensen, Rommedhal e Grønkjær) liberi di guardare avanti. Trascinata dai gol di Tomasson, quella Danimarca passa il girone da prima e fa fuori Uruguay e Francia. Verrà eliminata dall'Inghilterra agli Ottavi, ma sarà comunque un trionfo in confronto a Euro 2000.

Dopo 66 presenze, un mondiale e due campionati europei, Gravesen abbandona la nazionale di colpo, a trent'anni. Un primo segnale della capacità di dire basta.

A ventun anni il primo salto. La Germania è tradizionalmente un passaggio chiave per i calciatori scandinavi. Amburgo, poi, dista appena 260 chilometri da Vejle. Ma è comunque un allontanamento da casa. Intesa come Danimarca, come Vejle e come l'appartamento di famiglia, che insieme al fratello, racconta Thomas, «radevamo al suolo, a pallonate. Da piccolo era molto difficile tenermi sotto controllo. Giocavo a calcio ininterrottamente».

A Vejle la famiglia si era trasferita anni prima da Daugaard. L'aveva fatto per metterlo nelle migliori condizioni per giocare, racconta lui: «Anche se negano sia andata così, so che l'hanno fatto per me».

Durante i tre anni all'HSV, Gravesen si dimostra un giocatore d'agonismo e di prospettiva. L'ultima stagione si conclude con un brillante terzo posto, miglior risultato del club nell'ultimo decennio. In parallelo, lui entra nel giro della nazionale maggiore. Quando arriva l'estate 2000, Gravesen firma con l'Everton sapendo di essersi conquistato quel passaggio ulteriore di carriera. E partecipa agli Europei di Belgio e Olanda, convocato da Bo Johansson, lo stesso Ct che l'aveva fatto esordire nel '98. Lo stesso che però l'aveva da poco definito “psicologicamente instabile”, mentre il suo vice aveva aggiunto: «Il calcio è un gioco di squadra, non possiamo rischiare di trovarci in 10 dopo mezz'ora del primo tempo». Gravesen giocherà qualche scampolo di gara, nel disastroso percorso danese nel girone: tre partite, tre sconfitte, 8 gol subiti e 0 realizzati.

L'intervista è in danese, ma nel video ci sono delle rarissime immagini del periodo di Gravesen all'Amburgo, con la maglia numero 2.

«Ho sentito che c'era la giusta atmosfera» racconterà del suo arrivo nel 2000 all'Everton. In quelle quattro stagioni e mezzo, “Mad Dog”, come viene soprannominato, sarà amatissimo. Il calcio inglese esalta le sue caratteristiche. Dopo il fiordo di Vejle e l'estuario dell'Elba, anche lo sbocco della Mersey riesce a sfogare la sua potenza.

Nella casa di Liverpool ha un tavolo da biliardo che si è fatto mandare da Vejle. Gli manca la Danimarca, gli manca parlare nella sua lingua, tanto che scherzosamente chiede all'allenatore dell'Everton di fargli comprare presto un compagno di squadra danese. Il suo carattere, riesce a gestirlo molto più di un tempo: “ora ne controllo l'80%”.

Affronta la quarta stagione con i Toffees sapendo che sarà l'ultima, non avendo rinnovato il contratto e andando a scadenza nell'estate 2005.

Così caricava il compagno Lee Carsley...

Nel gennaio 2005, Gravesen lascia l'Everton e firma col Real Madrid il contratto più prestigioso della sua carriera. Quando il suo agente gli aveva spiegato che i blancos erano interessati, lui gli aveva detto di smetterla di scherzare. Alla domanda di un giornalista sulla durata del contratto, a suo parere troppo breve, il danese risponde: «Prima dovevo capire se ne ero in grado». Che quasi sicuramente non è il vero motivo, ma comunque è una risposta significativa.

In un monumentale articolo su «Euroman», Kasper Steenbach scrive che Gravesen perde quattro chili nel primo mese a Madrid. Rispetto all'Everton ha ancora il numero 16, ma adesso è tutto diverso. Si ritrova in una squadra mostruosa, completamente votata all'attacco. Davanti ci sono Ronaldo, Raúl e Owen, certo. Ma anche tutti i centrocampisti hanno caratteristiche offensive: da Zidane a Guti, da Beckham a Figo. E i terzini sono maestri nella spinta come Salgado e Roberto Carlos. Proprio il brasiliano descriverà Gravesen così: «Il più matto che ho incontrato nel calcio. Viveva a un ritmo accelerato. Ti faceva dei falli atroci e poi si metteva a ridere. Però una bravissima persona».

La cosiddetta “Gravesinha”, dove l'efficacia si mischia al gesto casuale, e che tanto ha divertito in Spagna.

«All'inizio mi chiedevo: che ci faccio, io, qui?» spiegherà. Ma quel Real è una squadra del tutto sbilanciata, senza Gravesen. Ecco che ci fa.

Suona bizzarro il suo nome lì in mezzo, ma il tecnico Luxemburgo si rende conto che c'è bisogno del mastice per tenere in piedi quel dream team. Diventa in qualche modo un simbolo operaio, di corsa, fatica, legna per tutti. Il resto del Real è una massa luminosa, galactica, un insieme di stelle che può essere risucchiato in un buco nero. La bellezza, da sola, non basta. Makélélé prima e Cambiasso poi non sono stati rimpiazzati, e bisogna riequilibrare la squadra, anche se magari in tono minore.

A fine stagione, comunque, i blancos restano a bocca asciutta: eliminati dalla Juventus agli Ottavi di Champions, secondi nella Liga, fuori agli Ottavi anche in Copa del Rey.

Nell'agosto seguente, Gravesen fa una brutta entrata su Robinho in allenamento. Il brasiliano lo colpisce, nasce una rissa. È lo scontro fra due modi di intendere il calcio, e probabilmente la vita. Fabio Capello, arrivato in panchina da poche settimane, dichiara: «Gravesen è un po' particolare. Tatticamente lavora bene, ma il suo comportamento non mi piace».

Prima che la finestra di mercato si chiuda, Thomas va al Celtic Glasgow.

Questo video spiega bene l'estraneità di Gravesen nel Real Madrid. Il montaggio ridicolizza il suo gioco rude, la sua fisicità pesante, i suoi modi scherzosi e lontani dallo stile Real. L'ambiente intorno ai galacticos, si direbbe, lo ha accolto con molta più spocchia dei galacticos stessi.

Nei mesi a Glasgow si toglie diverse soddisfazioni. Il Celtic vince il campionato e raggiunge gli Ottavi di Champions League, dove viene onorevolmente eliminato dal Milan poi campione d'Europa. Proprio nella Old Firm contro i Rangers, Gravesen segna il suo primo gol nella Premier scozzese. E fa anche una tripletta, contro il St. Mirren, la prima della sua carriera.

Qualcosa, però, si è incrinato, dopo il brusco addio a Madrid, come un suo caro amico ha spiegato: «Thomas sentiva che non gli era consentito di essere sé stesso».

Quando torna all'Everton, nel 2007/08, la sua ultima stagione da professionista, Gravesen sembra soprattutto cercare un buon posto per dire addio al calcio. Giocherà appena 431 minuti, si lascerà coccolare nella luce malinconica del tramonto.

Per segnare nel derby, entra in rete pure lui.

“Arriva l'Orco” titolavaMarca al suo arrivo a Madrid, fotomontando la faccia del danese sulla figura di Shrek. «Sembra uno scaricatore del porto di Rotterdam o un oste irlandese» ha scritto di lui un giornalista spagnolo.

Fisicamente non è mai sembrato un calciatore, Thomas Gravesen. Il fisico tozzo, i lineamenti che lo fanno più vecchio di quanto non sia. Un atleta di altre discipline, al massimo, ma non un calciatore. «A volte mi ammoniscono solo perché sono più grosso degli altri», ha osservato.

Ma è quello che lascia il campo d'allenamento per ultimo, ogni giorno. Un maniaco del lavoro. Come ha spiegato lui stesso, usando la metafora del golf: «Se con la mazza colpisci la pallina un milione di volte, alla fine la colpirai molto meglio che all'inizio». Elementare, pratico, come il suo gioco. Si applica anche mentalmente. Nei mesi a Madrid, trascorre le serate sul divano di casa a guardare il canale tv ufficiale del Real, con un dizionario danese-spagnolo e un taccuino dove appuntare le parole che non capisce.

L'eccentricità riguarda anche i momenti fuori dal campo di gioco. Ai tempi del Celtic la sua storia con un'ex pornoattrice, Kira Eggers, fece scandalo: sui tabloid britannici uscirono prime pagine dal titolo “Gravesen Porn Star Lover”.

Così come aveva fatto scandalo, nel 2003, quando venne fotografato mentre in allenamento teneva i genitali fuori dai calzoncini e sopra la testa del compagno di nazionale Claus Jensen. “Uno scherzo” disse Gravesen. “Indegno” disse il Ct Morten Olsen. Che poi lo perdonò.

Di recente è stato proprio Olsen a spiegare quanto Gravesen fosse, al tempo stesso, fondamentale e faticoso per la squadra:«A volte per i compagni era un po' difficile sopportare di dividere la stanza con lui».

Non sorprende che il suo cameo nel film Goal! 2 – Vivere un sogno (2007) sia incentrato su uno scherzo e sulla nudità. Non sorprendono le leggende metropolitane sul suo conto. Come quella che avesse annunciato il suo arrivo nello spogliatoio del Real al grido: “Sono il vostro salvatore” o “Io sono l'Orco”. Lui l'ha smentita con stupore: «Chi mi conosce sa che non posso aver detto cose del genere. Sono entrato dicendo: Ciao, io sono Tommy».

Chi lo ha conosciuto ai tempi dell'Everton, racconta di una persona molto affettuosa, genuina, che all'improvviso poteva avere qualcosa nello sguardo che lasciava raggelati. Ma di base era un compagnone, un generoso. Uno che fino ai diciassette anni, casomai fosse andata male col calcio, si è preparato a un futuro da vigile del fuoco. Uno che, appena arrivato a Madrid, invitò a cena fuori i nuovi compagni e decise di fare in spagnolo il discorso di presentazione, nonostante non lo parlasse certo bene.

Per tutto questo è stato così amato dalla gente. Perché saremmo potuti essere solo lui, in quel Real Madrid di supereroi. Per la generosità, gli scherzi. Per l'umanità dei suoi errori, la poca linearità delle sue scelte, l'attitudine ad andare oltre quello che ci si aspetta da un atleta.

Gravesen, in volo tra i galacticos. Vale la pena sottolineare che a Madrid è rimasto meno di otto mesi, ed evidentemente sono bastati. Di quei compagni dirà: «Mi hanno accolto a braccia aperte. Mi hanno aiutato, hanno riso con me».

Da calciatore diceva che avrebbe continuato solo fin quando si sarebbe divertito. Sembra una frase fatta, che non considera la difficoltà di accettare il ritiro. Soprattutto sembra inverosimile per uno che si dichiarava “fanatico del calcio, la mia unica passione”. Invece lui smette di giocare presto, a trentadue anni, e sparisce dall'ambiente.

Insieme alla dirigenza del Vejle valutò, a un certo punto, i margini per proseguire e concludere nel club dove aveva iniziato. Non se ne fece niente. Gravesen se n'è invece andato a Las Vegas. Si è parlato di investimenti andati a buon fine, moltissimi soldi. Non ha rilasciato più interviste per anni, non si è fatto vedere in pubblico. Il silenzio intorno a lui ha fatto scalpore, come se tutti si aspettassero che sarebbe rotolato fra gli scandali più rumorosi.

Il compagno di nazionale Grønkjær lo ha descritto come un «potente motore messo a punto, che ogni tanto si spinge al di là. Quando una scintilla è così forte, viene difficile controllarla del tutto. E forse non è nemmeno necessario farlo».

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura