Se Nick Hornby riscrivesse oggi il suo Alta Fedeltà e facesse una top-5 delle migliori guardie tiratrici nella storia della NBA, il nome di Dwyane Wade comparirebbe di sicuro tra quelli di Michael Jordan, Kobe Bryant, Jerry West e Allen Iverson. Più difficile invece stabilire con precisione dove posizionare la leggenda dei Miami Heat in una eventuale classifica: i suoi tre titoli NBA vinti in carriera lo pongono alle spalle di Jordan e Bryant senza neanche la possibilità di continuare nella conversazione (anche perché i due inizierebbero a mostrare i RINGZ prima ancora di proferire parola), mentre avrebbe un vantaggio nei confronti degli altri due e di altre guardie tiratrici di livello comparabile. Pescando a caso da questa lista di ESPN del gennaio 2016, compaiono anche i nomi di Clyde Drexler (prima ancora di Iverson), George Gervin, Ray Allen, Reggie Miller e Earl Monroe — e se la riscrivessero oggi andrebbe senza dubbio inserito anche quello di James Harden.
Quello che rende straordinaria la carriera cestistica di Dwyane Wade è stata però la sua interpretazione unica del ruolo di shooting guard, che nella NBA contemporanea sta un po’ andando in estinzione fondendosi in un unica posizione con quella di ala piccola. Wade ha creato un nuovo modello di guardia tiratrice estremizzando i concetti: un playmaker di fatto anche se non di nome, capace di gestire una mole enorme di possessi offensivi con la palla tra le mani grazie alla capacità di miscelare doti realizzative e creazione per i compagni. Il tutto all’interno di un corpo uber-atletico, nonostante l’altezza inferiore all’1.90. Ora che la sua carriera è alle ultime battute, è ragionevole dire che Wade si colloca a metà tra l’interpretazione “Jordan/Kobiana” e quella “Hardenesca” del ruolo di shooting guard, prendendo alcuni concetti dei primi (le doti realizzative, la mentalità e la narrativa da killer sulle due metà campo, la capacità di attaccare il ferro in avvicinamento con tecnica e potenza) e anticipandone alcuni visti soprattutto nel secondo (il playmaking nella posizione di 2, la capacità di guadagnarsi viaggi in lunetta, l’utilizzo geniale del corpo e l’astuzia).
Come ci ricorderemo di D-Wade
Nei suoi anni migliori, Wade era semplicemente una belva. Fin dal suo anno da rookie si era capito che tenerlo lontano dal pitturato era semplicemente impossibile, mettendo in campo un mix di esplosività, rapidità e controllo del corpo per il quale ci sono davvero pochi eguali nella storia del gioco. Nel suo bagaglio offensivo in avvicinamento a canestro c’era semplicemente tutto: se aveva spazio per caricare il salto, era in grado di schiacciare sopra chiunque (chiedere al povero Anderson Varejao per informazioni); quando non ci riusciva, poteva contorcersi in aria e trovare angoli impossibili per chiudere l’azione anche resistendo ai contatti più duri (anche qui, i Detroit Pistons se lo ricordano bene); e fin dai primissimi anni in NBA ha dimostrato di possedere uno dei migliori floater in circolazione (negli anni del suo prime tirava da quella porzione di campo con il 47.3%), a cui si aggiunge un delizioso uso del tiro al tabellone da ogni angolo possibile.
Il suo canestro della vittoria al debutto ai playoff contro Charlotte rimane uno dei momenti più iconici della sua carriera, quello in cui abbiamo capito “Questo è forte per davvero”.
Parlo di gioco in avvicinamento perché basta consultare la sua pagina su Basketball-Reference per capire il tiro da tre non è mai stato il suo forte. Wade appartiene ad un’epoca precedente, quella in cui a tirare dall’arco dovevano essere gli specialisti in uscita dai blocchi e non quelli che gestivano il pallone in punta, come testimonia non tanto il suo 29% scarso in carriera, quando i soli 1.8 tentati a partita. Per anni Wade ha rifiutato tiri con i piedi oltre l’arco per prendersi quelli dalla media distanza (quasi il 40% del suo totale in carriera è stato preso tra i 3 metri e i 7.25, con punte vicine al 50%) in modo da mixare il suo gioco con le penetrazioni a canestro e mantenere sempre “oneste” le difese. Anche per questo Wade non passerà alla storia come un realizzatore efficiente — 49.5% di percentuale effettiva in carriera, stabilmente sopra il 50% solo con LeBron James al fianco —, ma è innegabile che nei suoi anni migliori sia stato un realizzatore di élite, specialmente negli anni in cui il suo fisico non lo ha tradito.
Wade ha costruito sul suo gioco estremamente dispendioso dal punto di vista atletico una narrativa legata a uno slogan inequivocabile: “Cadi sette volte, rialzati otto”. Il fatto che a 37 anni sia ancora in campo a giocare nella maniera in cui lo ha fatto in questa stagione è la testimonianza migliore di quanto sia speciale il suo atletismo, peraltro convivendo per tutta la carriera senza il menisco nel ginocchio sinistro rimosso nei suoi anni a Marquette University — operazione che gli ha provocato problemi continui nel corso della sua carriera. Specialmente negli ultimi due anni con LeBron James, era davvero difficile immaginare che Wade potesse andare ancora avanti per altre cinque stagioni. E lui stesso nel corso di questa annata, rinominata sin dall’inizio “One Last Dance” per l’impossibilità fisica e mentale di proseguire oltre, ha ammesso di aver pensato in piena era Big Three di non poter più continuare per il dolore che sentiva in entrambe le articolazioni anche solo svegliandosi al mattino.
Ovviamente Wade, come tutte le superstar, ha dovuto adattare il suo gioco al decadimento del suo fisico: nelle ultime stagioni ha fatto vedere di possedere tutti i trucchi possibili e immaginabili nel suo sottovalutato bagaglio tecnico, irrorando la sua pallacanestro di finte, contro-finte, passi incrociati e svitamenti su se stesso per creare quella separazione che il suo fisico non gli concede più. Ancora oggi, per qualche motivo, i difensori saltano sulle sue finte di tiro e gli permettono di lucrare viaggi in lunetta (grazie anche al suo carisma e al suo ascendente presso gli arbitri). Il suo Euro Step passerà alla storia come uno dei più efficaci di sempre — specialmente nella variante dell’Hot Step, che interpretava con una potenza sconosciuta più o meno a chiunque, specialmente a quell’altezza.
A differenza di tanti altri, poi, Wade era in grado di essere ugualmente determinante anche nella metà campo difensiva. Per anni coach Erik Spoelstra ha potuto sfruttare la sua capacità innata nel controllo dei tempi: il numero 3 degli Heat passerà alla storia come il miglior stoppatore nel suo ruolo grazie a un tempismo straordinario, che unito alle doti atletiche gli permetteva di andare a contendere palloni anche a gente molto più alta di lui.
Uno dei segreti della difesa degli Heat nell’era Big Three: Spoelstra poteva permettersi di “blitzare” continuamente i portatori di palla avversari perché nella linea secondaria poteva contare su due stoppatori del livello di Wade e LeBron, capaci di ruotare dal lato debole con tempi e doti atletiche straordinarie quando il pallone usciva dal raddoppio.
Uno però non arriva a dominare la NBA in questa maniera e così a lungo senza avere una mentalità di livello superiore. Ci sono state partite nel suo prime in cui il corpo era palesemente in sciopero rispetto a quelle che erano le sue intenzioni, e in alcuni momenti in cui le difese avversarie sovraccaricavano LeBron per togliergli il pallone dalle mani era essenziale che Wade salisse di livello. Per la maggior parte delle volte lui è riuscito a farlo nel momento giusto, approfittando di un riposo di James per mettersi in proprio in quei 4-5 minuti necessari a “tenere duro” e dare al suo compagno l’opportunità di chiudere le partite, specialmente quelle più difficili nelle annate 2012 e 2013 quando si è sempre fatto trovare pronto al momento del bisogno — in particolare dopo una brutta sensazione.
Se c’è una cosa che ha reso Wade eccezionale è la capacità di mettere parte del suo ego da parte pur di portare la sua squadra alla vittoria. Non tanti giocatori di 23 anni e con un’intera lista di premi individuali ancora da vincere avrebbe accettato l’arrivo in città di Shaquille O’Neal con l’intelligenza che lui ha dimostrato, pettinando l’ego di “The Diesel” quando era giusto farlo e prendendosi il pallone tra le mani quando invece la partita lo richiedeva. E chissà quanto altro tempo passerà prima di vedere un giocatore al terzo anno di NBA dominare le Finali come lo ha fatto lui nel 2006, guidando una rimonta assurda ai danni dei Dallas Mavericks con 34.7 punti, 7.8 rimbalzi e 3.8 assist a partita da 0-2 nella serie (e -12 nell’ultimo quarto di gara-3).
Quella serie rimane una delle prestazioni individuali più straordinarie nella storia dei playoff NBA, una serie del tutto jordanesca per il modo in cui è arrivata e per l’assoluta ferocia con cui si è andato a prendere tutto quanto. Certo, i maligni sottolineeranno i 97 tiri liberi tentati in sei partite (fanno più di 16 a gara), ma bisogna anche andarseli a prendere, quei fischi, con un’aggressività che forse non abbiamo più rivisto — né da lui né da altri. Wade ha fornito un’altra prestazione eccezionale nella serie di primo turno dei playoff del 2010 contro Boston, arrivata dopo una stagione 2008-09 che a livello individuale resta la sua migliore in carriera (capocannoniere NBA con 30.2 punti a partita, 5 rimbalzi, 7.5 assist, 2.2 recuperi e 1.3 stoppate con il 51.6% di percentuale effettiva). Purtroppo per lui il contesto attorno era diverso rispetto a quello del 2006, ma proprio in quell’estate ha realizzato il suo capolavoro — quello di convincere l’amico LeBron a raggiungerlo a Miami.
Wade nell’era dei Big Three
Il primo anno dei Miami Heat dell’Era Big Three è ancora oggi un enorme fraintendimento. Per quanto quella squadra fosse follemente talentuosa nei suoi primi tre giocatori, è per certi versi sorprendente che siano riusciti ad arrivare alle Finals già nel loro primo anno assieme, vista la chimica comunque difficilissima che hanno dovuto trovare in corsa — specialmente con le caratteristiche tecniche di James e Wade che si sovrapponevano più che complementarsi. Come hanno detto e ripetuto più volte i protagonisti di quella annata, perdere in quel modo la finale contro Dallas è stata la loro salvezza — perché ha costretto tutti a farsi un esame di coscienza, da James che ha vissuto il punto più basso della sua parabola sportiva a Wade che ha dovuto ammettere a se stesso di non poter essere il primo violino nella squadra di LeBron, neanche in coabitazione.
La grandezza di Wade è stata quella di fare un passo indietro, cedere buona parte dei suoi tocchi e adattare il suo gioco a quello dell’amico, senza pretendere che i possessi finali passassero dalle sue mani come successo invece nelle Finals del 2011 (giusto recentemente ha detto «Avessimo vinto, sarei stato io l’MVP quell’anno»). È in quel momento di “presa di coscienza” che Wade ha capito di dover sbloccare altre parti del suo gioco — fin lì inutilizzate — per aiutare LeBron a raggiungere il suo livello massimo e allo stesso tempo circumnavigare le lacune più grandi, quella del suo inconsistente tiro da tre punti e del suo fisico in deterioramento. I tempi di taglio che ha sviluppato in simbiosi con James sono una delle cose più belle che due compagni di squadra abbiano creato negli ultimi dieci anni di NBA, punendo le difese che si staccavano da lui per occupare l’area. Non appena l’atletismo ha abbandonato il numero 3 — specialmente nella stagione 2013-14 quando sembrava davvero un ex giocatore dal punto di vista fisico —, l’equilibrio di quegli Heat nelle due metà campo è del tutto crollato, per non parlare della stanchezza mentale sviluppata nello spogliatoio dopo quattro finali consecutive. Tutto questo ha poi portato James alla decisione di lasciare Miami per cercare il titolo a Cleveland con un supporting cast più giovane e con una motivazione maggiore, ma viene da chiedersi se con meno infortuni la storia non sarebbe potuta andare diversamente.
Così sembra tutto semplice, ma i due hanno dovuto lavorare tanto per arrivare a questo livello di intesa telepatica.
La superstar che non sbaglia mai
Ora che Wade ha terminato il suo lungo tour in giro per la lega, la sua figura pubblica ha anche raggiunto il rango di Venerabile Maestro, osannato ovunque sia andato negli Stati Uniti perdonando i passi falsi che ha avuto nella sua carriera. Non che ne abbia commessi poi troppi, se uno ci pensa bene: lasciando da parte le vicende personali del suo burrascoso primo divorzio, non c’è davvero qualcosa per cui possa essere attaccato — cosa che non si può dire di buona parte delle altre superstar della lega. Certo, il suo atteggiamento nei confronti di pubblico e avversari non è stato esattamente umile, ma neanche si può dire che è stato divisivo o particolarmente “antipatico” (ok, tranne quella volta che ha preso in giro la tosse di Dirk alle Finals 2011, ma poi ci ha pensato il karma a punirlo).
Nei suoi due passaggi lontano da Miami — a Chicago prima e a Cleveland poi — ha spesso finito per pretendere un ruolo più grande di quello che probabilmente avrebbe meritato per quanto stava realmente rendendo in campo, prendendo le redini dello spogliatoio senza che quest’ultimo lo avesse né chiesto né accettato (e parlando con la stampa a nome di tutti, non sempre a proposito). Ma anche lì, gliene si può fare davvero una colpa in quei due contesti tecnici?
Forse nel suo ultimo anno a Miami con James avrebbe potuto accettare di uscire dalla panchina e di allungarsi un po’ la carriera, però era impossibile per chiunque andare a chiedergli anche quello dopo tutto quello che aveva già sacrificato. Se proprio vogliamo, sulla sua meravigliosa storia d’amore con gli Heat ha avuto un certo peso la gestione del suo addio nel 2016 — che a distanza di tempo si può dire che è stata sbagliata come minimo da entrambe le parti, ma che poi si è risolta come era giusto che fosse con il ritorno del figliol prodigo. Una piccola macchia che però non cancella pressoché nulla di quello che ha fatto per la città di Miami: per quanto negli ultimi anni abbia a volte finito per essere più ingombrante che utile (e non è un caso che la sua miglior stagione sia arrivata quando non ci sono stati più dubbi sul suo futuro), il rapporto con la franchigia con cui ha vinto tre titoli NBA è destinato a resistere a qualsiasi prova del tempo.
Per capire l’impatto di Wade su Miami non servono molte parole: bastano questi quattro minuti.
Se proprio si vuole andare a fare le pulci al suo atteggiamento in campo e fuori, spesso Wade è stato un po’ “paraculo”: Wade è sempre stato estremamente furbo e accondiscendente con i media per fare in modo che, in una maniera o in un’altra, finisse sempre per essere colpa di qualcun altro. Avendo dimostrato già al suo terzo anno di poter guidare una squadra al titolo e avendo accolto/reclutato free agent per accoglierli in casa sua (invece che andare da qualcun altro per vincere nel suo prime), D-Wade si è guadagnato una sorta di “immunità” pressoché totale alle critiche. Se ci pensate bene, la colpa per le sconfitte nella sua carriera è ricaduta prima sui compagni troppo scarsi (dal 2007 al 2010), poi sulle mancanze di LeBron (nel 2011) e infine sul fisico (dal 2014 in poi). In mezzo i due titoli che hanno cementificato per sempre la sua legacy, migliorando il suo curriculum in modo tale da posizionarlo in quella top-5 di cui parlavamo all’inizio dell’articolo.
In un modo o nell’altro, Dwyane Wade è sempre riuscito a finire dalla parte giusta della storia — qualunque essa fosse. Bisogna essere dei fenomeni per farlo nella NBA contemporanea che non perdona nulla e nessuno, e il fatto che lui ci sia riuscito aumenta a dismisura il valore di quello che ha raccolto nella sua carriera. Considerando da dove è partito e dove è arrivato, seguirlo in questi 16 anni di carriera è stato un viaggio entusiasmante — e chissà quando ci ricapiterà di vederne uno come il suo.