Le sconfitte di Marvin Vettori e Alessio Di Chirico (che poi ha annunciato il ritiro dalle MMA) nell’evento UFC di Parigi dello scorso settembre sono state un boccone amaro da ingoiare per i fan delle arti marziali miste italiane. Vettori al momento è l’unico nostro portabandiera in UFC, una situazione che ci riporta dritti al 2016, tre anni dopo l’addio di Alessio Sakara che ci aveva lasciato con zero italiani nella più importante promotion mondiale di arti marziali miste. Non va dimenticato, però, che a Parigi abbiamo avuto due italiani impegnati in una card molto prestigiosa, uno scenario che fino a poco tempo fa rappresentava una pura utopia.
In effetti a ben guardare il movimento delle MMA italiane è in forte ripresa dopo il brusco stop imposto dalla pandemia: tanti fighter combattono regolarmente all’estero, in promotion di prima fascia e con ottimi risultati. Premesso che Vettori in UFC rappresenta ancora una grande speranza per i tifosi, dato che a 29 anni ha già dimostrato una capacità di evoluzione impressionante, lo scorso sabato sono entrati in azione buona parte dei fighter più promettenti del nostro Paese in un evento della promotion britannica Cage Warriors, organizzato a Roma, mentre altri combatteranno in un evento Bellator che tra qualche settimana si terrà a Milano.
Proprio lo scorso venerdì in Cage Warriors (la promotion europea più importante grazie alla solida collaborazione instaurata con UFC) è andato in scena l’atleta italiano al momento più vicino all’approdo in UFC: il peso gallo Dylan Hazan, 28 anni, di Bari, che si è presentato all’evento da imbattuto, con un record di 8 vittorie, la metà delle quali ottenute via knockout o KO tecnico.
Recentemente proprio Di Chirico lo ha indicato come uno degli astri nascenti delle MMA nostrane, e Marvin Vettori ha detto di lui: «Lo conosco, sta facendo i passi giusti per avere successo». Hazan vanta un background di altissimo livello nella lotta (è stato campione italiano di libera e greco romana in entrambe, oltre ad aver partecipato ai campionati europei e mondiali) il che fa di lui una felice eccezione, dato che il wrestling non è in cima alle qualità tecniche dei fighter italiani solitamente.
Un esempio del talento di Dylan Hazan dall’incontro dello scorso aprile.
Quando l’ho raggiunto al telefono, pochi giorni prima dell’evento di Roma del Cage Warriors, si trovava in un momento delicato: «Ho appena saputo che l’avversario è saltato, stanno cercando un sostituto. E nel frattempo devo iniziare il taglio del peso: cominciarlo senza sapere se il match si farà è una delle cose più brutte che possano capitare. Ho detto al mio manager di accettare qualunque rimpiazzo, l’importante è combattere anche perché verranno quasi quattrocento persone al palazzetto solo per me».
Già lo scorso luglio Hazan avrebbe dovuto battersi nell’ottagono del Cage Warriors per il titolo dei Pesi Mosca, ma si è sentito male proprio mentre ultimava le operazioni per raggiungere peso stabilito: «Il destino mi ha giocato un brutto scherzo. Ho tagliato 16 chili per quell’incontro, e quando ero agli sgoccioli sono collassato in sauna, ero troppo disidratato. Ci ho messo dieci giorni a riprendermi, e nonostante ciò ho comunque proposto al mio avversario di combattere. Ho più ansia quando faccio il peso che al momento di combattere. È una pratica durissima, ogni volta mi ripeto: “Resisti, passerà”».
Dopo quell’esperienza Hazan è salito di una categoria e nell’ultimo evento ha combattuto nei Pesi Gallo. Durante la nostra chiacchierata, a un certo punto mi chiede una pausa: «Per tagliare sto bevendo sette litri d’acqua al giorno quindi faccio avanti e indietro dal bagno». A ridosso del match i fighter prima si idratano in modo massiccio e poi tagliano progressivamente i liquidi per disidratarsi totalmente. Una volta pesati assumono la cosiddetta “ricarica” per recuperare i chili persi e presentarsi in gabbia ristabiliti. Chi taglia la quantità maggiore di peso ne riacquista di più e quindi è il più pesante nel combattimento, con un vantaggio soprattutto nelle fasi di lotta.
In ogni caso, a pochi giorni dall’incontro la promotion è riuscita miracolosamente a trovare un nuovo avversario per Hazan: Jefferson “Machado” De Filippis, brasiliano residente a Napoli, 38 anni, con un record di due vittorie e una sconfitta. «Non lo sottovaluto», mi scrive Dylan in proposito, «la mentalità resta la stessa: capitalizzare la strategia preparata in palestra e dimostrare che sono il migliore. Nelle MMA gli imprevisti sono sempre in agguato, perciò il cambio di avversario all’ultimo non mi ha distratto, resto lucido e concentrato».
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Da Bari, Dylan Hazan è stato seguito da un tifo da stadio.
Di Hazan si sa poco, pochissimo: «Non tutti meritano di sapere la tua storia», dice lui. Ecco perché comincio l’intervista chiedendogli del suo passato: «Il mio cognome è di origine turco-armena, e mi hanno chiamato così perché papà è un patito di Dylan Dog, di cui ha una marea di fumetti. Sono nato e cresciuto nel quartiere San Paolo di Bari, un posto dimenticato da Dio, dove lo Stato non esiste. Fino ai due anni ho vissuto in condizioni precarie con la mia famiglia, ho un fratello e una sorella. Quando papà ha trovato lavoro come netturbino ci siamo potuti permettere una casa popolare, mentre mamma faceva lavori saltuari; entrambi si sono sempre impegnati al massimo per non farci mancare nulla».
«Mia nonna materna non ha mai accettato che i miei genitori stessero insieme, perché papà viene dalla strada, così ha fatto di tutto per separarli. Ho visto cose che non puoi immaginare, finché sono intervenuti gli assistenti sociali e i carabinieri per le liti che si scatenavano. Una volta a settimana avevo le volanti a casa, quando scoppiavano questi casini, me ne andavo».
Gli chiedo in che modo queste vicende lo hanno segnato. «Non più di tanto, perché ho affrontato diversi problemi nella vita, quelli familiari non sono stati i più gravi. A vent’anni andavo in giro solo per picchiarmi. Era un modo per sfogarmi, mi faceva stare bene. Non pensavo alle conseguenze: mi facevo trascinare dalle cattive amicizie con cui sono cresciuto, vivendo in un quartiere malfamato. Potessi tornare indietro non lo rifarei, però anche quelle esperienze mi sono servite a maturare. Lo sport mi ha dato disciplina e autocontrollo, ma devo ancora impararne tanto… A volte mi sento ancora una mina pronta ad esplodere».
È strano, Dylan Hazan è un tipo riservato e silenzioso, ma adesso parla come se nuotasse in un fiume di ricordi. «Il rapporto con i miei genitori è sempre stato buono, finché ho deciso di lasciare la lotta, in cui stavo facendo un percorso importante dopo aver giocato a calcio e praticato judo, per le MMA» prosegue. «Una decisione che ho preso quando ho capito che non c’era più posto per me in nazionale, perché non ero raccomandato da nessuno. I miei non me lo hanno mai perdonato, speravano che potessi entrare in qualche gruppo sportivo oppure trovare un posto di lavoro stabile, e non hanno mai capito le MMA. Perciò ho avuto una litigata pesante con mio padre, che è uno duro, vecchio stampo, mi ha detto: “Tu ora vai a lavorare per portare il pane a casa”. Abbiamo rotto, perché anche io non ho un carattere facile, sono impulsivo, e per sei mesi ho vissuto da un amico senza parlare più con mio padre, poi siamo arrivati ad una tregua. Non mi ha perdonato ma oggi è il mio primo tifoso, sono pur sempre suo figlio».
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Le MMA, si sa, sono uno sport crudele. Pretendono devozione assoluta ma nel novantanove percento dei casi non danno nulla in cambio. Gli inizi di carriera dei fighter ne sono un esempio, senza considerare che tantissimi rimangono intrappolati a quel livello: «Ricordo un episodio, dopo il mio secondo match da pro» racconta Hazan. «Era stata una battaglia e ne sono uscito con i punti su un sopracciglio, gli occhi lividi, semichiusi e gonfi, e un piede rotto. Stavo tornando a casa in treno e viste le condizioni in cui ero ho chiamato mio padre per chiedergli di venirmi a prendere in stazione. Arrivo, salgo in macchina, mi guarda, trasale e mi chiede: “Quanto ti hanno dato per combattere?”, “150 euro” gli ho risposto. E lui: “E quanto stai pagando per gli esami, le lastre e le cure?”. Dopo le visite mi erano rimasti solo 15 euro».
«Appena mia madre mi ha visto è scoppiata a piangere. Ho tenuto gli occhiali da sole in casa per una settimana, altrimenti si sarebbe spaventata. Io e lei abbiamo un rapporto bellissimo, per me è fondamentale. Anche se so che spesso pensa: “Cosa ho fatto di male per avere un figlio che si mena con la gente per vivere?”».
Il seguito di Hazan a Bari è notevole e lo scorso settembre la Curva Nord gli ha dedicato uno striscione. «Ho un legame ambivalente con la mia città. Da una parte me ne sono dovuto andare per dare una svolta alla carriera, altrimenti non avrei avuto un futuro. Dall’altra sono molto attaccato alle mie radici. Quando hai gli affetti vicino quasi non ci fai caso, li dai per scontati, ma appena ti allontani ti rendi conto di quanto siano importanti».
«Quando la curva del Bari mi ha dedicato uno striscione in tanti hanno chiamato mio padre perché pensavano fosse un gesto commemorativo o che fossi andato al fronte in Ucraina… Ma è stato incredibile, si è creato un hype enorme in città».
«Ho conosciuto Riccardo Carfagna della palestra Aurora MMA a un evento in cui ho combattuto. Siamo rimasti in contatto e dopo qualche mese mi sono trasferito da loro a Roma» riprende il filo Hazan. «Ci sono andato con duemila euro in tasca, dopo aver fatto due lavori contemporaneamente per qualche mese. In quel periodo mia nonna, che viveva da sola, si faceva portare ogni settimana in ospedale perché diceva di sentirsi male. Così chiamava mia madre che aspettava tornassi a casa dopo aver lavorato tutta la notte. Portavo lei e nonna al pronto soccorso e mentre aspettavamo in corridoio crollavo per la stanchezza, mi addormentavo di colpo».
«Ma anche a Roma all’inizio è stata dura: ero ospite di amici all’Infernetto (un quartiere non lontano da Ostia ndr) e ci mettevo tre ore ad arrivare in palestra, tra il traffico e la disorganizzazione dei mezzi pubblici, oltre al fatto che dormivo sul divano. Poi ho trovato lavoro come buttafuori e mi sono trasferito più vicino alla sede del team».
Dal punto di vista tecnico, la transizione da una disciplina all’altra non è stata scontata: «Nell’approdo alle MMA l’aspetto più complesso è stato passare dalla lotta classica a quella che si usa nelle arti marziali miste, il grappling, che punta a sottomettere l’avversario. Non è stato facile perché lottavo entrando dritto, esponendo il collo, e mi chiudevano la ghigliottina. Considera che quando vado male in allenamento do in escandescenze, lancio cose per aria, spacco i cestini».
«E poi ho dovuto imparare a combattere in piedi: mi è sempre piaciuto scazzottare, è nella mia indole, quindi sono migliorato in fretta. È vero, finora non ho fatto vedere tanto nello striking, non ho vinto per KO e qualcuno dice che non sono un atleta spettacolare da guardare. In realtà secondo i miei coach me la cavo molto bene in piedi, è questione di abitudine più che di fiducia nei miei mezzi. In gabbia non hai tempo di riflettere e a me viene naturale ricorrere alla lotta per impormi sull’avversario, è la mia comfort zone. L’ho praticata per dieci anni e sono solamente tre che faccio MMA, ho acquisito automatismi su cui sto lavorando per non renderli predominanti. Devo sbloccarmi, ma ho fiducia, serve tempo ed esperienza».
«Non conosco alternative, se non dare completamente me stesso per raggiungere un obiettivo. La vita mi ha temprato, mi porto nell’ottagono quello che ho passato più l’ambizione di diventare qualcuno, che mi assilla da quando ero un bambino», continua Hazan.
«Non mi sono mai accontentato, non so se sia un pregio o un difetto perché a volte l’ho pagata a caro prezzo, credo che lo vedremo all’arrivo. C’è un detto: “Chi nasce tondo non può morire quadrato”. Sto cercando di fare l’opposto: se dovessi morire tondo, significherebbe che tutto è già scritto, invece voglio cambiare le carte in tavola. Il mio rapporto con le MMA è totalizzante. Non è uno sport, è uno stile di vita. Un atleta professionista spesso fa i conti con la solitudine, è difficile socializzare, soprattutto se cambi città e ti trasferisci. Sono passato dalla vita randagia che facevo a Bari a quella piena di regole e disciplina di un fighter del mio livello. Adesso passo il weekend a guardare Netflix mentre prima stavo in giro la notte. Insomma, da un opposto all’altro».
Nel suo secondo match in Cage Warrors, contro Scott Malone, Hazan ha resistito stoicamente a un tentativo di leva dell’avversario, riuscendo a liberarsi. Nei giorni successivi all’incontro ha ripetuto: «Piuttosto che arrendermi mi sarei fatto strappare il braccio». I fighter si lanciano spesso in dichiarazioni forti, sprezzanti del pericolo e del dolore, ma Dylan Hazan parla con un’inquietante naturalezza e fermezza tale che fa sembrare parole del genere più vere del solito.
«Quello non era un bluff» mi dice, e non faccio fatica a crederlo. «Non avrei mai battuto (un gesto con la mano che nelle MMA significa resa, ndr), non mi sarebbe neanche passato per la testa. All’esordio in Cage Warriors mi sono rotto gli incisivi, mi hanno dovuto fare un impianto. Nell’ultimo match l’avversario mi ha fatto una leva alla gamba che mi ha strappato il polpaccio. Negli spogliatoi mi sono messo a piangere perché stavo impazzendo dal dolore».
La leva al braccio arriva dopo una decine di secondi dall’inizio del primo round.
Hazan ha dichiarato più volte di essere pronto a morire in gabbia, se necessario. Un’altra frase che fa parte della retorica del fighting, ma che pronunciata da lui sembra meno astratta, come se fosse davvero disposto a un sacrificio estremo. «Devo trovare le parole giuste per dirlo. Vediamo… Non ho avuto molto dalla vita, di conseguenza sento che non perderei più di tanto. Passo periodi bui in cui faccio i conti con i miei demoni, combatto guerre dentro di me che non conosce nessuno. Quello di poter dare tutto in gabbia è un pensiero che mi rende più leggero, mi fa sentire meno pressione. Sono pronto a dare il massimo in quello che faccio, fino in fondo e anche oltre».
A questo punto però bisogna parlare dell’elefante nella stanza. Quello che tutti si aspettano accada da un momento all’altro. La “chiamata” dell’UFC. Gli chiedo quanto si sente vicino alla promotion più importante del mondo: «Quando avevo il match per la cintura del Cage Warriors, quello in cui poi ho fallito il peso, mi sentivo a un passo dall’ingaggio in UFC. Se avessi vinto, credo mi avrebbero preso. In ogni caso mi sento i loro occhi addosso, per questo devo restare imbattuto; perdere per me significa buttare via mesi di preparazione e soldi, compromettendo il mio percorso. Non dico altro perché sono scaramantico, so solo che ho sacrificato la mia vita passandola nell’ombra, ora voglio prendermi il mondo».
Ci pensa un attimo, poi aggiunge. «Però, anche se dovessi arrivare in UFC e diventare un campione, i miei genitori non cambieranno idea su di me. Li ho delusi. E in passato ho sofferto tanto per questo».
Venerdì notte, quando le telecamere di Mola Tv (piattaforma di streaming indonesiana, con la stessa proprietà del Como, per capirci, che in Italia trasmette gli eventi Cage Warriors) lo inquadrano mentre fa il suo walkout in direzione della gabbia, con di sottofondo i cori di sostegno dei suoi tifosi, si percepisce la feroce determinazione di Hazan. La sua impazienza, quel senso di urgenza che lo rende unico e che, quando arriva ai piedi dell’ottagono, gli fa togliere per errore anche i pantaloncini, oltre alla t-shirt, restando per un attimo in slip davanti agli occhi increduli e divertiti del suo coach.
De Filippis non era un atleta all’altezza di Hazan, si sapeva già alla vigilia, quando Cage Warriors lo ha scelto come sostituto dell’ultimo momento. Ma non ha sfigurato, anzi: non si è fatto impressionare dal talento barese, impostando l’incontro sullo striking e sfruttando le leve più lunghe. Costringendo Hazan a qualche scambio a viso aperto, sempre rischioso da accettare con i guantini leggeri delle MMA.
Hazan si è lasciato trascinare dalla volontà di chiudere in fretta l’incontro, tanto da andare a vuoto con un gancio che ha mancato De Filippis e lo ha fatto finire a terra nello slancio. L’angolo ha cercato di riportarlo alla calma, i telecronisti inglesi lo hanno definito “wild”, selvaggio. Fino a quando Hazan ha chiuso la distanza portando a terra l’avversario e scatenando un ground and pound feroce, vincendo il match a circa metà del primo round.
Un successo che si unisce a quello degli altri sette suoi colleghi e nostri connazionali impegnati nella card, tra cui Michele Martignoni, nuovo detentore del titolo Cage Warriors dei Pesi Gallo, per una serata storica, indimenticabile, che fa ben sperare sullo stato di salute delle MMA italiane.
Per quanto riguarda Dylan Hazan niente è più significativo della sua esultanza, quando è andato davanti alla telecamera mostrando il numero nove con le dita (quello delle sue vittorie), dicendo «Dana, I am in UFC», rivolgendosi direttamente a Dana White e mimando il gesto del telefono. Adesso, Dylan Hazan aspetta solo la chiamata della promotion più importante al mondo.