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Per amare Dzeko bisogna prenderselo tutto
10 nov 2022
Il gol al Bologna ci ricorda cosa può darci quando è ispirato.
(articolo)
8 min
(copertina)
Emilio Andreoli/Getty Images
(copertina) Emilio Andreoli/Getty Images
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«Ho visto la palla arrivare, mi sono detto ci provo e poi vediamo». Le spiegazioni dei gol più incredibili sono sempre simili a questa che ha dato Dzeko dopo il gol con cui ha pareggiato - momentaneamente, prima che l’Inter dilagasse fino al 6-1 finale - la partita con il Bologna. Un gol che su internet è stato immediatamente paragonato a quello di Zinedine Zidane segnato contro il Bayer Leverkusen, con la maglia del Real Madrid, nella finale di Champions League nel 2022 - ovvero uno dei gol più belli della storia del calcio. Non c’è neanche bisogno di specificare che una cosa è segnare nella finale continentale più importante per il proprio club e un’altra in un banale turno infrasettimanale di Serie A o che la gamba di Zidane va molto più in alto e che colpisce la palla con una violenza di molto maggiore, con un movimento rotatorio esplosivo da arti marziali, come se non stesse colpendo un pallone al volo ma decapitando un avversario con una fatality di Mortal Kombat. Il punto dicevo non è quale dei due gol sia più bello, o difficile, quanto piuttosto apprezzare il modo in cui Dzeko sia riuscito a prendere un gesto che già esisteva e farlo “suo”.

In questo inizio di stagione Edin Dzeko è stato chiamato a sostituire Romelu Lukaku, che a sua volta era stato richiamato all'Inter per sostituire l'Edin Dzeko visto lo scorso anno - che, ancora prima, avrebbe dovuto sostituire Lukaku quando è andato al Chelsea. Con il contratto in scadenza, a quasi trentasette anni e con una stagione deludente alle spalle, Dzeko sta tenendo l’attacco dell’Inter sulle proprie spalle in un periodo complicato. E lo sta facendo con tutto quello che non è il gol (solo 4 per ora in campionato) ma che, nel corso degli anni, ha imparato a trattare con la stessa importanza. Quel gioco di raccordo che, se volesse, gli permetterebbe di giocare fino a cinquant’anni probabilmente. Qualità che ormai diamo per scontate e che forse per una squadra come l’Inter non sono abbastanza per il proprio centravanti titolare. Poi però contro il Bologna Dzeko ci ha ricordato che è ancora in grado di sorprenderci.

Che Edin Dzeko sia capace di gol bellissimi lo sapevamo. Soprattutto gol al volo. La sua capacità di coordinarsi su palloni che lo scavalcano o che attraversano il cielo come una cometa prima di atterrare sul suo piede era già venuta fuori in occasione del gol al Torino della stagione 2018/19 o nella doppietta alla Sampdoria del 2019/20 (solo per fare esempi recenti, in Serie A). Resta sorprendente non solo per l’età - adesso Dzeko è il secondo marcatore più vecchio della storia dell’Inter, dopo Mihajlovic - ma proprio per l’estetica che accompagna Dzeko, i suoi movimenti lenti da locomotiva a vapore. Movimenti che richiedono una capacità di vedere e sentir arrivare la palla in anticipo, mettendo in modo tutte le procedure burocratiche che fanno muovere i singoli muscoli affinché il piede incontri la palla esattamente nel momento e con il punto d’impatto voluto. Dando alla palla una traiettoria che il suo cervello ha disegnato improvvisando, con la facilità con cui Picasso faceva disegni con la luce.

Insomma è il solito contrasto che Edin Dzeko si porta appresso, quel senso di impossibilità a volte frustrante che lui supera con un talento unico, come il famoso calabrone che non sapeva di non poter volare eccetera eccetera. E però, solo chi tiene duro e accetta, apprezza Edin Dzeko anche quando sbaglia, anche quando l’impossibilità è reale e magari incomprensibile, difficile da credere, può dire di amarlo veramente e gustarsi fino in fondo momenti come questo.

Momenti come quello arrivato al venticinquesimo minuto del primo tempo contro la Juventus, quando un calcio d’angolo di Dimarco deviato da Lautaro gli finisce in testa a un paio di passi dalla porta di Szczesny ma lui la riesce a mettere all’esterno del primo palo. D’accordo che Dzeko la vede all’ultimo, e da dietro Alex Sandro lo spinge leggermente mandandolo incontro alla palla, ma da quella posizione - più vicino al secondo palo, colpendo comunque piuttosto frontale - era molto più probabile, anche per caso, anche chiudendo gli occhi, mettere la palla in porta piuttosto che spedirla fuori dal palo lontano come una sigaretta gettata dal finestrino guidando. Si è messo le mani in testa lui, se le è messe Lautaro e se le è messe anche Skriniar che ha visto tutto da qualche metro indietro. Per Dzeko però sono situazioni piuttosto normali, o comunque comuni, frequenti.

Il bello è proprio questo: con Edin Dzeko non puoi mai sapere quando la palla entrerà in porta. Nel bene e nel male. Può inventarsi un gesto tecnico geniale e a suo modo elegante o sbagliare una palla facile come se quella fosse la prima palla che calcia in vita sua, come se non sapesse di cosa è fatta la palla, quanto pesa, quanto è dura. Anche contro il Bologna, a impreziosire ancora di più il gol segnato al volo (e l’assist per Gosens), ci sono un paio di errori altrettanto “suoi”.

Al 46esimo minuto di gioco prende la traversa da dentro l’area piccola, dopo una grande azione di Dumfries che gli mette la palla in testa con una mano invisibile. Dzeko colpisce in punta di piedi, senza neanche saltare, ma prende in pieno la traversa. Anche qui: più difficile prendere la traversa o tirare alto che metterla in rete.

All’82esimo, con il punteggio già sul 6-1, Asllani calcia da fuori, la palla sbatte sul palo e arriva sul piede destro di Dzeko con Skorupski ancora steso a terra. Quanto era più facile coordinarsi in questo caso rispetto al gol del 1-1? Ma Dzeko ci sorprende ancora e mastica la palla, con la gamba che sembra quella di legno dei pirati dei cartoni animati, schiacciandola a terra e facendola arrivare comodamente tra le mani del portiere.

Certo, sarebbe stato di cattivo gusto, sarebbe stato cinico, segnare anche quel gol, e Edin Dzeko è tutto tranne che cinico. Di più: non è un attaccante per quel tipo di tifosi che apprezzano i giocatori cinici.

Ma torniamo al centro di questo pezzo. Al gol che rimarrà tra i più belli che Dzeko ha segnato in carriera. Una rivisitazione inconscia del gol di Zidane col Leverkusen - sarebbe stato possibile pensarlo se Dzeko non avesse visto, a quindici anni, Zidane coordinarsi in quel modo? - che però fa suo. Il movimento di Dzeko è più raccolto, meno ampio e plateale di quello di Zidane, consapevole di essere un re shakespeariano al centro del proscenio in quel momento.

Dzeko si pianta sul punto di caduta del pallone dopo aver dato un’occhiata alla porta, forse per prendere nota della posizione del portiere, o dei difensori. Veniva da dietro, dopo aver dato lui la palla in profondità a Dumfries, palla che si impenna quando l’olandese crossa addosso a Lykogiannis. Dzeko la fa scendere e la colpisce poco prima che tocchi terra, alzando la gamba il minimo indispensabile e sbilanciandosi all’indietro per darle la direzione. La colpisce con un punto del piede destro tra il collo e il piatto, da sotto, mandandola nell’angolo basso più lontano da Skorupski, con precisione più che forza, come se facesse canestro. Ma più come se stesse facendo canestro con una pallina di carta nel cestino dell’ufficio, rilassato, senza sforzo, sporgendosi appena dalla scrivania, che come se stesse tirando da tre in NBA spezzando il polso e saltellando all’indietro.

Il gol Dzeko lo segna individuando - forse in quell’attimo in cui guarda la porta prima di coordinarsi - il punto in cui mandarla, in cui Skorupski non sarebbe potuto arrivare. Il resto viene da sé. Non aveva bisogno della forza di Zidane, di far esplodere la palla verso la porta per anticipare il portiere. Né aveva bisogno di colpire la palla in alto quanto lui, rischiando di rompersi un’anca, quando facendo scendere la palla poteva colpirla con il piatto della racchetta leggermente inclinato. Ecco, il modo in cui Dzeko mette la palla nell’angolo lontano ricorda una volée bassa eseguita sotto rete, con un angolo stretto, di fino, un colpo che richiede una notevole sensibilità.

E questa sensibilità è contraddetta da Dzeko stesso in molteplici altre occasioni. Come se fosse vittima di un sortilegio - che lo perseguita da quel giorno in cui contro il Palermo ha fatto attraversare alla palla l’interezza della porta vuota prima di uscire - o come se volesse costringerci ad apprezzarlo nella sua totalità, nel bene ma anche nel male.

È troppo facile amare Haaland o Benzema, l’infallibilità a cui sono arrivati, in modo diverso e in momenti diversi delle proprie carriere, per inseguire l’ideale calcistico contemporaneo del centravanti che segna più gol di quante partite gioca, o che segna in tutte le partite importanti come se avesse un debito da riscuotere poco alla volta con il diavolo che gestisce le sceneggiature delle partite. Per amare Dzeko bisogna prenderselo tutto. Bisogna ricordarsi l’assurdità del calcio stesso, l’impossibilità di essere perfetti.

Salvo poi, proprio quando non te l’aspetti, trovarti di fronte a un momento di assoluta perfezione. Una perfezione che gli viene talmente facile che quasi non sembra farlo apposta. Quasi non sembra, Edin Dzeko, un giocatore da più di 300 gol in carriera, che ha vinto tutto o quasi e che, con la pancia piena, soddisfatto, a quasi quarant'anni insegue ancora quel momento in cui la palla sembra quasi offrirsi ai suoi piedi affinché ci faccia qualcosa di bello. Come un poeta anziano guardando la luna crea dei versi nuovi, Edin Dzeko ieri sera contro il Bologna, guardando quella scendere dal cielo ha scoperto una cosa: è ancora ispirato.

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