Qualche giorno fa Didier Drogba ha annunciato il suo ritiro ufficiale dal calcio giocato, al termine di una carriera che sembra un film holliwoodiano. Mentre Eto’ è ancora in campo in Qatar, si è riaperto il dibattito su chi sia stata la più grande punta africana degli ultimi vent’anni. Daniele V. Morrone ed Emanuele Atturo in questo pezzo difendono le ragioni, rispettivamente, della punta camerunense e di quella ivoriana.
Eto’o è il giocatore che non vorresti mai contro
di Daniele V. Morrone
La carriera di Eto’o non si presta a diventare un film quella di Drogba: non ci sono gli anni d’anonimato, la difficoltà di farsi notare nelle serie inferiori, la crescita nell’OM e poi l’apogeo al Chelsea. La sua storia non ha avuto questo sviluppo fiabesco, Eto’o è talento puro, un giocatore senza compromessi, troppo spigoloso per avere le sembianze di un eroe hollywoodiano, troppo complicato da gestire nella vita fuori dal campo e davanti ai microfoni: «Correrò come un negro, per guadagnare come un bianco» è il suo biglietto da visita arrivato a Barcelona ed è forse la sua frase più famosa. Una frase che ha talmente tanti piani interpretativi da essere ingestibile da chi la sente, sicuramente non dai tifosi avversari, che in Spagna hanno reagito anche puntando sui cori razzisti. Eto’o è uno tsunami in campo e fuori ed è impensabile l’idea di gestire uno tsunami, l’unico modo per sopravvivere è provare a rimanere a galla mentre avanza, accettandone la potenza. Certamente non andandogli contro.
Eto'o è stato il padrone del suo continente per due interi lustri: dal 2000 al 2010 - nel periodo insomma tra il Mallorca e l’Inter - è entrato per otto volte nella top 3 del Pallone d’Oro africano; ha vinto quattro volte (record) di cui tre consecutive dal 2003 al 2005 (curiosamente in quegli anni il secondo è stato sempre Drogba, e le due vittorie di Drogba nel 2006 e nel 2009 hanno Eto’o come secondo).
L’unico giocatore nell’era moderna a completare due triplete consecutivi è quello che lo fa di pura determinazione e l’ha fatto dopo aver già vinto tutto in passato, lo ha fatto cominciando dal rifiuto al Real Madrid di Florentino Perez, che non gli riconosceva lo status che lui riteneva di avere.
Per capire Eto’o bisogna ricordare che a 21 anni aveva già archiviato la questione della legacy con la sua Nazionale vincendo due coppe d’Africa consecutive nel 2000 e nel 2002 e nel mezzo l’oro alle Olimpiadi di Sydney. Provando a mettere in prospettiva la cosa: Eto’o esordisce con il Camerun a 16 anni, a 18 segna un gol nella finale della Coppa d’Africa vinta battendo la Nigeria di Jay Jay Okocha e a 19 ha vinto l’oro Olimpico battendo il Brasile di Ronaldinho ai quarti e in finale la Spagna di Xavi, segnando il gol del pareggio e il proprio rigore dopo i supplementari.
Era insomma uno di quei ragazzi prodigio che fin da subito sembrano rendere oro tutto quello che toccano, e che da subito devono essere messi a confronto con i migliori giocatori del mondo, non solo della propria generazione.
Ecco Samuel Eto’o diciottenne che dispensa assist filtranti e colpi di tacco volanti in finale contro la Nigeria di Okocha.
Eto'o è arrivato in Europa come un prescelto. È stato prelevato dal Madrid a 16 anni, quando già era nel giro della sua Nazionale. La Casablanca lo manda subito a giocare in prestito con i professionisti: troppo forte per stare con i pari età. Ma Eto'o aveva un talento così esagerato da potersi permettere di rifiutare la panchina del Real Madrid dei Galacticos a 19 anni, e per per acquistarlo il Mallorca ha battuto il proprio record di spesa.
Eto’o ha 23 anni e 54 gol nella Liga quando rifiuta il Madrid per la seconda volta, dopo essere diventato il giocatore più forte della storia del Mallorca e averlo guidato alla vittoria della Coppa del Re segnando ancora una volta in finale, questa volta una doppietta (e sulla strada del torneo si è tolto anche lo sfizio di uno storico 4-0 proprio al Madrid). Titolare nel Real Madrid di Raúl e Ronaldo (il brasiliano) o la cessione: questa la sua richiesta a Florentino. I giocatori che si sono permessi di rifiutare il Madrid di Florentino non si contano neanche sulle dita di una mano: Eto’o lo fa e finisce per avere ragione, come sempre, prende il Barça di Ronaldinho che è un genio e un artista, e completa la migliore coppia del calcio mondiale.
I passaggi di Ronaldinho e Deco senza di lui non avrebbero assunto una forma così distruttiva: erano i suoi movimenti a premiare la qualità dei filtranti dei compagni. Nel suo picco Eto’o non è solo una scheggia che penetra nella carne viva della difesa avversaria, ha soprattutto una capacità di mantenersi in perfetto equilibrio e freddo mentalmente anche alla massima velocità, forse è questa la sua caratteristica più evidente. Eto’o è il maestro delle diagonali profonde e poi dei cambi di velocità e direzione nelle conduzioni palla al piede.
Eto’o non ha mai lesinato un movimento in profondità, sempre convinto che la palla gli sarebbe arrivata, creando così lo spazio stesso per far esplodere il talento dei compagni. Il fatto di essere praticamente ambidestro poi rendeva Eto’o ancora più letale da qualsiasi punto di partenza, col suo tiro potente e preciso anche da oltre 20 metri appena riceve fronte alla porta, è un incubo per la linea avversaria e il concetto del fuorigioco stesso: è più reattivo del marcatore diretto e alzare la linea significa aprirgli la strada per ricevere il filtrante, abbassarla lo avvicina all’area di rigore, dove se riceve palla raramente perdona.
Le prime due stagioni nel Barça, quelle in cui segna 63 gol in due anni, vince tutto interrompendo un digiuno di trofei che dura da un lustro. Eto'o è decisivo anche nella seconda Champions della storia del club.
Nella sua prima conferenza stampa come allenatore del Barcelona, Pep Guardiola ha sganciato subito la bomba dichiarando che per lui Deco, Ronaldinho ed Eto’o erano da cedere perché non facevano parte del suo progetto. Se c’è una cosa che abbiamo capito di Eto’o nella sua carriera è che il suo immenso talento e la sua determinazione non devono mai essere contrariate. Quando Guardiola raggruppa Eto’o con Deco e Ronaldinho, non ne rispetta la determinazione, e quando ne chiede lo scambio con Ibra non ne rispetta il talento. Sappiamo tutti com’è andata a finire un anno dopo.
Quando parliamo di Eto’o lo facciamo riferendoci a un giocatore che guarda in faccia Guardiola e gli dice di no. Se lui gli dice più volte che non vuole spostarsi sulla fascia contro il Betis e segna poi il gol salva risultato, c’è poco da fare se non accettarlo così com’è. Lo fa per una stagione in cui ancora una volta la sua squadra vince tutto. In cui Eto’o è assoluto protagonista e segna 36 gol in 52 partite, compreso il gol che apre la vittoria contro lo United nella finale di Roma. La velocità nelle transizioni e la profondità dell’attacco del primo tridente di Guardiola viene spesso dimenticata, ma quella è tutta farina del sacco di Eto’o, sia come punta centrale che poi come attaccante esterno per aiutare i movimenti di Messi da falso 9.
Solo un anno dopo Guardiola è riuscito a raggiungere uno status tale che gli ha permesso di forzare la mano, usando Eto’o come merce di scambio per arrivare a Ibrahimovic. La risposta di Eto’o è quella di buttarsi anima e corpo nella nuova avventura, di perdonare Mourinho con cui ha avuto screzi per anni quando era al Chelsea, pur di battere Guardiola sul campo.
Un giocatore che ha un egocentrismo tanto grande da fare il giro e diventare abnegazione totale alla causa: seconda punta, attaccante esterno, poco importa perché Eto’o che si considera (a ragione) tra le migliori punte del mondo, fa tutto quello che è in suo potere per poter vincere, con le iconiche due prestazioni proprio contro il Barça di Guardiola che ne sono l’esempio più famoso. Quando poi viene rimesso al centro da Benitez, segna 37 gol in una stagione. L’ultima del suo picco, prima di accettare la Russia perché tanto non c’era più nulla da vincere in Europa, nessuna rivincita da prendersi, nessuno più disposto ad andargli contro.
Scegliere Eto’o significa accettare che il talento puro può prendere pieghe sprezzanti, ma sempre per rimanere immuni a critiche dall’esterno. Eto’o era consapevole di avere gli strumenti per risolvere qualsiasi partita, e nella sua carriera è riuscito a farlo in quelle più importanti. Le parole di Ronaldo Nazario, che ha condiviso il campo con Eto’o nel picco della carriera, fotografano benissimo cosa significava vedere Eto’o in campo: «Non c'è nessuno che ha vinto come Eto'o, nessuno che sa vincere le partite che contano come Eto’o».
Lo sa il Real Madrid, lo sa Pep Guardiola e lo sa Mourinho: non è detto che lo si voglia avere nella propria squadra per tutto quello che si porta dietro la sua figura, ma di certo nessuno lo vorrebbe mai contro.
Didier Drogba, larger than life
di Emanuele Atturo
Premetto subito una cosa: difendendo le sue ragioni, non voglio dire che Didier Drogba sia stato più forte di Samuel Eto’o. La domanda su chi fosse però più grande tra i due fa parte di quel genere di questioni che ha una risposta diversa a seconda delle lente che vogliamo usare per leggerla.
Gli argomenti per scegliere Eto’o, ad esempio, sono diversi e tutti solidi. Voglio menzionarli subito per toglierci l’impaccio. Partiamo dai trofei perché Eto'o ha vinto più di Drogba. Ha vinto di più con la sua Nazionale, il Camerun: due Coppe d’Africa e persino un oro olimpico; ha vinto di più con i suoi club: tre Champions League con due squadre diverse, Inter e Barcellona, quattro campionati nazionali e coppe varie. Drogba ha vinto una sola Champions League e non ha mai vinto la Coppa d’Africa. Anche individualmente, Eto’o ha vinto di più. In fondo se volevamo solo sapere qual è stata la punta africana oggettivamente più forte c’era un modo molto semplice per farlo, ovvero contare i premi di Calciatore africano dell’anno. Eto’o lo ha vinto per quattro volte, Drogba due.
Anche usando parametri puramente tecnici Samuel Eto’o è probabilmente un attaccante superiore a Didier Drogba. Pochi giocatori riuscivano a giocare a quella velocità mantenendo quel controllo. Quando attaccava, con e senza palla, Eto’o si abbatteva sulla difesa come una specie di elemento naturale. La sua è la storia di un talento nato, che a 15 anni era già titolare con il Camerun e a 19 vinceva l’oro olimpico, m la precocità di Eto’o è un unicum nel calcio africano, dove i calciatori devono attraversare difficoltà impensabili per affermarsi sui palcoscenici europei.
A 25 anni Eto’o aveva già vinto tre volte il premio di Calciatore Africano dell’anno, mentre Drogba era ancora solo un attaccante minore della Ligue 1. È stato solo all’Olympique Marsiglia, appunto a 25 anni, che Drogba è riuscito a consacrarsi ad alti livelli, passando poi al Chelsea l’estate dopo.
La sua è la storia di un talento meno naturale e più costruito, e per questo esploso tardi. Non voglio sminuire le qualità calcistiche di Drogba, che era un centravanti formidabile, ma sono stati molti i giocatori del suo livello che hanno avuto un riconoscimento inferiore, o che hanno vinto meno, o che semplicemente hanno lasciato un segno più debole sulla cultura calcistica.
Se però Drogba è entrato nel nostro immaginario in maniera così pervasiva è perché come calciatore ed essere umano aveva qualcosa di speciale. Per cominciare a capirlo vale la pena guardare i video delle sue reti. C’è qualcosa di suoi gol che non può essere in nessun modo ridotto alla somma delle sue qualità tecniche. Certe volte al Chelsea bastava letteralmente sputare una palla in area di rigore per vederla spinta in porta dal suo numero 11. Drogba attaccava il pallone senza preoccuparsi troppo di come colpirlo; alla fine la palla entrava spinta da un’energia invisibile che non era riducibile al modo con cui aveva calciato. In area di rigore esercitava un magnetismo comune a quei centravanti che hanno un istinto particolare da finalizzatori, ma con l’ivoriano tutto questo assumeva una forma di potenza inedita. Tutti i gol di Drogba comunicano una fame e una voglia quasi disperata, ma sicura e decisa. Come se ogni gol pesasse su un piano più grande e universale di una semplice partita di calcio.
Molte sue reti nascono da attimi convulsi intorno all’area di rigore, dove Drogba sembra incespicare sulla palla, perdere più volte la coordinazione più elementare, quasi cadere, per poi esplodere in conclusioni fortissime nell’angolo aperto della porta. Tiri che corrono spesso sulla linea più diretta tra il piede e la rete. Poi Drogba che grida e corre verso i tifosi agitando le braccia in orizzontale, i capelli stirati raccolti dietro la fascetta che fanno su e giù.
Avere Drogba in squadra equivaleva ad avere una sorta di divinità pagana dalla propria parte, che piegava gli eventi al proprio volere giocando con forze che non avevano a che fare solo con il campo da calcio. L’unico giocatore con la stessa presenza mistica è stato forse Gabriel Omar Batistuta, un altro attaccante che sembrava tirare verso la porta tutta la propria rabbia verso il mondo.
La forza di Drogba - che è il segno di una grandezza diversa, che lo distingue da Samuel Eto’o - è il non aver mai giocato per sé stesso ma sempre per un popolo di cui era l’eroe: il Chelsea, la Costa d’Avorio, persino il Galatasaray. Il suo calcio è stato una missione durata vent’anni, che ha conosciuto fallimenti e successi di una portata drammatica degna dell’epica classica.
Momenti di crollo assoluto. Quando nel 2006 sbagliò il suo rigore nella serie della finale della Coppa d’Africa, contro l’Egitto, forse non poteva immaginare che sei anni dopo il destino gli avrebbe messo davanti la possibilità di riscattarsi. Nel 2012, al ’70 della finale tra Zambia e Costa d’Avorio, Gervinho si guadagna un calcio di rigore. Rialzatosi va a portare il pallone al capitano Drogba, lo abbraccia mentre Didier ha lo sguardo lontano. Calcerà il rigore in curva e la Costa d’Avorio perderà ai rigori anche quella finale. Quando la Costa d’Avorio riuscirà a vincere finalmente la Coppa d’Africa, nel 2015, raccogliendo i frutti della sua generazione d’oro, Drogba aveva dato il suo addio agli Elefanti già da un anno, è a casa a fare il tifo con la madre e il fratello.
Pur non avendo mai vinto niente con la Costa d’Avorio, la presenza di Drogba è stata fondamentale per cementare il gruppo che avrebbe poi trionfato. Mentre la legittimità della fascia di capitano di Eto’o con il Camerun è stata più volte indebolita - in una Nazionale gonfia di lotte intestine e desertificata dopo il suo addio - la leadership di Drogba non è mai stata in discussione. Perché Drogba per la Costa d’Avorio non è stato solo un calciatore. Nel 2006 si è impegnato in prima persona per mediare la guerra civile del suo paese, unendolo attorno ai suoi messaggi di pace e al suo carisma naturale.
Pochi mesi dopo l’errore dal dischetto con lo Zambia, un Drogba ormai a fine carriera gioca al centro dell’attacco del Chelsea di Di Matteo nella finale di Champions League contro il Bayern Monaco. Drogba è stato un pilastro dell’ascesa dei “Blues” nelle gerarchie del calcio europeo, ha vinto tanto ma ha anche perso la finale di Champions contro il Manchester UTD nel 2008. Anche quella sua seconda chance contro i bavaresi sembra sfuggire di mano, fino a un calcio d’angolo a 2 minuti dal novantesimo.
Batte Mata, Drogba è marcato da Boateng, ma gli passa davanti muovendosi sul primo palo, girando di testa il cross sotto la traversa. Rivedendo il replay fa impressione la calma e il controllo con cui Drogba conclude a rete non lasciandosi condizionare dalla spinta da dietro di Boateng che vuole portarlo fuori equilibrio. Dopodiché, prendendo la sua tradizionale rincorsa corta, segnerà il rigore decisivo della serie che consegnerà la coppa al Chelsea.
Un dato su tutti esprime il carisma e il magnetismo di Didier Drogba: col Chelsea ha giocato 9 finali, e ha segnato in 8 di queste. Se volessimo ridurre il valore calcistico a una sommatoria di qualità tecniche e tattiche, di trofei di squadra e individuali, Samuel Eto’o sarebbe la punta africana migliore degli ultimi 20 anni. Ma lo sappiamo, il calcio è molto altro, e i fallimenti possono determinare la grandezza di un uomo almeno quanto i suoi successi.
La grandezza di Drogba si è alimentata di tutte le componenti di cui ha bisogno una grande narrazione calcistica: l’amarezza delle difficoltà iniziali, la tragedia del fallimento, la gloria del successo. Ma il senso di Drogba va oltre una semplice storia a nostro uso e consumo. Nella gioia e nel dolore delle squadre dei popoli che rappresentava, Didier Drogba era sempre in prima linea, pronto a caricarsi sulle spalle la giustizia e l’ingiustizia del mondo. E per questo, indimenticabile.