Sono due gli elementi principali che rendono sorprendente l’esonero di Sinisa Mihajlovic: la tempistica e la scelta del sostituto. Anche se si tratta di una non-notizia anticipata da settimane, alla fine della stagione mancano soltanto 7 partite e Cristian Brocchi è il terzo allenatore lanciato senza alcuna esperienza in prima squadra, dopo i fallimenti delle gestioni di Clarence Seedorf e Filippo Inzaghi. Brocchi è il quinto allenatore negli ultimi due anni, e non è sicuro che venga confermato per la prossima stagione. Nel comunicato ufficiale con il quale il Milan ha annunciato il cambio in panchina, viene specificato che la squadra è affidata a Brocchi «fino al termine dell’attuale stagione».
A Brocchi si chiede di difendere il sesto posto in campionato e preparare al meglio la finale di Coppa Italia contro la Juventus, in cui comunque il Milan parte sfavorito. Per questo diventa difficile capire il senso di una scelta così drastica a un mese dalla fine della stagione, anche per una società che negli anni ci ha abituati ai colpi di scena. Il rapporto con Mihajlovic si era logorato a tal punto da rendere inevitabile, o anche solo giustificare l’esonero? Cos’ha spinto la dirigenza rossonera, Silvio Berlusconi in particolare, ad accelerare una decisione evidentemente già presa da tempo?
Proviamo a partire dall'inizio
Nove mesi fa, nel giorno della presentazione di Mihajlovic, Berlusconi siede di fianco al proprio tecnico. Non è un dettaglio banale: il presidente non si era esposto in prima persona nemmeno con i due allenatori più “suoi” del recente passato, appunto Seedorf e Inzaghi. Anche a livello di immagine si vuole dare il segnale che il Milan è tornato, è pronto ad aprire un nuovo ciclo, tornando a investire sul mercato e ad affidare la panchina a un tecnico esperto.
Mihajlovic mostra la giusta dose di accondiscendenza verso i tifosi e la proprietà: cita il fondatore del club rossonero, Herbert Kilpin, parla di trequartista e due punte, argomenti cari a Berlusconi, lo segue a parole nell’esperimento (mai tentato in verità) di far giocare El Shaarawy a centrocampo. È il primo giorno di scuola ed è ovviamente ammantato di sorrisi e buoni propositi. Berlusconi dichiara che la Champions League è un «imperativo categorico», ma si spinge anche a fissare come obiettivo la lotta con la Juventus per il primo posto.
Ed eccoci qua.
Poi però inizia il campionato e il Milan perde due delle prime tre partite: a Firenze, senza tirare praticamente mai in porta, e il derby. Ma è con la sconfitta subita con il Napoli alla settima giornata (0-4 a San Siro) che il rapporto tra Berlusconi e Mihajlovic affronta la prima vera crisi. Sono passati appena tre mesi dal giorno della presentazione e già si parla di dimissioni: «Non lo farò mai», assicura Mihajlovic.
La squadra in quel momento non ha ancora un’identità di gioco precisa («Non siamo né carne, né pesce», dice il tecnico serbo), utilizza come modulo base il 4-3-1-2, ma non riesce né ad attaccare né a difendere con efficacia.
False speranze
Mihajlovic impiega diverse settimane a trovare l’equilibrio, sperimenta anche il 4-3-3 prima di scegliere in maniera definitiva, dalla partita con la Sampdoria della quattordicesima giornata, il 4-4-2. La stagione, a quel punto sembra svoltare: il Milan perde una sola delle successive 14 partite (in casa contro il Bologna), mette insieme 27 punti, meno solo di Juve e Napoli, e concede meno gol di tutti (11), Juve esclusa. Rimonta fino ad arrivare a -1 dal quinto posto dell’Inter, a -6 dal terzo occupato da Roma e Fiorentina.
Il gioco non è offensivo e spettacolare, ma il nuovo schieramento consente di coprire bene il campo e di alternare pressing offensivo e difesa nella propria metà campo senza particolari accorgimenti. La creazione del gioco è affidata ai due esterni a piede invertito, Bonaventura e Honda, mentre Niang diventa titolare dimostrandosi il partner più adatto per Bacca.
Il vero punto di svolta della stagione arriva poco più di un mese fa, con la sfida a inizio marzo con il Sassuolo. Il Milan è chiamato al salto di qualità che aprirebbe scenari di classifica molto interessanti e invece perde 2-0.
Circolano voci sulle possibili dimissioni di Mihajlovic (come già era capitato dopo il pareggio per 1-1 in casa contro il Verona a dicembre), che invece resta nonostante sia chiaro che il rapporto con Berlusconi si sia logorato fino a un punto di non ritorno. Dalla gara contro il Sassuolo in poi il Diavolo non vince più una partita, allontanandosi in maniera definitiva dal traguardo fissato come «imperativo categorico» a inizio stagione.
I conti di Silvio
Al momento dell’esonero, Mihajlovic è lontano 15 punti dal terzo posto, a -7 dal quinto, che assicurerebbe la qualificazione alla prossima Europa League. La stagione del Milan è stata salvata dalla finale di Coppa Italia, che oltre a dare l’opportunità di vincere un trofeo, permette ai rossoneri di accontentarsi del sesto posto per tornare in Europa. Ma si tratta comunque del traguardo minimo, visto che il tabellone ha messo loro di fronte Perugia, Crotone, Sampdoria, Carpi e Alessandria: escludendo la Samp, due squadre di Serie B, una di Lega Pro e una neopromossa in Serie A.
Restando legati in maniera molto rigida ai risultati e alla distanza con le aspettative della società, l’esonero è giustificabile. Il punto però è: quanto erano realistici gli obiettivi fissati da Berlusconi? Un altro allenatore con la stessa rosa avrebbe lottato per la Champions League?
A Mihajlovic è stato contestato il fatto di giocare un calcio “semplice”, non da grande squadra, in cui la produzione offensiva è fondata soprattutto sui contropiedi e i calci piazzati. Non si è però sottolineato a dovere che in quei due particolari aspetti il Milan è una delle migliori squadre del campionato: secondo le statistiche avanzate (aggiornate al 20 marzo) i rossoneri sono secondi per tiri successivi a un contropiede, mentre il gol di Alex contro la Juve è stato l’ottavo sugli sviluppi di un calcio d’angolo, un record. Per quanto ogni allenatore abbia le proprie idee, la differenza la fanno sempre i giocatori: il Milan ha la qualità, specie a centrocampo, per giocare un calcio più offensivo e appagante a livello estetico?
Al reparto, rispetto all’anno scorso, sono stati aggiunti Bertolacci, Kucka e Mauri, che però ha visto pochissimo il campo. A nessuno dei tre si poteva chiedere di dare la svolta necessaria, nemmeno a Bertolacci, un giocatore dinamico più che creativo, che in questa ambiguità ha finito per rendere al di sotto delle aspettative, diventando un facile bersaglio dei tifosi. Impostata la campagna acquisti per dare a Mihajlovic una squadra in grado di giocare con un trequartista e due punte, non si è completata con i profili che mancavano: uno o due centrocampisti diversi da Kucka e almeno un terzino dai piedi buoni in grado di accompagnare con continuità l’azione, per dare ampiezza alla manovra e rifornire di cross gli attaccanti.
Le responsabilità di Miha
La colpa più grande che si può imputare a Mihajlovic, oltre all’essersi fatto trascinare almeno inizialmente dall’ambigua campagna acquisti, è il non essere riuscito a trovare delle alternative ai momenti di appannamento e agli infortuni degli uomini chiave in fase offensiva: Bonaventura, per distacco il migliore della stagione del Milan, ma giù di forma di recente; Honda, uno dei più criticati, ma il cui ingresso nell’undici titolare è stato determinante nella striscia di risultati utili, e Niang, il cui infortunio ha aperto un buco in attacco. È curioso notare come l’incidente stradale che ha privato Mihajlovic del francese coincida temporalmente con l’inizio del periodo di crisi che ha portato all’esonero. Il tecnico serbo ha provato a rilanciare senza successo Ménez e Balotelli, dando anche una chance a Luiz Adriano, la cui parabola stagionale (da titolare a ceduto e, dopo che la trattativa con il Jiangsu Suning era saltata, a riserva) descrive bene la confusione che sembra regnare ai vertici della società.
Diversi indicatori che misurano il livello di performance di una squadra (la differenza reti, di expected goals e quella tra tiri fatti e subiti) dicono che il Milan era da sesto posto e lì Mihajlovic l’ha lasciato, pur sopportando da mesi la pressione mediatica per le dichiarazioni di Berlusconi, ambiguo quando gli veniva chiesto del futuro del suo tecnico («Deve vincere tutte le partite», prima della trasferta a Napoli, quando ancora il Milan aveva speranze di rimonta) e mai tenero ogniqualvolta veniva stuzzicato sul gioco dei rossoneri. Emblematica questa scenetta con Carlo Pellegatti prima di Milan-Lazio in cui Berlusconi (accompagnato dal candidato sindaco di Milano Stefano Parisi), interrogato sul gioco del Milan, risponde: «Da quanto tempo guardi calcio te?». E Pellegatti: «Dai tempi di Schiaffino come lei». E Berlusconi: «E allora che domande fai?».
Ma Mihajlovic non si è mai distinto per la spettacolarità del suo gioco, nemmeno nella parentesi migliore della sua carriera, l’anno scorso con la Sampdoria. Quindi perché pretendere ciò che non si poteva chiedere al serbo? Per quanto criticabile e con ampi margini di miglioramento, specie in fase di possesso palla, il gioco di Mihajlovic ha permesso per un certo periodo di tirare fuori il meglio dalle risorse a disposizione. Anche nell'ultima partita con la Juventus era evidente come di meglio, con la squadra a disposizione, fosse difficile fare.
Nelle ultime due stagioni il Milan è arrivato prima ottavo, poi decimo. Pur con tutti i suoi limiti, Mihajlovic l’ha portato in una posizione migliore, con concrete possibilità di tornare in Europa. Così come Roma non è stata costruita in un giorno, non ci si poteva aspettare che inserendo Bacca, Luiz Adriano, Bertolacci e Romagnoli a una squadra reduce da un campionato disastroso, si sarebbe colmata la distanza che in questi anni l’ha separata da Juve, Roma e Napoli. Era questo il programma di Berlusconi e Galliani quest’estate? E ora che è fallito, quale sarà quello del prossimo futuro? Si punterà davvero a un Milan giovane e italiano, un progetto che nel 2016 ha pochi appigli con la realtà? Più che di nuovi giocatori o di un allenatore-taumaturgo, il Diavolo ha bisogno prima di tutto di chiarezza.
Adesso il testimone passa a Brocchi, che dovrà dimostrare grande personalità per non finire schiacciato da pressioni e aspettative troppo alte. E, soprattutto, dovrà evitare di bruciarsi dopo appena 7 partite.