Francisco Egas ha una mascella prominente, l’espressione e il portamento di chi sa esattamente quello che vuole. Nipote del multimilionario Fidel Egas, a gennaio del 2019 si è preso la presidenza della FEF, la federazione calcistica ecuadoriana, presentandosi come il volto nuovo di un movimento che da 21 anni era nelle mani della stessa claque, che aveva portato il calcio ecuadoriano sull’orlo della bancarotta. Il processo di rinnovamento doveva ispirarsi a due tendenze dalla forza uguale ma contraria: da una parte, il fallimento della qualificazione per il Mondiale di Russia; dall’altra, la conquista del Sudamericano Sub20 e il terzo posto al Mondiale U20 in Polonia nel 2019.
L’obiettivo era ovviamente la qualificazione al Mondiale qatariota, un cammino lungo in cui cullare e nutrire l’ambizione di una nuova generazione: un progetto capace di portare la nazionale a livelli mai raggiunti prima d'ora.
La fame di chi c’è ora, la forza di chi verrà.
Sarebbe davvero stata Banana Meccanica?
L’idea di portare in Ecuador Jordi Cruyff, nominato DT della Nazionale nel gennaio del 2020, a posteriori, non è stata una grande idea, e oggi sembra chiaro che si trattasse forse più di una scelta sensazionalistica che di una concreta progettualità: il sogno che il figlio di Johan Cruyff potesse fare di Progetto Ecuador 2030 una Masia a livello nazionale sulla cordigliera delle Ande si è presto manifestato in tutta la sua irrealizzabilità. Certo, è pur vero che di mezzo c’è stata una pandemia mondiale che non ha permesso al DT di scendere in campo neppure una volta, addirittura neanche assistere a un allenamento, né di diramare una convocazione. Nondimeno, nei 186 giorni della sua reggenza a distanza, da gennaio - quando è stato accolto come un Messia, sponsorizzato dal presidente della Repubblica Lenín Moreno, con l’illusione della creazione di una nuova “Banana Meccanica” - a luglio, quando con una telefonata ha annunciato che non sarebbe mai tornato in Ecuador, Jordi non ha mai spiegato davvero cosa avesse in mente.
Forse, in realtà, neppure sarebbe stato necessario, perché il progetto, per dirla tutta, era piuttosto evidente: mettere una generazione sfacciatamente e inusitatamente - a quelle latitudini - talentuosa nelle condizioni di sbocciare.
Lo ha capito perfettamente Gustavo “Lechuga” Alfaro, il nome tutt’altro che altisonante che la Federazione ha scelto per la panchina: puntare tutto su quel manipolo di calciatori già rodato, affiatato, in un certo senso pronto per il salto di categoria, che costituiva la Sub20 di Jorge Célico, non a caso scelto da Alfaro come suo vice, e sull’amalgama con il gruppo dei “veterani”, ricco di un certo bagaglio d’esperienza europea. Angel Mena, Christian Noboa, Carlos Gruezo, Pervis Estupiñán, e su tutti Enner Valencia a fare da chioccia, insomma, a Preciado, Plata, Campana, Franco, Palacios.
Un aiuto fondamentale, per Alfaro, proviene inoltre dalla contingenza che molti dei nuovi prospetti, prima di affermarsi con la Sub20, hanno già avuto modo di conoscersi e affinare l’intesa in quella bottega rinascimentale che è l’Independiente del Valle.
La società di Sangolquí, sobborgo di Quito, è una specie di Ajax sudamericano: laboratorio di raffinazione tecnica e tattica, sotto la guida dello spagnolo Miguel Ángel Ramírez, in meno di quattro anni l’IDV è riuscito ad arrivare in finale di Libertadores, vincere una Copa Sudamericana e una Libertadores Sub20: la punta di diamante di un intero movimento, quello dei club ecuadoriani, che nell’ultimo lustro - tranne che nel 2018, annus horribilis per il fútbol ecuadoriano - non ha fallito mai la qualificazione almeno ai quarti di Libertadores.
La scelta di Ramírez, peraltro, non è stata niente affatto casuale: lo spagnolo è stato messo sotto contratto dall’IDV, dapprima come responsabile tecnico delle giovanili, dopo un’esperienza di sei anni in Qatar, nella Aspire Academy.
Dividere le acque
Se a Moisés Caicedo, il numero 5 che da capitano ha avuto l’onore di alzare a inizio 2020 la mini Libertadores riservata alle squadre giovanili, avessero detto che nel giro di dieci mesi avrebbe fatto il suo esordio in nazionale, probabilmente avrebbe pensato alla selezione giovanile dell’Ecuador; e forse non ci avrebbe neppure tanto creduto. A ottobre 2020, invece, saltando una tappa, ha indossato per la prima volta la maglia della nazionale maggiore, a La Bombonera, col compito di marcare Leo Messi.
Quattro giorni più tardi, a Quito, avrebbe segnato il gol con cui l’Ecuador ha aperto le danze del baile, 4-2, dato all’Uruguay. Moises Caicedo è stato il primo giocatore nato nel XXI secolo a segnare nella storia delle Qualificazioni Mondiali della CONMEBOL, e a pensarci bene non poteva che essere lui, esatto archetipo di come il ventunesimo secolo vuole che sia un centrocampista.
Nato a Santo Domingo, cittadina che ha già dato i natali alla leggenda del calcio andino Ivan Kaviedes (qualcuno potrebbe ricordarlo come Nine), Moisés Isaac Caicedo Corozo è innanzitutto vergognosamente giovane per fare quello che fa in campo, e cioè essere sempre estremamente intelligente, maturo e forse fortunato da compiere sempre la scelta più adeguata. Tremendamente lucido, fermo, carismatico, è come se in Caicedo l’animo di N’Golo Kanté si fosse reincarnato nel fisico (e nell’educazione dei piedi, e nell’estro) di Paul Pogba. Nei recuperi estremi che lo fanno sembrare un ballerino di capoeira, nella costruzione, nell’ultimo passaggio, addirittura nei movimenti del corpo che pur senza toccare il pallone - come spesso capita ai giocatori di grande classe - finiscono per risultare passaggi, in ogni azione in campo “Moi” sembra fuori dimensione.
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Ultimo di dieci fratelli, Caicedo è arrivato all’Independiente del Valle già quindicenne: un diamante grezzo che Ramírez ha trasformato, spostandolo dal centro del centrocampo (lui, essenzialmente, si vede come cinco) alla posizione di interno, un ruolo in cui ha potuto sviluppare le caratteristiche di inserimento, di progressione, di avvicinamento alla conclusione che ne hanno fatto un centrocampista box-to-box moderno. Dotato di una precisione di passaggio disarmante, oltre che di una conformazione fisica già solida, statuaria ma al tempo stesso flessibile come canna di giunco, le sue lunghe leve gli permettono di proteggere il pallone con il corpo, eludere gli avversari, far avanzare il pallone tra le linee e creare superiorità.
La sua fortuna, in qualche modo, è stata la fortuna di qualcun altro, come spesso sta accadendo nel promettente presente del calcio ecuadoriano: Caicedo è stato infatti promosso in prima squadra contestualmente alla cessione di Alan Franco, altro prospetto interessantissimo, all’Atlético de Mineiro di Jorge Sampaoli. Eppure, nonostante la giovanissima età, si è già affermato come punto di riferimento del centrocampo dell’IDV, prima opzione costante nella creazione della manovra, nell’uscita palla al piede dalla difesa, nell’ingegno della soluzione offensiva, in cui si prende responsabilità anche in prima persona.
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Nel momento in cui sto scrivendo, Moisés ha giocato 35 partite da professionista: 31 con l’Independiente del Valle e quattro in nazionale. Nelle tre uscite con l’Ecuador a ottobre, ha collezionato un gol e tre assist, che insieme a due gol in campionato ha contribuito a istituire ufficialmente un treno-dell’-hype dedicato. Nell’ultima finestra di mercato, dopo una serie di rumors che l’hanno voluto vicino a Manchester United e Milan (che però hanno desistito, stando a quanto spiega Rory Smith in un pezzo sul NYT, per via dell’ingarbugliata situazione dei suoi rappresentanti) l’ha portato a lasciare la sua comfort-zone anche affettiva per firmare per il Brighton Hove & Albion. Ciò non significa che non dovremmo nutrire ragionevolissimi dubbi sul tipo di calciatore che potrebbe diventare. Magari mi sbilancio un po’ troppo, magari ci metterà un po’ ad abituarsi e affermarsi, ma personalmente ho come l’impressione che non sarà un bluff. E a farmelo pensare è fondamentalmente il contesto.
Plata y plomo.
Quando parlo di contesto mi riferisco al fatto che Moisés Caicedo si inserisce perfettamente in una generazione di giocatori dotati, ognuno a modo suo, di una diversa sfumatura dell’idea di talento: una mescolanza di estri diversi che rende il tutto massimamente coerente.
Il più evidente è Gonzalo Plata, “Platita”, la declinazione più flamboyante, appariscente, arrogante del concetto di talento. Crack già da ragazzino, quando nei video accarezzava il pallone con una grazia anagraficamente assurda, cresciuto nel disagio in mezzo a una pletora di fratelli e con una madre iperprotettiva a farle da manager, Plata è praticamente esploso, quel tipo di esplosione che fanno i fuochi d’artificio a carnevale, durante il Mondiale U20 in Polonia, in cui è stato nominato terzo miglior giocatore del torneo.
Qua, per esempio, finalizza una progressione spaventosa di Cifuentes tagliando dalla posizione di esterno, quella che predilige, verso il centro dell’area; qua, invece, si mette in mostra con un allungo in cui sembra muoversi rispetto all’avversario come una torre contro un pedone sulla scacchiera. Da quest’azione nascerà il penalty con il quale l’Ecuador chiuderà il discorso qualificazione contro l’Uruguay.
Ok, stavo dimenticando il tunnel a James Rodríguez, provocazione nella provocazione del 5-0 rifilato alla Colombia. Irriverente? «In realtà volevo solo buttare via la palla di tacco per lanciare il contropiede», ha spiegato Plata, con quell’umiltà che trascende nel paraculismo, «quando l’ho rivisto mi ha fatto effetto vedere che avevo fatto tunnel a un giocatore di livello mondiale».
Dopo quel Mondiale Sub20 in cui Plata ha letteralmente fatto le fiamme si parlava di un interessamento, per lui, da parte del Barcellona. Molto più saggiamente, “Platita” ha scelto lo Sporting de Portugal, cioè probabilmente quella che è la miglior fucina di laterali offensivi in Europa (nello Sporting si sono formati Figo, Nani, Cristiano Ronaldo, Futre). Per trasformarsi in un giocatore più completo c’è tempo, e forse un apprendistato in Liga (si parla di un trasferimento al Cadiz) potrebbe aiutarlo: per ora a Gonzalo Plata basta schizzare sulle fasce laterali dei campi lusitani (o qualche centinaio di chilometri più a sud), rubare gli sguardi con la nazionale ed essenzialmente divertirsi divertendo. Non mi pare poco.
Plata e Caicedo non sono solo due dei prospetti più interessanti di tutto il calcio sudamericano, ma anche l’epitome delle diverse declinazioni del talento della nouvelle vague futbolistica ecuadoriana. Solidi e dinamici, pieni di sicurezza nei propri mezzi, gran fisico. Giocatori che corrono senza soluzione di continuità per tutto il campo, lottano e toccano il pallone come se stessero giocando a calcetto. Così divertenti che - c’è da pensare - il Condor potrebbe davvero risorgere e spiegare le sue ali superbe.