Nella costante necessità di individuare un lessico calcistico più ampio possibile, metaforico e televisivo, si fa spesso riferimento alla terminologia bellica: e così si parla di assedio alla porta avversaria, un attaccante molto abile è un cecchino, un tiro molto forte è una bomba, e via dicendo. È un artificio retorico e pigro, che in alcuni casi mostra tutti i suoi limiti.
«You ask me again about war…». A Dzeko non piace parlare della guerra; non gli piace parlare del più lungo assedio nella storia moderna, quello di Sarajevo, 1425 giorni (5 aprile 1992 – 29 febbraio 1996).
Costretta a lasciare la propria casa, troppo vicina al fronte dell’assedio, la famiglia Dzeko non emigrò in un altro paese, ma rimase a Sarajevo e si trasferì nel quartiere Otoka, dai nonni: erano in 13 in una casa di 40 metri quadri. Edin ricorda che all’improvviso tutto era come prima, solo un po’ diverso: la seccatura più grande all’inizio era di non poter più uscire tranquillamente per giocare con gli amici. Poi arrivarono le privazioni, i pericoli, il padre sul fronte. Capì di dover vivere e sopravvivere all’interno di questo cambiamento, considerarlo un dato di fatto, aspettando che tutto finisse o ricominciasse.
Dzeko dice di essersi sentito privato del suo diritto di bambino di giocare e divertirsi; e che i giorni dell’infanzia, lui e i suoi amici, non li hanno mai più riavuti indietro. Ecco perché non cita mai la guerra: è una questione intima, se ne può parlare solo con chi ha vissuto quel periodo, solo con chi può capire.
Si poteva morire anche in una fila per l’acqua, nella Sarajevo assediata; e persino perché si giocava a calcio. È ciò che accadde il primo giugno del 1993, a Dobrinja, un quartiere nella parte ovest di Sarajevo: due granate colpirono proprio un campetto dove si stava svolgendo un improvvisato torneo giovanile. 13 morti, 133 feriti (c’era anche il pubblico), secondo il bilancio ufficiale delle Nazioni Unite.
Proprio una partita di calcio con gli amici, per strada, avrebbe potuto costare la vita a Edin Dzeko: voleva giocare a tutti i costi, fuori era tutto tranquillo, ma la madre gli vietò di uscire. Pochi minuti dopo, una granata colpì il luogo dove avrebbe dovuto incontrare i suoi compagni.
La madre gli salvò la vita, il padre gli indicò il futuro: è per questo che il nuovo acquisto della Roma ringrazia sempre la sua famiglia, in ogni occasione possibile.
In questa lunga intervista alla tv bosniaca c’è molto sull’uomo Dzeko: timido ma convinto dei propri mezzi; giramondo ma con un legame viscerale con gli amici del quartiere; e non si parla di guerra. Tanto che alla domanda «che cos’è la fortuna?» non risponde «evitare una granata per strada» bensì «vincere una partita decisiva che al ’92 stavi perdendo 2-1» (in riferimento al campionato vinto con il City all’ultima giornata).
Il lampione e la lotteria
Finito l’assedio, inizia la sua carriera nel calcio. Finalmente Edin riesce a entrare nelle giovanili dello Zeljeznicar, la squadra dei ferrovieri: grazie al padre Midhat, ex calciatore con un passato nella seconda divisione jugoslava, che non smetteva di incoraggiarlo.
È il 1996, Dzeko ha 10 anni: è nato il 17 marzo del 1986 in una Sarajevo completamente diversa, che appena due anni prima aveva ospitato addirittura le Olimpiadi invernali, di cui purtroppo è rimasto ben poco. Oltre le macerie, rimane ovunque l’immagine della mascotte, simbolo nostalgico di un mondo che non tornerà mai più: Vucko, un lupacchiotto. Un animale quasi totemico nella vita di Dzeko.
A distanza di anni, da calciatore ormai affermato, è proprio il centravanti bosniaco a dire di essere arrivato tardi in un vero settore giovanile, e che la guerra gli ha fatto perdere almeno due anni di scuola calcio: quasi con rammarico, come se non fosse adesso un grande calciatore.
E grande era anche allora, ma per fisico: già molto alto per l’età, è uno dei migliori per dedizione e impegno, ma non sembra uno dei più talentuosi. Riesce comunque a scalare le giovanili della più antica squadra di Sarajevo, mentre molti suoi amici si dedicavano ad altri sport come il basket.
Nella squadra dei ferrovieri, Dzeko gioca da attaccante, con buoni risultati, ma nel passaggio al professionismo perde sicurezza. Lo trasformano in centrocampista offensivo: dribbling discreto, buona progressione, piedi buoni ma non troppo, e incredibilmente anche difficoltà nel colpo di testa. Esordisce da professionista a 17 anni, e in due stagioni segna poco (per alcune fonti 5 gol, per altre 7) per uno che ne realizzerà così tanti.
Per i tifosi, Edin diventa ben presto “kloc”, il lampione: un giovane molto alto e non troppo dotato. Ma per fortuna il giovane allenatore ceco Jirí Plísek non ascolta le critiche: in appena 4 mesi (viene esonerato a ottobre 2004) allo Zeljeznicar riesce a capire quello che in 10 anni nessun bosniaco aveva intuito. Ex allenatore delle Nazionali giovanili della Repubblica Ceca, Plísek riconosce il talento quando ancora è nascosto; e viene da un movimento calcistico che ha sempre avuto una tradizione di attaccanti alti e fisicamente imponenti (da Skuhravy a Koller). Se in Bosnia non sapevano cosa farsene, Plísek aveva già in mente un progetto per Dzeko: da centrocampista offensivo a target striker, centravanti fisico che aiuta la squadra.
Quando Dzeko era l’uomo dell’ultimo passaggio, e non segnava quasi mai: le movenze si riconoscono, ma sembra un altro giocatore.
A fine stagione, Plísek segnala il suo pupillo al Teplice, squadra della prima divisione ceca: lo Zeljeznicar accetta con entusiasmo l’offerta di circa 30.000€. Anni dopo, uno dei dirigenti del club di Sarajevo ha ricordato che all’epoca pensavano di aver vinto alla lotteria: per loro Dzeko non sarebbe diventato mai nessuno. Incredibilmente, nel corso del tempo questa affermazione ha assunto una sua validità finanziaria: a ogni trasferimento di Dzeko, la sua prima squadra riceve il 3,5% della cifra come contributo di solidarietà FIFA. Incapaci, ma fortunati.
Il suo mentore Plísek viene chiamato ad allenare una squadra di seconda divisione ceca, l'Ustí nad Labem, e convince Dzeko, che lo vede come un maestro, a seguirlo. Inizia la grande trasformazione: gioca da punta centrale, e inizia a segnare e creare opportunità per i compagni. Dzeko ha una forza di volontà fuori dal comune: inizia a lavorare sui suoi difetti, su quei due anni di formazione giovanile che gli sono stati rubati, e migliora giorno dopo giorno.
Dopo 6 gol nella prima parte di stagione, il Teplice lo richiama immediatamente in squadra nel mercato invernale; non gioca sempre titolare, ma segna altri 3 gol. È il 2006, Dzeko ha vent’anni: ha segnato 9 gol nella sua prima vera stagione da attaccante, nel frattempo ha imparato il ceco, e gli viene offerta la cittadinanza per giocare così nell’Under-21 della Repubblica Ceca. Il suo allenatore al Teplice, Vlastislav Marecek, era anche il secondo allenatore della selezione giovanile ceca. Dzeko rifiuta: è un figlio di Sarajevo e vuole giocare solo nella Nazionale bosniaca.
La seconda stagione al Teplice è la conferma della svolta: segna 13 reti, ormai è un attaccante vero, vice-capocannoniere del campionato ceco. A fine stagione corona il sogno di giocare per la Nazionale maggiore del suo paese. Esordisce a Sarajevo il 2 giugno 2007, a 21 anni contro la Turchia, qualificazioni agli Europei 2008: la Bosnia vince 3-2, Dzeko segna uno splendido gol nel recupero del primo tempo, con un tiro che finisce sotto l’incrocio.
For President
Non si può capire Edin Dzeko senza descrivere la sua passione per la Bosnia-Erzegovina, e per la sua Nazionale: «Darei tutti i miei trofei per portare la Bosnia ai Mondiali», diceva poco tempo prima di qualificarsi a quelli brasiliani del 2014.
Da quell’esordio contro la Turchia, Dzeko è diventato rapidamente un simbolo della sua Nazionale, di cui è anche capitano: 74 presenze complessive e ben 44 gol. È già il più grande realizzatore della breve storia della Bosnia, e fra poco diventerà anche il giocatore con più presenze: suo cugino Emir Spahic è distante solo 8 partite, mentre il recordman Misimović ha 9 presenze in più.
La Bosnia è una Nazionale giovane (affiliata alla FIFA dal 1996, alla UEFA dal 1998) e il suo percorso è pieno di ostacoli e difficoltà: è così che Dzeko assume un ruolo quasi cavalleresco. In cerca del nemico da sconfiggere, nel frattempo inizia a segnare: 5 gol in 6 partite nel 2009, 8 in 10 partite nel 2009. La Nazionale bosniaca arriva seconda dietro la Spagna nel girone di qualificazione per i Mondiali del 2010, e Dzeko è il capocannoniere del gruppo, 9 gol, due in più di David Villa. Agli spareggi però il Portogallo vince 1-0 sia all’andata che al ritorno, e il sogno svanisce. Va via il CT Blazevic, quello che portò la Croazia al terzo posto a Francia ’98, e arriva Safet Susic.
Qui Dzeko in giacca e cravatta canta “Bosanac”(bosniaco) insieme a Enes Begovic, un cantautore folk. La canzone sostanzialmente è un elogio sperticato alla Bosnia: l’equivalente di “Italia” di Mino Reitano.
La Bosnia prova a qualificarsi agli Europei del 2012, ma arriva seconda a un punto dalla Francia: nell’ultima partita, quella decisiva, allo Stade de France, Dzeko nel primo tempo si inventa un gol e porta la Bosnia in vantaggio. Solo un rigore segnato da Nasri a 12 minuti dal termine riesce a rovinare il sogno bosniaco, che si spegne definitivamente nello spareggio, di nuovo contro il Portogallo.
La sorte finalmente smette di girare le spalle alla Nazionale bosniaca: nel gruppo di qualificazione ai Mondiali del 2014 la rivale più pericolosa è la Grecia. Nello scontro diretto ci pensa ancora Dzeko con una doppietta, ma si arriva fino all’ultima giornata a pari punti: la vittoria in Lituania classifica la Bosnia come prima del girone G, di cui Edin è ovviamente il capocannoniere con 10 reti. Dzeko diventa il personaggio pubblico più apprezzato in Bosnia.
L’immagine che ha costruito in patria, di uomo modesto ma vincente, di persona che aiuta sempre il prossimo in difficoltà, di ragazzo di quartiere che non se n’è andato neppure durante la guerra, lo rende così popolare che in un’intervista fiume alla tv bosniaca la prima domanda riguarda un possibile futuro politico. Dzeko sorride e nega tutto in modo chiaro, sostiene di non seguire molto la politica, ma poi è lui a chiedere all’intervistatrice: «Intendi correre per la Presidenza, per migliorare la cooperazione regionale?», con il sorriso di uno che ci ha pensato. Il suo diniego sfuma, fino a diventare un «chissà, mai dire mai».
Dzeko festeggia il suo ventisettesimo compleanno da ambasciatore UNICEF.
Nel frattempo, infatti, Dzeko è diventato il primo ambasciatore UNICEF per la Bosnia-Erzegovina e ha iniziato il suo percorso verso il role model: un grande giocatore che diventa leggenda e unisce la popolazione nell’ammirazione verso la sua figura. Si può fare, ma in Bosnia è più difficile: è un paese profondamente diviso, sia a livello culturale (3 lingue ufficiali, e basta chiedere un caffè per capire a quale gruppo appartieni), che religioso (musulmani, cristiani ortodossi, cristiani cattolici, e non solo). Tutto ciò si riflette anche a livello amministrativo: il paese è diviso in due entità e un distretto, che a loro volta si dividono in cantoni e regioni; ma per capire quanto profonde siano le divisioni basta sapere che il Presidente della Repubblica cambia ogni 8 mesi, in modo da rappresentare le tre etnie principali nel corso di quattro anni.
Sarebbe bello pensare a Dzeko come primo Presidente unico (che non si alterna cioè con altri due) nella storia della Bosnia: non so che futuro si sta costruendo, ma è difficile capire dove finisce l’ingenuità e inizia il calcolo.
Dzeko è musulmano, e sembra sapere che non tutti, nel suo paese, fanno il tifo per lui e per la sua Nazionale, persino nell’occasione storica dei Mondiali. E anche se può sembrare una follia, non esiste in Bosnia una persona con maggior carisma e popolarità trasversale, con una storia così dolorosa ma di successo, e ammirata anche all’estero. È lui a metterci la faccia in tv dopo la sconfitta interna contro la Slovacchia, che sembrava compromettere il cammino verso i Mondiali brasiliani, perché in quel momento era l’unico che potesse tranquillizzare i tifosi bosniaci.
L’immagine di Dzeko sembra quasi troppo perfetta: e anche in campo, a volte, il “quiet man” descritto dai giornali inglesi perde le staffe e si ricorda di essere un giocatore ambizioso, duro, furbo.
Ecco perché Dzeko è così amato dai suoi compagni: se scoppia una rissa è il primo che ti difende. E fa paura.
Pulire un diamante
Da Teplice le qualità di Dzeko attraversano il confine e arrivano in Germania, fino all’orecchio di Magath, nominato allenatore e direttore sportivo del Wolfsburg, un club ricco, ma che aveva appena evitato la retrocessione e che deve ricostruire la squadra per intero. Magath ha bisogno di un attaccante fisico e decide di acquistare Dzeko per 4 milioni di euro.
Finalmente alla prova in un grande campionato, il bosniaco non delude: inizia alla grande con 5 gol e 3 assist nelle prime undici partite, ma poi si spegne un po’, come tutta la squadra: concluderà con 8 gol e 7 assist, contribuendo in modo decisivo al quinto posto dei lupi tedeschi.
Basta metterla giù, aggirare il difensore e segnare con un morbido pallonetto: notare che la squadra non ha dovuto far altro che servirlo. Il movimento del compagno vicino, però, gli dà la possibilità di giocare uno vs. uno: anche per questo Dzeko si esprime meglio in un sistema a due punte.
Nella stagione seguente succedono due cose che cambiano radicalmente la storia di Dzeko e del Wolfsburg, e c’è sempre la firma dell’allenatore-despota Magath. A luglio infatti arriva dal Norimberga una leggenda del calcio bosniaco: il trequartista Misimovic. Dopo le prime sette partite in cui il Wolfsburg racimola solo 10 punti, ecco l’altra intuizione di Magath: passare dal 4-2-3-1 al 4-3-1-2. A Dzeko viene affiancato il brasiliano Grafite, creando una coppia che si aiuta mutualmente: il centravanti bosniaco non ha più così bisogno di abbassarsi tra le linee per aiutare la fase offensiva e aprire gli spazi alle mezzepunte; inoltre non è costretto a lavorare sempre contro l’intera linea difensiva, che deve invece preoccuparsi anche del brasiliano.
Il gioco del Wolfsburg cambia: spesso si compatta in un 4-4-2 in cui gli esterni hanno il compito di crossare anche dalla trequarti; Misimovic deve servire sempre il passaggio in profondità verso le punte. È così che Dzeko segna 25 gol nelle 27 partite successive (più 10 assist), circa il 20% di testa. Quasi tutti sono preceduti da cross dalle fasce o da verticalizzazioni in zona centrale. Il suo compagno di reparto approfitta in pieno degli spazi che un attaccante così forte fisicamente riesce a creare: Grafite segna 28 gol e vince la classifica dei cannonieri, anche perché è il rigorista della squadra (ben 8 rigori realizzati). La coppia d’attacco Dzeko-Grafite diventa la più prolifica nella storia del campionato (superando quella formata da Gerd Müller-Uli Hoeness) e il Wolfsburg vince per la prima e unica volta la Bundesliga.
Oltre all’aspetto tattico, però, c’è anche quello emotivo: Dzeko ha trovato in Misimovic un riferimento dal punto di vista umano, una persona che conosce bene la Germania e può aiutarlo, ma anche un compagno di Nazionale e un bosniaco come lui (sebbene nato a Monaco di Baviera), per stare insieme e non sentire la mancanza di casa. Dzeko sembra di ghiaccio, ma è un sentimentale: si racconta che nei primi mesi in Repubblica Ceca passasse gran parte del tempo al telefono con la sua famiglia.
Top player
Magath se ne va, il Wolfsburg non si rafforza e non regge l’impegno della Champions League: la squadra va male, ma l’unico che continua a giocare bene è proprio Dzeko, che diventa capocannoniere con 22 gol. Nonostante le richieste dei più grandi club d’Europa, il Wolfsburg non vuole cederlo e gli affida anche la fascia da capitano: a gennaio 2011 però i tedeschi cambiano idea davanti alla ricca offerta (circa 35 milioni di euro) del Manchester City.
Come utilizzare Dzeko: il bosniaco attacca lo spazio tra centrale e terzino destro; Lampard lo serve con un bel pallonetto, mentre la mezzapunta Milner attacca lo spazio con fiducia cieca. E infatti Dzeko gli fornisce un assist di testa semplicemente perfetto, che l’inglese però spreca.
Nei Citizens la situazione è ben differente: ci sono quattro attaccanti di livello mondiale (Tévez, Agüero e anche Balotelli) e un posto solo, in teoria. Mancini infatti adotta un 4-2-3-1: mentre i due argentini vengono spesso usati nel ruolo di trequartista, Dzeko può giocare solo da riferimento offensivo centrale. Spesso, però, in quel ruolo parte titolare Agüero, che è più adatto a quel tipo di gioco: un calcio molto più associativo, in cui i 4 giocatori offensivi si scambiano continuamente di ruolo (ci sono anche Silva, Nasri, Milner) e cercano sempre triangolazioni rapide in zona centrale. Lo stile di gioco del City non prevede di andare sul fondo e crossare, se non come second best: i cross sono spesso rasoterra da dentro l’area, cioè il frutto di uno-due veloci (infatti Dzeko segna circa la metà dei gol di testa rispetto al periodo di Wolfsburg); la punta centrale deve spesso abbassarsi a ricevere il pallone tra le linee e creare spazio per gli inserimenti delle mezzepunte e attaccare meno la profondità.
Così il bosniaco gioca solo 16 partite da titolare, e 14 volte entra dalla panchina. Nonostante tutto, nella sua prima stagione intera segna 14 volte in campionato e di nuovo raggiunge un risultato storico: il City vince la Premier League dopo un digiuno durato addirittura 44 anni.
La storia cambia per i Citizens, ma non per Dzeko, che nella stagione successiva continua a fare la spola tra campo e panchina, fino ad arrivare all’assurdo di essere chiamato “super sub”, cioè il sostituto perfetto che entra dalla panchina e segna sempre. Assurdo perché uno con quel fisico ha bisogno di più minuti per entrare in forma, e a risolvere dalla panchina sono spesso giocatori piccoli e agili; assurdo perché i grandi giocatori giocano e non entrano negli ultimi 20 minuti. Anche questo momento della carriera però conferma una caratteristica di Dzeko: la sua cultura del lavoro, la capacità di concentrazione, che gli permettono di essere decisivo persino giocando poco.
Come non utilizzare Dzeko: il bosniaco viene a prendersi il pallone tra le linee contro il Barça, mentre Agüero è punta centrale: c’è qualcosa che non va.
Il rapporto con Mancini ormai è logoro: Dzeko segna quattro gol al Tottenham e nella partita successiva finisce in panchina. E qui si scopre ancora il doppio lato di Dzeko, un uomo tranquillo (anche al Teplice era definito così dalla stampa locale), ma ambizioso e deciso: uno che discute con l’allenatore e che va fino nella stanza del presidente per dire che non è contento del suo scarso utilizzo. Durante una cena societaria con giocatori e staff, il presidente del City, dopo aver esonerato Mancini e aver assunto Pellegrini, prende Dzeko da parte e gli chiede: «Adesso sei contento?». La risposta è affermativa, la felicità effimera, il peggio ancora da venire.
Il nuovo allenatore cileno infatti richiede l’acquisto di Álvaro Negredo, un’altra punta centrale. Se possibile, lo stile di gioco dei Citizens diventa ancora più legato a un calcio di posizione che non prevede un target striker: ma il centravanti bosniaco si adatta di nuovo, segna 16 gol giocando solo 23 volte da titolare, e aiuta il Manchester City a vincere ancora la Premier League. In tutta la stagione segna 26 volte, con una media spaventosa di un gol ogni 123 minuti: ma non è sufficiente per diventare titolare fisso. Nell’ultima stagione, poi, si infortuna ai polpacci di entrambe le gambe: in campionato riesce a giocare solo 11 volte dall’inizio, in tutto segna solo 4 gol. Il City acquista anche Wilfred Bony, e Dzeko capisce che ormai la sua storia a Manchester è finita.
Dzeko e la visione periferica: Yaya può saltare il centrocampo perché Edin è scattato in profondità; il bosniaco attira su di sé sempre due difensori, e crea lo spazio per l’inserimento dei compagni. Colpo di tacco geniale, e Silva può segnare.
Se ne va lasciando un ricordo fatto di 72 gol, 5 trofei e una media di 0,7 gol a partita nelle 74 volte in cui ha iniziato da titolare, oltre a una grande passione per i gol nel derby contro lo United: ben 6. Se ne va lasciando un dubbio: il Manchester City avrebbe potuto fare di più per Dzeko, o forse lui avrebbe potuto dare qualcosa di più alla squadra?
Amicizia e sfide
«Troppi scandali, stadi vecchi e non all’altezza, poco sicuri. Un peccato. Sinceramente, è questo quello che passa. Anche se il mio amico Miralem mi parla sempre bene della Roma». Nell’intervista a Luca Valdiserri del Corriere della Sera, poco prima dei Mondiali brasiliani, c’era già tutto il futuro di Edin Dzeko. Ancora una volta in versione Frank Underwood, il bosniaco ricorda prima di essere stato grande tifoso di Shevchenko e ammiratore del campionato italiano, poi afferma però che la Serie A è decadente; infine chiude con una specie di “non si sa mai” di chi invece già sa tutto.
In quell’intervista c’è anche la chiave del suo passaggio alla Roma: Miralem Pjanic, decisivo nel convincerlo al trasferimento. Al Manchester City il suo amico inseparabile era stato il serbo Kolarov; alla Roma invece trova un compagno ormai di lunga data, con cui ha condiviso anni in Nazionale; un amico, Miralem, che ha chiamato suo figlio Edin, proprio come Dzeko. Una situazione che ricorda molto quella di Wolfsburg, con Misimovic trequartista-amico.
La scelta di Roma è strategica sotto diversi punti di vista: è l’ennesima sfida in una piazza che, come tutte quelle in cui ha giocato (e anche la sua stessa Nazionale), ha vinto poco e nulla; è una città che lo avvicina a Sarajevo come mai nella sua carriera (530 km in linea d’aria), ma soprattutto arriva in un ambiente che è disposto ad adorarlo a livelli simili a quelli della madrepatria. La corsa sotto la Curva Sud dopo il gol contro la Juventus dimostra che Dzeko aveva bisogno di essere coinvolto e amato.
Nelle prime due giornate di campionato, Dzeko è stato utilizzato e cercato ancora poco e male. Normale in una squadra che deve necessariamente modificare il suo modo di giocare: con un centravanti di questo tipo è importante usare le fasce per arrivare al cross (e per questo la catena di sinistra Digne-Iago Falque sembra perfetta), e cercare verticalizzazioni immediate.
Basta un cross in area: che sia morbido, veloce, casuale non fa differenza.
Invece la Roma lo ha spesso costretto ad abbassarsi tra le linee, in un riflesso automatico di quello che era lo stile di gioco con Totti.
La partita di Dzeko contro il Verona è quasi incredibile: sembra di vedere un falso nove, sempre costretto ad abbassarsi e a giocare tra le linee. Gli riesce anche bene, ma è esattamente così che la Roma disperde il potenziale del bosniaco, che va servito in profondità, o con cross dalle fasce, e che non va lasciato così solo in avanti.
Ci vorrà ancora tempo per creare dei meccanismi di gioco capaci di esaltare le sue migliori qualità. Paradossalmente, la poliedricità di Dzeko rischia di rallentare questo processo, perché spinge la squadra a usare vecchie soluzioni. Il bosniaco è un centravanti vero, ma che svaria spesso sul fronte offensivo, anche se la mobilità non è il suo forte. Nella Roma manca ancora un giocatore che riesca ad accompagnare sempre il bosniaco in fase offensiva: in teoria è Salah a doverlo aiutare e anche ad approfittare degli spazi che si aprono; e manca ancora una strategia sulle seconde palle, perché con Džeko i duelli aerei possono diventare una soluzione tattica interessante. Può creare ovviamente grande dipendenza, perché se non hai idee il lancio lungo per il numero 9 diventa quasi un riflesso automatico.
Nella partita contro la Juventus si vedono dei cambiamenti: arrivano molti più cross dalle fasce, più verticalizzazioni e molti lanci lunghi. Infatti Dzeko segna.
Nell’epopea di Dzeko, questo passaggio nella Capitale sembra l’ultima grande battaglia da affrontare prima del ritorno in Bosnia. La dimensione leggendaria del centravanti bosniaco ha bisogno di un ultimo grande successo per diventare davvero un “santo” calcistico: adesso tocca a Garcia incastonare il diamante (il suo nuovo soprannome in Bosnia, e tanti saluti al lampione) all’interno di un anello ben levigato e splendente. Non è un’impresa facile: ma niente lo è mai stato nella vita di Edin Dzeko.