“In un momento può rovinare tutto” diceva di lui Mario Zagallo, per spiegarne l'esclusione dalla Nazionale di cui era CT. Durante la finale di Copa América 1997 poi vinta con la Bolivia, Edmundo Alves de Souza Neto aveva dato un colpo in faccia a un avversario che lo provocava. Non era stato sanzionato dall'arbitro, ma Zagallo l'aveva sostituito lo stesso.
Poteva essere violento ma anche abbassare i toni con l'ironia. Quando indossava la maglia del Napoli e dagli spalti dello stadio di Vicenza gli tirarono un'arancia, la sbucciò e se la mangiò.
Se è una rappresentazione condivisa che i cinquant'anni segnino un passaggio di maturità, in questo caso pare esserci un cortocircuito. Perché Edmundo ha i tratti del briccone della mitologia, e che oggi compia quel passo anagrafico fa una certa impressione. Ingiustamente forse, ma il passato lo ha cristallizzato anche nel presente come "O Animal" (il soprannome glielo diede il giornalista sportivo Osmar Santos, intorno ai ventitré anni, quando aveva vinto due volte il Brasileirão col Palmeiras). Impulsivo, irrazionale. Sempre oscillante tra poli almeno in apparenza opposti.
Foto di Hector Mata / AFP.
Per un altro compleanno, il primo di uno dei figli, ingaggiò gli animali di un circo e offrì birra a uno scimpanzè che teneva in braccio. Edmundo è un futurista arrivato in ritardo. Nato il 2 aprile 1971 sul lato orientale della baia di Guanabara, dirimpetto a Rio de Janeiro. Niterói, mezzo milione di abitanti e terra fertile per calciatori importanti: prima di lui ci è nato il compagno di nazionale Leonardo e indietro di una generazione anche il campione del mondo Gérson. La famiglia di Edmundo ha problemi economici, il pavimento di casa è in terra battuta. Resterà sempre legatissimo al padre, un barbiere che “non capiva niente di calcio”. Da quel lato della baia, quando – a diciassette anni – entra nel settore giovanile del Botafogo, deve prendere due autobus, un treno e un traghetto. Dirà che per arrivare puntuale agli allenamenti ha imparato “a vivere nella concentrazione”. Durante tutta la carriera, si sarebbe poi sempre chiuso in un silenzio rituale nelle ore che precedevano una partita.
In lui pare esserci una sacralità del divertimento. Il carnevale di Rio, non può perderselo nemmeno se sta giocandosi lo scudetto in Italia, la prima volta che è via dal Brasile. Parte lo stesso, forte di una clausola che ha fatto inserire nel contratto. L'insieme di regole che formalizzano il suo lavoro dice che ha diritto, d'altronde, a partecipare alla festa che per antonomasia ribalta le regole.
«Felice la nazione il cui Dio è il Signore. Benedici, Signore, il nostro Brasile» twitta per festeggiare l'elezione di Jair Bolsonaro. Un sostegno pubblico che suona pienamente coerente con la compresenza, in Edmundo, di spinte opposte. Il disordine, la fatica di adeguarsi e il conflitto con l'autorità (sia arbitro o allenatore) vanno insieme alla tensione all'ordine.
Foto LaPresse.
Ha illuminato gli anni Novanta e gli anni Zero con una creatività poco comune per un attaccante col suo cinismo sotto porta.
L'8 gennaio 2000 segna un gol che è un trick da trickster – da briccone. Si gioca il primo e unico Campionato mondiale per club, che anticipa la formula della Coppa del Mondo per club. Il Vasco da Gama è molto forte – oltre a lui ci sono Romário e Juninho Pernambucano. Ma davanti c'è il Manchester United di Ferguson. Allo scadere del primo tempo, il Vasco è avanti di due gol. Al limite dell'area, di spalle alla porta e con Silvestre addosso, Edmundo riceve un passaggio rasoterra che suggerisce uno scambio e niente di più. Lui imprime un'accelerazione al pallone, sollevandolo, come un tocco allo yo-yo che ne rinnova la spinta. L'avversario in marcatura si sbilancia, ma un altro – Stam – e il portiere si avventano sul rimbalzo e sono in anticipo. Eppure è Edmundo a toccare prima di tutti, con una determinazione e una forza atletica che dànno un senso di completezza alla sua giocata. Gol. Esulta rabbiosamente, e nelle immagini video si nota che i compagni gli si avvicinano con una certa prudenza.
Pochi giorni dopo, nella finale al Maracanã, il Vasco perde il torneo ai rigori contro il Corinthians. L'ultimo lo tira Edmundo, capitano, e lo manda fuori di parecchio. In un unico movimento, poi, si lascia cadere in ginocchio e solleva la maglia a coprirsi il viso.
Anche negli interventi scomposti è creativo. In carriera, soprattutto nella prima fase, ha un problema di aggressività. Interventi duri, risse in campo.
Non si tiene neppure con allenatori e compagni, ci litiga spesso. Per esempio col tecnico Vanderlei Luxemburgo, che dirà di aver trattato “come un padre”, arrivano a prendersi a pugni ai tempi del Palmeiras, poi finiscono in tribunale per un prestito mai restituito a Edmundo (che vince la causa). O ancora, durante un allenamento al Napoli, riceve una critica dal compagno Luca Mondini e gli assesta un calcio in pancia.
Nel 1997, trascina al titolo il suo Vasco da Gama da capocannoniere del campionato (29 reti in 33 turni) ma viene pure espulso sette volte. Non è un ragazzino turbolento ma un giocatore al giro di boa della carriera. Poco dopo firma con la Fiorentina e si prova per la prima volta con il calcio fuori dal Brasile.
Foto di Shaun Botterill / Allsport.
Nelle giovanili del Vasco si era formato, dopo quelle del Botafogo, e con la maglia crociata aveva debuttato da professionista. Definirà il suo legame con O Gigante come l'amore per una madre. La sua carriera si chiude a cerchio con lo stesso Vasco, ma in mezzo c'è un frenetico movimento. Tredici club, quattro esperienze all'estero, più di un derby vissuto da ambedue le parti. Quando compie trentotto anni, si è appena ritirato dopo diciannove di calcio professionistico – la metà della sua vita.
A posteriori è evidente come la tempistica l'abbia aiutato poco. Farsi largo tra Romário, Bebeto e Ronaldo è complicato. Entra nel giro della Nazionale maggiore nel 1992 ma viene escluso dai convocati che vinceranno USA '94. E gioca appena due spezzoni e mezz'ora in tutto, nell'unico Mondiale a cui partecipa – quello amaro che segue, la sconfitta in finale contro i francesi padroni di casa. La sera del 12 luglio 1998 fa panchina a Ronaldo. È stato lui stesso a trovarlo in preda alle convulsioni in albergo, alla vigilia della gara, e sosterrà più volte di avergli salvato la vita. Il ruolo da protagonista Edmundo se lo prenderà comunque – nel suo racconto sarà l'eroe di quelle ore. Non Zinedine Zidane che guida i suoi, né il campione che sta male e comunque si presenta in campo. No, Edmundo, che nel 2002 sarà ormai fuori dalla Seleção e di nuovo si perderà la vittoria della Coppa del Mondo.
Un mese dopo la finale di Francia '98, intanto, il Vasco da Gama conquista la prima Libertadores della sua storia. Lui è stato ceduto un anno prima e tornerà soltanto un anno dopo. La tempistica è crudele.
Nell'estate 2001 arriva in Giappone. Dove dieci anni prima non esisteva una lega professionistica, e nel frattempo un flusso di calciatori dal Sudamerica ha riempito le rose delle società. Viene pagato in dollari. Il presidente del Tokyo Verdy dice di aver sentito che è un piantagrane ma anche uno che si allena duro e segna molto. In lui vede una guida per evitare la retrocessione. Leader carismatico in effetti, nonostante tutto, Edmundo lo è sempre stato. E dimostra con 21 gol in 30 presenze stagionali, tenendo il club lontano dal fondo, d'essere capace di ambientarsi da subito in un contesto così nuovo.
Foto di Jiji Press / AFP
Lo aveva già fatto a Firenze, qualche anno prima. Con Batistuta e Rui Costa aveva generato qualcosa che aveva portato la Viola a essere campione d'inverno 1998/99 e a fermarsi nella memoria dei tifosi per sempre. Antonio Cassano si vanterà di provenire dall'epoca in cui la Serie A era talmente competitiva che la Fiorentina stava ai vertici (li chiamerà “i miei tempi”, anche se esordì quando Edmundo era andato via da mesi). Nel racconto di Edmundo stesso, quell'esperienza la sprecò buttandola via, fece pressioni per tornare in Brasile e in cambio ne ottenne un grande rimpianto.
È un'alba di ottobre e Edmundo è in Italia quando uno dei suoi fratelli, Luís Carlos Alves de Souza, viene arrestato sull'Avenida das Américas a Rio de Janeiro. È entrato in piena notte in casa di Edmundo, pare che abbia lasciato qualcosa in una scatola di polistirolo e poi abbia sparato alle guardie di sicurezza del comprensorio che gli si avvicinavano.
Per spiegare perché non si prendesse col compagno Evair, dice in un'intervista a «Playboy» che quello era un tipo “da giorno”, tutto chiesa e riservatezza, mentre lui è uno “da noite, mas expansivo”. Ha avuto quattro figli, da donne diverse. Con il primogenito Alexandre, omosessuale (a quattordici anni, la madre lo portò a fare visite, unzioni e sedute d'esorcismo per guarirlo), ha tagliato i contatti per dieci anni prima di un riavvicinamento recente.
L'eros, la forza propulsiva che spinge Edmundo alla vita, è speculare alla presenza della morte.
A ridosso del Natale 1995, causa un gravissimo incidente stradale nelle strade esclusive di Lagoa a Rio. Ci sono tre morti: una ragazza che era con lui e una coppia investita dalla sua auto. È un peso che lo assillerà per tutta la carriera, e oltre. Nel 2011 verrà condannato a quattro anni e mezzo di semilibertà per omicidio colposo e lesioni. Eviterà il carcere solo grazie alla prescrizione.
Nel novembre del 2002, mentre Edmundo vive in Giappone, suo fratello Luís Carlos viene assassinato. La notizia gli arriva parecchie ore dopo, per il fuso orario. Il corpo è nel bagagliaio di una Fiat Palio parcheggiata nella periferia nord di Rio. Nell'arco di qualche anno entrambi i genitori moriranno giovani, le tre perdite sembreranno riunite in un momento solo. Col senno di poi, Edmundo dice: “Non mi riprenderò mai. Scambierei fama, carriera, soldi, tutto, per averli con me. Posso solo fingere di essere felice”.
Buona parte della sua storia, forse, andrebbe riletta a partire da questi episodi. È probabile che la coda di questo pezzo dovrebbe stare all'inizio. Ad ascoltare lui, gli eccessi sono appartenuti a una fase: nel 1992 non era ancora “un bad boy”, sostiene nell'intervista a «Playboy», e nel 2004 non lo era più. In allenamento, una volta, i suoi compagni sbagliavano troppo e lui si arrabbiò e l'allenatore andò ad abbracciarlo. Gli disse che doveva essere indulgente, perché gli altri erano semplicemente meno bravi di lui. Poco dopo Edmundo si rivolse a una psicologa: “Imparai a controllarmi”.
Spesso lo stigma è più brutale di ciò che lo ispira e spesso da spettatori giudichiamo sulla base di poco. Di sicuro non conosciamo davvero i calciatori che seguiamo, neanche quando sono al centro dell'attenzione pubblica. Possiamo intuire, azzardare, tentare. È quello che facciamo anche quando crediamo di sapere. Edmundo compie cinquant'anni e i cinquant'anni sono una soglia culturale, l'unica certezza è questa.