È una scena a cui noi, come pubblico calcistico italiano, abbiamo assistito già tre volte negli ultimi tre anni, ma è impossibile, e sarebbe sbagliato, abituarsi. È stato terribile e scioccante quando è successo a Christian Eriksen, durante l’Europeo giocato nell’estate del 2021, con la regia internazionale che non ha saputo rispettare il confine che separa l’informazione dal voyeurismo e la UEFA che ha imposto ai giocatori di ricominciare a giocare appena un’ora e mezza dopo. Lo scorso aprile è successo ad Evan N’Dicka, in un martedì sera qualsiasi, ad Udine, e stavolta nessuno ha avuto dubbi su cosa fosse giusto fare: non si può giocare, e non si può neanche guardare altri giocare, dopo aver vissuto un momento del genere. Ieri è toccato a Edoardo Bove.
Era un momento di pausa della partita, in cui si stava cercando di capire se il pallone calciato da Dumfries, che poi Lautaro aveva messo in rete, era davvero uscito oltre la riga laterale oppure no. Per quella ragione, gli animi si erano scaldati, ma quando abbiamo visto l’agitazione di Ranieri e Beltran, Dimarco correre verso la barella, e il rumore del pubblico che era lì davanti, abbiamo capito che stava succedendo qualcosa di diverso. Che non si stava più giocando. Bove è stato soccorso e portato via in un tempo che ci è sembrato lunghissimo ma che in realtà è durato meno di due minuti, quando è uscito dalla nostra vista e non c’era più niente che potevamo fare, neanche commentare, siamo rimasti di nuovo sospesi davanti alla possibilità che fosse successa una cosa terribile, la peggiore di tutte.
Potrei scriverlo senza che mi tremino le dita, adesso che sappiamo che Edoardo Bove è stabile, ma no, le dita tremano lo stesso. Il pensiero in quei momenti non è andato solo ad Eriksen e N’Dicka, ma anche e soprattutto a Davide Astori, un trauma per tutto il pubblico italiano ma in particolare per quello di Firenze. Un anno fa, poi, è morto improvvisamente il direttore generale della Fiorentina, Joe Barone. In quello stesso stadio, quasi esattamente 43 anni fa - il 22 novembre 1981 - dopo uno scontro di gioco con il portiere del Genoa si è fermato il cuore di Giancarlo Antognoni, salvato dal massaggio cardiaco. Ogni trauma si lega all’altro, e a chissà quanti altri più intimi e personali che riguardano ognuno di noi.
Edoardo ha 22 anni ed è il prototipo dello sportivo perfetto. Serio, educato, rispettoso, ma anche combattivo, appassionato, affettuoso. Quando la Roma lo ha ceduto la scorsa estate è stato intercettato alla stazione Termini, prima che andasse a Firenze, con gli angoli della bocca piegati all’ingiù e la voce timida si è detto dispiaciuto, per sé e per i tifosi romanisti. Sapeva di valere più di quello che faceva in campo, per loro. Quando però ci ha giocato contro è uscito dal campo col premio di migliore in campo, con un gol, un assist e un rigore procurato. I tifosi romanisti lo hanno applaudito, anche con una maglia diversa, anche in una serata così brutta, sportivamente parlando.
Quelli di Firenze hanno appena iniziato a conoscerlo, per le sue qualità calcistiche, quelle che hanno spinto Raffaele Palladino a farlo partire titolare in tutte le partite di campionato tranne una, seppur in un ruolo nuovo di esterno sinistro, ma non solo. Edoardo Bove è il tipo di calciatore che davvero, come si dice, gioca come vive. Quello che fa in campo è un prolungamento di come è fuori. Ci sono giocatori più forti, certo, ma anche questo tipo di sincerità ha un valore. La sua pulizia, la sua trasparenza, quella presenza: tutte cose che si possono dare per scontate con Bove; tutte cose rare, in campo e fuori.
Ieri sera, ricordando i casi passati, i commentatori hanno fatto un po’ con fatica il nome di N’Dicka. Il fatto che poi si sia rivelato qualcosa di meno grave rispetto a un arresto cardiaco ha dato adito a polemiche tanto sciocche quanto tossiche. Si era trattato, in quel caso, di un trauma che aveva causato un pneumotorace: lo svuotamento di un polmone. Eppure c’è stato un po’ di imbarazzo nel ricordarlo, per paura di sollecitare qualche basso istinto. Si pensa sempre che i tifosi siano pronti a dare il peggio, ma forse si dà anche troppo spazio, appunto, al peggio.
Ieri sera come stamattina, per Edoardo Bove, sono state pochissime le voci fuori dal coro. Quelle che non sono capaci, o non vogliono, distinguere la cosa giusta da fare e quella sbagliata. Quasi tutti hanno mostrato solo affetto, hanno combattuto l’apprensione con la speranza. Abbiamo visto, percepito, ci siamo ricordati, la differenza tra un gioco e le cose realmente importanti della vita, la diversa energia che anima gli esseri umani quando devono discutere di un gol annullato o si trovano di fronte a una vita da salvare. Se ce la ricordassimo più spesso, questa differenza, senza che sia la vita a prenderci a schiaffi per ricordarcelo, sarebbe ancora più bello.
Edoardo Bove è uno di quei calciatori che tutti sentono vicino. Forse anche per questo ieri la commozione è stata così forte. Non è un calciatore-attore, non è uno di quei giocatori distaccati dalla realtà. La bolla che lo separa dal suo pubblico è quanto mai sottile. “Edoardo Bove è uno di noi” è una cosa che possono dire tutti: i tifosi romanisti, i tifosi fiorentini, i tifosi italiani, i tifosi in generale. Chiunque lo abbia visto giocare, esprimersi nella cosa che gli riesce meglio.
Io ho giocato nella stessa squadra di Roma Nord in cui anche lui ha giocato da giovane, la Boreale. Proprio poche settimane fa i giornali hanno riportato un suo investimento nella Boreale, e dichiarazioni d’amore secondo cui a quarant’anni vorrebbe chiudere la carriera di nuovo lì. Molti anni fa, mentre ancora giocavo, ho allenato i pulcini della Boreale: erano la classe del ‘92 e lui è del 2002, ma se penso a Bove non riesco a non immaginarlo bambino, vestito col viola della Boreale, così simile a quello della Fiorentina. Questa forse è la ragione per cui la mia commozione, ieri, era particolarmente intensa; eppure, nonostante questa vicinanza materiale, di quartiere, non penso di essere più vicino a Edoardo Bove di quanto lo sia qualsiasi altro appassionato di calcio.
Certo, ci unisce il dolore per quello che è successo a Bove, ma lui prima ci univa con tutto il resto, con il suo modo di giocare, di comportarsi, di essere. Per questo la speranza è che torni a farlo al più presto, per ricordarci ogni settimana, con la sua presenza in campo, tutte quelle cose veramente importanti per cui non esistono bonus al fantacalcio o premi individuali.