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Educazione cruyffiana
21 giu 2016
Un'intervista del 2010 di Martì Perarnau a Johan Cruyff.
(articolo)
6 min
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Articolo tradotto dall’originale di Martí Perarnau, pubblicato sulla rivista “The Tactical Room” del Perarnau Magazine.

L’intervista è del 14 dicembre 2010: l’obiettivo è di indagare le origini e lo sviluppo della cantera del Barcellona, che pochi giorni dopo avrebbe portato ben 3 giocatori sul podio del Pallone d’Oro. Cruyff va oltre e regala un affresco di calcio, tra crescita, educazione e mentalità.

Quando arrivi al Barça, qual è l’idea concreta di gioco che proponi? Quali sono i due o tre concetti fondamentali che utilizzi e che costituiscono l’Idea?

In primo luogo, dominare il pallone. È un concetto molto semplice: quando tu domini il pallone, ti muovi bene. Secondo: l’avversario non ce l’ha e non ti può attaccare. Bisogna cercare e acquistare giocatori adeguati e migliorarli con gli allenamenti sul gioco posizionale.

Automaticamente, con giocatori di qualità devi cercare di dominare il campo in ogni momento, per fare ciò che preferisci: se vuoi attaccare al massimo o se vuoi rifiatare mantenendo la palla. Hai bisogno del pallone per fare ciò che vuoi e costringere l’avversario ad adattarsi alle tue decisioni. C’è un solo pallone e tanti giocatori che si muovono bene, in modi diversi, e devono solo passare bene il pallone tra di loro. Quello che si muove decide la direzione della palla, e se si muove bene tu puoi modificare la pressione che ti porta l’avversario, oppure fare una giocata posizionale per spostare il gioco dove preferisci. È come il centravanti che si abbassa: con quel movimento crea degli spazi dietro la linea difensiva, dove altri compagni possono infilarsi. Tutto questo è grazie al fatto che la tua squadra controlla il pallone: ma per farlo hai bisogno di giocatori di qualità.

Hai trovato difficoltà per inculcare questi concetti nel settore giovanile del Barça o hai trovato da subito una buona predisposizione?

Io sono stato un giocatore dell’Ajax degli anni ’70. Avevo un buon passato (sic) da giocatore e logicamente questo aiuta a essere creduti: quando dici qualcosa, la metà di quelli che ti ascoltano ti vogliono già aiutare. Gli altri magari non capiscono o semplicemente preferiscono di no. Il problema più grande era quello del carattere catalano, che crea sempre grandi dubbi quando vuoi introdurre qualcosa di nuovo. Ho avuto giocatori bassini, come Ferrer, Sergi e Eusebio, che però accarezzavano il pallone e lo dominavano, e altri come Luis Milla e Pep Guardiola, fisicamente poco dotati ma molto intelligenti nel gestire il pallone: mano a mano siamo riusciti a convincere tutti, grazie anche ai risultati.

Mi criticavano perché giocavo con la difesa a tre, ma era una delle accuse più idiote che ci fossero: noi riempivamo il campo nella zona in cui ne avevamo bisogno. Se l’avversario gioca con due punte, come tutti facevano all’epoca, e io faccio giocare quattro difensori, allora uno è di troppo…

Circa vent’anni prima del tuo arrivo da allenatore, Laureano Ruiz (allenatore delle giovanili) già aveva piantato i semi di un’idea molto simile.

Sì, la più grande ossessione di Laureano era la tecnica. Per lui tutto si basava sulla tecnica. Diceva che se passi bene il pallone, lo controlli bene e lo gestisci bene hai molte più possibilità, e aveva ragione.

Io ho potuto allenare alcuni giocatori passati per la sua scuola e questo mi è stato d’aiuto. Ero nella prima squadra ma potevo scegliere giocatori delle giovanili con buona tecnica di base: c’era una buona materia prima, di buon livello tecnico.

Qual è la cosa che risulta più decisiva per il settore giovanile del Barça: il tuo 3-4-3 o l’idea di tenere la palla e muoverla rapidamente, e dare priorità al talento e alla tecnica invece che all’aspetto fisico?

Il disegno tattico arriva dopo. Se disponi di giocatori che dominano il pallone e sanno gestire la fase offensiva, già sei a metà dell’opera. Quando si perde palla, la chiave è come recuperarla. L’idea nel passato era di tornare a difendere la nostra area. Per pressare invece hai bisogno di giocatori in posizioni precise. Se hai quattro difensori che marcano due attaccanti, poi ti rimangono solo sei giocatori contro otto avversari e non puoi vincere la battaglia a centrocampo. Quindi dovevamo levare un giocatore dalla difesa e sistemarlo più in avanti per riempire la metà campo.

Un altro dettaglio molto importante è la gestione rapida e ben orientata del pallone: è questo che fa la differenza tra un giocatore bravo e uno mediocre. Il primo può giocare anche sotto pressione. Senza pressione, tutti sanno fare un buon passaggio. Adesso (2010) hanno perfezionato i dettagli fino al punto che lo spettacolo più grande è quando il Barça non ha la palla. Questo è l’aspetto più importante del calcio di oggi: invece di tornare indietro si difende in avanti.

Come si è sviluppata la tua idea di calcio? In particolare, come ha influito la scuola dell’Ajax nella formazione dei tuoi concetti o nella metodologia dei tuoi insegnamenti?

Ho avuto un allenatore nelle giovanili che, me ne rendo conto adesso, era incredibilmente bravo. Riusciva sempre a far giocare i ragazzi forti. Io fisicamente ero davvero poca cosa, però sapevo giocare e lui mi integrò con ragazzi più grandi di me, come ala destra. In quella posizione c’è meno gente e il gioco è più rapido. Mi diceva che nei primi mesi avrei dovuto giocare in quella posizione per adattarmi ai ritmi delle partite. Se poi ci fossi riuscito, mi avrebbe spostato nella mia posizione di attaccante centrale. Ti faceva pensare a tutti i concetti di gioco. Si chiamava Jany Van der Veen, aveva una visione eccezionale come tecnico: in quell’epoca, parliamo degli anni ’60, l’Ajax aveva in tutto otto squadre e solo due allenatori per gestirle. Van der Veen quindi allenava quattro o cinque squadre contemporaneamente. Allora ancora non esisteva il professionismo nel calcio olandese, il primo fu Keizer, poi toccò a me.

Con Michels invece eravamo già tutti professionisti e si trattava di dominare il pallone. Tatticamente Michels ci insegnò molto, e per questo io ho sempre visto le cose prima degli altri. All’epoca si giocava un po’ all’avventura: subivi un gol e subito volevi segnarne due.

Ad esempio, con lui ho imparato che quando la difesa avversaria ha il pallone, un difensore è meno tecnico di un attaccante: se gli chiudi gli spazi per il passaggio, quasi sicuramente commetterà un errore. Non c’è bisogno di rubargli il pallone, perché il difensore te lo regalerà o lancerà lungo e quindi in ogni caso tornerà in tuo possesso. Io ero fisicamente esile e con la tattica mi si apriva un mondo. Prima era molto difficile giocare: noi ragazzini giocavamo per strada contro i più grandi, o nel cortile, e se cadevi erano dolori. La chiave del gioco era quindi evitare di cadere, ma per farlo avevi bisogno di una vista più rapida degli altri.

Adesso (2010) vedi il Barça e ti accorgi che sono i più svelti: sono sempre in movimento e questo è il vero grande cambiamento. Durante il mio periodo da allenatore, con un’iperbole dicevo che tutti i miei giocatori erano alti 1 metro e 50: Ferrer, Sergi, Eusebio, Bakero, Beguiristain. E adesso è la stessa cosa: sono tutti bassetti ma si muovono come topi. Qualcuno dice che questo può determinare pericoli sui calci d’angolo, ma per me la soluzione è non concedere i corner: così eviti il problema.

Arrivi a Barcellona con la tua “idea madre”, spieghi i concetti base e i giocatori li assorbono: ma solo questo non sarebbe bastato. C’era bisogno di insegnanti, infrastrutture e molto lavoro collettivo durante vari anni per sedimentarla.

Un po’ di tutto questo, sì. Se me ne fossi andato, probabilmente questa storia della cantera sarebbe finita subito. Il Barça ha avuto fortuna nel trovare persone disposte a seguire questa linea che avevamo individuato. C’è poi una questione importantissima per il settore giovanile e cioè che funziona solamente se l’allenatore chiama i ragazzi in prima squadra. È una questione di mentalità, la storia sta tutta lì: è Cruyff, certo, ma è anche Van Gaal, che viene dalla scuola dell’Ajax e chiama diversi giocatori delle giovanili in prima squadra. Anche Rijkaard ha dato opportunità ai ragazzi, trovandogli un posto in squadra. Io ho fatto esordire Pep e lui ha inserito in prima squadra tanti giovani. Si tratta di un circolo virtuoso, che è importante mantenere: all’allenatore deve essere concessa la libertà necessaria. Ogni nuovo allenatore ha migliorato questo sistema; altrimenti sarebbe stato impossibile arrivare a questo livello di eccellenza nel gioco.

Guardiola fa parte della mia scuola, con un fisico abbastanza esile: sa che bisogna aspettare la crescita dei giocatori e per questo allena i dettagli al di là della parte fisica.

Nelle categorie inferiori bisogna migliorare molto per arrivare in prima squadra, per questo bisogna cercare la qualità sin da piccoli. La visione di chi lavora nei settori giovanili è incentrata su chi sa dominare il pallone, a prescindere dal fisico.

Ci sono ottimi settori giovanili nel Mondo: in Feyenoord-Excelsior (2010) erano in campo ben 18 giocatori cresciuti in casa. Qual è il fattore che differenzia la cantera del Barça dalle altre e la rende migliore?

Il Feyenoord non lo fa per una filosofia ma solo per la sua cattiva situazione finanziaria, con la Federazione olandese che gli ha impedito persino di acquistare giocatori. Non hanno avuto altra possibilità che scommettere sulle giovanili e fra pochi anni si ritroveranno in una situazione decisamente migliore, anche se hanno il problema di chi guida questi ragazzi. Non c’è un copione da seguire, non ci sono grandi giocatori cresciuti nel club che possano guidare i più giovani.

Anche all’Ajax succede qualcosa di simile: a 22-23 anni i migliori se ne vanno, e nessuno può guidare i giovani.

Nel Barça, invece, c’è un buon mix tra veterani e giovani: quando un ragazzo arriva in prima squadra, può essere più tranquillo perché il peso è sulle spalle dei più grandi.

La selezione dei giocatori nel Barça si fa soprattutto in Catalogna. Ti sembra una politica corretta?

Sì, perché così si abituano dall’inizio: oggi c’è una quantità di denaro per i settori giovanili impensabile durante la mia epoca. Ma in primo luogo vanno selezionati i giocatori di Barcellona e poi si estende la zona. Ho domandato ai miei giocatori dell’epoca e molti venivano da una stessa zona. De la Peña e Juan Carlos furono scoperti da Laureano Ruiz, che aveva un grande occhio per i giovani.

Come si può garantire il futuro di un settore giovanile, per evitare che un presidente o un allenatore interrompano questo circolo virtuoso?

Non esiste una garanzia, ma c’è una grande differenza tra farlo funzionare o no: il settore giovanile può essere buono al 100%, ma tutte le componenti del club devono partecipare, altrimenti si ferma al 95% e non funziona. L’allenatore della prima squadra deve usare i ragazzi del settore giovanile. A volte dicono che a un giocatore manca l’esperienza, ma se non lo fanno giocare non ce l’avrà mai. Passare in una categoria superiore è importante, così come imparare almeno due lingue (spagnolo e inglese) per poter comunicare con il resto del Mondo. Su questo aspetto c’è ancora molto da migliorare. Se ti fermi, resti indietro: bisogna migliorare, ci sono sempre dettagli da migliorare.

Adesso che il Barça B si è stabilizzato in Segunda Division (nel 2010; attualmente invece è in terza serie), pensi che si dovrebbe istituire anche un Barça C? Gli allenatori delle giovanili credono sia meglio di no: i giocatori devono passare direttamente dalle giovanili alla seconda squadra, per fare subito un salto di qualità.

Sono d’accordo, non c’è bisogno di una terza squadra. In passato, i giocatori dallo sviluppo più lento (ci sono i precoci ma anche quelli che hanno bisogno di più tempo) e ancora poco pronti per la squadra B erano ceduti in prestito per risolvere il problema. Parlo di cedere un giocatore in prestito non per rovinarlo, ma affinché apprenda. Per me un prestito a un’altra squadra significa sempre acquisire esperienza. All’epoca lo facemmo con Sergi e Ferrer: non li abbiamo prestati per cacciarli, ma per migliorarli.

I ragazzi vanno stimolati affinché possano fare un salto di qualità. Un calciatore deve giocare a livello competitivo: in ogni partita e in ogni allenamento c’è qualcosa da imparare. C’è così tanto da imparare nel calcio! Se sei un’ala devi saper fare tutto, altrimenti l’allenatore deve schierarti da terzino, per capire cosa succede quando sei tu ad essere lasciato solo contro l’avversario. È un insegnamento facile ma che può aiutare molto. Vincere tutte le partite 10-0 non ti insegna nulla. Si può imparare solo quando si compete con i più grandi e si perde.

La Masìa sta formando grandi giocatori, ma anche role models. C’è una maggioranza di giocatori davvero esemplari: è una casualità?

Fa parte del modello formativo. Ciascuno ha il suo carattere. Da bambini si è pronti a imparare ed essere educati all’umiltà è una chiave del successo. L’umiltà è ciò che ha reso grande il Barça di Guardiola: grande e differente dagli avversari. Il calcio, in fondo, esiste per divertire gli spettatori; ma i bambini si educano anche con lo sport, dove si risolvono problemi come l’integrazione o l’obesità. È importante l’umiltà per i giocatori che rappresentano il Barcellona, come i tre del podio del Pallone d’oro 2010 (Messi, Iniesta, Xavi): sono un esempio fantastico.

Quando allenavi il Barcellona, un giocatore giovane ti disse che aveva deciso di lasciare gli studi. Tu lo hai convocato alle 8 della mattina al Camp Nou per pulire gli scarpini dei suoi compagni.

È tutto vero, e non importa il nome del giocatore, ma il fatto in sé. Il ragazzo mi guardava con un senso di ribellione enorme, ma io gli dissi che doveva capire le conseguenze del suo gesto. Bisogna studiare per migliorare la propria intelligenza e per capire più cose possibili. Se non vuoi studiare, allora devi fare qualcosa per non finire per strada. Gli inglesi erano esemplari in questo aspetto, non so se lo sono ancora adesso: i giovani dovevano sempre pulire il materiale tecnico della prima squadra. Era un apprendistato: pulire gli scarpini, mettere i tacchetti differenti. Anche nell’Ajax successe qualcosa di simile: alcuni ragazzi si credevano già fenomeni e ci fu bisogno di educarli. Avevano lanciato gli scarpini contro la parete e dato calci alla porta e così gli abbiamo detto che lo spogliatoio serviva per cambiarsi, non per il vandalismo. Poi abbiamo deciso che ogni squadra avrebbe dovuto pulire gli spogliatoi: così dovevano prendere la scopa e darsi da fare. Da quel momento, si trasformò nello spogliatoio più pulito della storia: non perché lo pulivano bene, ma semplicemente perché evitavano di sporcarlo. Non c’è stato più neppure bisogno di riparazioni.

Nel Barcellona ho fatto cose del genere anche in prima squadra: c’erano giocatori che buttavano il materiale direttamente per terra e io gli chiesi di metterle nel cesto dei panni sporchi, per evitare che le persone adulte che si occupavano della pulizia dovessero andare in giro a raccogliere gli indumenti. Aiutateli come loro aiutano voi, dissi. Ma queste sono cose normali: mi hanno educato così. Non è una mia invenzione: si chiama educazione.

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