In un articolo del New York Timesdi qualche tempo fa viene raccontata questa scena: Rafael Márquez è in un ristorante, gli si fa incontro una cameriera titubante, gli chiede se casomai gli andasse di affacciarsi un attimo in cucina, «sa, sono tutti un po’ fuori di loro da quando hanno appreso che c’è lei in sala».
Nelle cucine di New York City, così come in quelle un po’ di tutti gli States, quella messicana è una presenza costante, una minoranza invisibile ubiqua ma non riconosciuta. Anthony Bourdain, chef e scrittore, una volta ha definito il Messico come «il paese dal quale vengono i cuochi»: «se sei alla ricerca di un cuoco di linea professionale nelle sue abitudini, responsabile nei confronti del cibo, sul quale puoi fare affidamento, un ragazzo con un buon senso dello humor, un bel personaggio, uno che sa come funziona il suo mondo in Francia, Spagna e Italia, e che può tirarti fuori 250 pasti senza andare al manicomio, che sa farti le cose con precisione e dovizia, c’è una buona percentuale di probabilità che quel cuoco si chiamerà Carlos».
Ci voleva che la Copa América arrivasse a Phoenix, città in cui il 42% della popolazione è ispanica (e lavora nelle cucine), e che in campo scendesse il Messico per arrivare finalmente ad assistere a una partita di Copa América, con tutti i crismi, un evento compiuto in cui livello tecnico, impeto furioso e partecipazione corale del pubblico si fondono in un tutt’uno magmatico che ribolle per novanta minuti.
Praticamente una manciata di minuti dopo aver subito il pareggio da parte di Diego Godín, El Gran Capitán ha dato un volto, con le basette e una mascella perfettamente squadrata, all’espressione moto d’orgoglio, riportando in vantaggio il Messico contro l’Uruguay - e prima che Herrera chiudesse la partita sul 3 a 1.
Se volessimo dare continuità alla linea metaforica, il cuoco perfetto di un servizio impeccabile come quello de La Tri contro l’Uruguay, un 3-1 perentorio che ridimensiona le velleità della Celeste, non si chiamerebbe per niente Carlos, ma Rafael: Rafael Márquez Alvarez.
Quello del 2-1 è stato il suo sedicesimo gol in Nazionale: ma il dato davvero significativo è che è arrivato diciassette (DICIASSETTE!!!) anni dopo la prima rete con la maglia verde della Sele, vale a dire questo:
Un classico gol à la Márquez. Il Messico indossa ancora il bellissimo pattern azteco con cui aveva giocato i Mondiali di Francia e vincerà la Confederations Cup del ’99.
Nel mezzo, tra la prima e l’ultima rete di Rafa Márquez, c’è un’intera era geologica calcistica (oltre che televisiva), forse due: dopotutto ci sono diciassette anni di storia, che nell’aritmetica del fútbol, scandita da ricorrenze biennali e quadriennali, si trasformano in sei Copa América, quattro Mondiali e altrettante Gold Cup. Per dare una misura del gap generazionale che c’è tra RM4 e il resto della sua squadra potremmo dire che mentre Héctor Herrera, autore di una doppietta ieri sera, faceva la quarta elementare, Rafa marcava Iván Zamorano e Marcelo Salas nella prima competizione importante alla quale partecipava, dopo essere entrato a far parte del giro della Tri già da due anni (cioè da quando Héctor Herrera faceva la seconda elementare).
Estate del 2000, un’altra era. Io mi diplomavo, Rafa si involava da ala destra (all’epoca giocava centrale di centrocampo) e segnava questa perla qua.
Sono sicuro che non fosse semplice confondere Héctor Herrera con qualcun altro, neppure da ragazzino: è strano invece l’aneddoto attorno alla prima convocazione di Rafa, perché Bora Milutinovic, in realtà, voleva convocare un altro Márquez dell’Atlas, César. Non so che fine abbia fatto la carriera di César, ma alla fine è stato meglio così per tutti. Forse César oggi si è aperto un ristorante nelle cui cucine lavorano amici, nipoti e nipoti di amici.
Da bravo cuoco, el Kaiser de Michoacán è un compendio di professionalismo e colpi di testa, in senso lato ma anche no. La sua carriera, longeva e coriacea come quella di Gualtiero Marchesi, lo ha portato ad andare a segno in tre dei quattro mondiali che ha disputato.
Nel 2006, alla sua seconda apparizione iridata - e già quasi al capolinea di un passaggio per i campi d’Europa fiammante e dagli esiti tutt’altro che scontati, con l’impatto di un meteorite per gli standard fissati dai messicani emigrati nel Vecchio Continente (eccezion fatta per Hugo Sánchez) - contro l’Argentina si è fiondato su un pallone spiovente con la rapacità di un condor e il self-control dell’imperatore Cuauhtémoc mentre gli immergono i talloni nell’olio bollente, quando nonostante tutto ha saputo mantenere una dignitosa omertà su dove si celassero i tesori aztechi:
In quel momento aveva già vinto, per primo nella storia calcistica del suo paese, una Champions League con il Barcellona: coi blaugrana sarebbe rimasto altri quattro anni, ritagliandosi un posto speciale nell’affettività, non sempre e con tutti così generosa, dei tifosi culé.
Un aspetto interessante della personalità di Rafa, soprattutto perché slegata dal suo rendimento in campo e per certi versi antitetica, è quello di non sapersi leggere troppo bene nel profondo: perfettibile come e più di ogni altro essere umano, Rafa spesso sbaglia valutazioni, in primis su se stesso. Però ha anche l’invidiabile capacità, tutt’affatto scontata, di entrare in tackle scivolato sulle sue decisioni, addomesticare la palla del suo futuro e trovare sempre il modo intelligente di giocarla, dando un nuovo inizio all’azione.
Quando nel 2010 ha deciso di trasferirsi ai New York RedBulls pensava di essere in una fase calante della sua carriera: gli si presentava davanti l’opportunità di offrire una consulenza a New York e di essere strapagato, di fare una vita tipo quella di Joe Bastianich, chi avrebbe rifiutato?
Nonostante la sua esperienza in MLS sia stata fallimentare, tale da arrivare a giudicarlo uno dei peggiori Designated Players della lega statunitense, il calciatore Rafa Márquez era tutt’altro che finito.
Il non saper leggere le sue scelte lo ha portato a dei cul-de-sac cognitivi notevoli: quando era ai RedBulls si è lamentato del fatto che la linea difensiva non fosse alla sua altezza, e col senno di poi non ha avuto difficoltà ad ammettere di aver fatto una scelta sbagliata di carriera (per quanto non di vita). Ed è meraviglioso che proprio su un campo della nazione che più gli ha segnato negativamente la carriera, e che si appresta a votare un candidato presidente pronto a erigere un grande e grosso muro a Sud, il protagonista più scintillante delle glorie messicane sia tornato ad essere lui, in una serata tracimante la latinità degli Stati Uniti.
Rafa sa essere ragionevole e sensato senza apparire cervellotico.
Riconoscere che il suo insuccesso statunitense deve aver per forza affondato le radici anche nel fatto che dopotutto fosse il capitano della Nazionale dirimpettaia, la più odiata dai tifosi che avrebbero dovuto supportarlo nel suo club, il corto circuito emotivo che doveva sollevare (più negli altri che in lui, invero) vederlo indossare una bandiera stellestrisce sulla manica, testimonia un’intelligenza che ha un immediato riscontro nel suo stile di gioco. Perché per quanto abusato come termine, il QI del Gran Capitán in campo è di molto superiore alla media: non spreca mai un pallone, raramente prende decisioni figlie di una lettura sbagliata.
Se Francesco Totti è un Vissani che non si arresta di fronte al crepuscolo inevitabile, Rafa Marquez è davvero un Gualtiero Marchesi che preferisce, di fronte all’avanzata di una turba di piccoli Chef Rubio, lasciare il passo.
Beninteso: sempre che arrivi, prima o poi, qualcuno alla sua altezza.
Perché Rafa Márquez, di mollare per perdere, non ne vuole ancora sapere: non è un caso se in quasi vent’anni di carriera non è mai retrocesso.
Pensateci bene: tecnicamente, neppure quest’anno.