E se la più meravigliosa tra le laconiche, nostalgiche e meravigliose occupazioni degli argentini smettesse di essere quella continua ricerca di un erede alla maglia numero Dieci e si cominciasse a pensare ai portieri? Dovrà pur finire questa indifferenza supponente nei confronti dell’ultimo difensore albiceleste, prima o poi. Quanto ci divertiremmo di più?
A pensarci bene, tranne che in Bundesliga c’è un portiere argentino in ognuno dei principali campionati. Questo perché non è vero che i portieri argentini sono scarsi, come si pensa spesso. Eppure nessuno è un fenomeno. Il che, comunque, non giustifica la sciatteria con cui viene trattato il tema, quella tranquillità arrendevole per la quale anche se ci sta Fulano, tra i pali, va benissimo così (Fulano, in argentino, è il nome di Tizio, ve lo ricordate Tizio?).
A rendere fenomenale un portiere argentino, effettivamente, sono sempre state le circostanze: è andata di lusso a Fillol nel ‘78 e a Pumpido otto anni più tardi, perché difendevano i pali della squadra vincitrice del Mondiale. E in qualche modo a Sergio Goycoechea nel ‘90, che ci è andato assai vicino.
Lionel Scaloni, nel suo pur breve periodo alla guida della Selección, ha convocato dieci-dico-dieci candidati al ruolo di numero uno: Armani, Marchesín, Musso, Andrada, Ledesma, Gazzaniga, Rulli, Sergio Romero, Guido Herrera. E poi: Emiliano “Dibu” Martínez, che è stato il portiere dell’Argentina vincitrice della Copa América, la scorsa estate, e che è in una forma smagliante.
Sarà per questo che oggi, da Buenos Aires a Rosario a Ushuaía, se chiedeste di lui vi risponderebbero che è un portiere mostruoso. Sarà per questo che è tra i candidati al Premio Yashin, la categoria del Ballon d’Or dedicata ai portieri.
Probabilmente avrete sentito parlare di Emiliano Martínez, ultimamente, per questo simpatico siparietto divenuto virale sui social: la pièce inscenata in occasione di un calcio di rigore concesso al Manchester United contro la sua squadra, l’Aston Villa. Siamo all’Old Trafford, è il novantaduesimo e il Villa è in vantaggio per uno a zero. Viene assegnato questo rigore ai Red Devils e Bruno Fernandes sistema la palla sul dischetto. Il “Dibu” si avvicina con fare coatto, ma in realtà non si fila neppure di striscio Bruno Fernandes perché il suo obiettivo è Cristiano Ronaldo, che con le braccia lungo i fianchi se ne sta lì a pregustare il momento in cui il connazionale sbaglierà il rigore e lui con un tap-in si prenderà la gloria. Martinez, però, vuole Cristiano Ronaldo: «dovrebbe tirarlo lui», dice, «dovrebbe tirarlo lui», insiste.
È un atteggiamento in primis molto argentino, molto tanguero: è l’invettiva del porteño che sta per sferrarti una pugnalata, repentina, ferale, dopo averti provocato. Ma anche l’applicazione di una tecnica, quella del disturbatore, che costituisce il bagaglio di qualità di certi portieri quando si avvicina l’uno contro uno del rigore. Martínez è uno di quegli estremi difensori che si muovono molto, che distraggono il campo visivo dei rigoristi nella speranza (spesso fondata) di indurli in errore. Ci sono studi che dimostrano in maniera cristallina come un rigorista distratto tenda, nel 10% dei casi, a sbagliare.
Martínez, però, come abbiamo visto, si spinge ancora oltre: si avvicina al rigorista, gli punta il dito contro, gonfia le spalle. Cerca di intimidirlo con la presenza fisica, non si limita a cercare di distrarlo, lo coinvolge nel duello, lo invita. Questi diversivi, ovviamente, hanno lo scopo di ritardare l’esecuzione. E più il tempo passa, più l’avversario perde il focus di ciò che sta per succedere. Secondo certi studi, il ritardo indotto può abbattere la soglia di fallibilità del 20, 30 per cento. E poi, Martínez: parla. Parla un casino. Chiacchiera e chiacchiera come se fosse l’impiegato che si prende un po’ sul serio e un po’ fa il cazzone alla partita di calcetto del mercoledì, provoca l’avversario, ci fa dei discorsi lunghissimi, osceni.
Trash-talk. Dei più puri. Durante la Copa América dell’estate appena passata, in semifinale, l’Argentina affronta la Colombia. Vanno ai rigori e Martínez si trova di fronte, come primo rigorista avversario, Davinson Sánchez. «Mi dispiace ma ti mangio, fratello», gli dice. Sánchez sbaglia. Il secondo rigorista è Yerri Mina. «Stai ridendo ma lo so che sei nervoso», lo incalza. «Sì, fai pure il matto, ti conosco a te… ti piace fare il coatto. Ma vedi che se incroci te la paro, eh. Guarda che mi ti mangio, fratello». E Yerri Mina, inevitabilmente, ci casca.
Con Miguel Borja, invece, la tecnica non funziona, «ti piace parlare no? Ti ho visto che nell’intervallo parlavi.... ti piace guardare, no? Allora guardami in faccia...». Borja non lo guarda, segna, esplode in un’esultanza che è direttamente proporzionale al tasso di nervosismo che serpeggia tra i cafeteros. L’ultimo rigorista, Cardona, sbaglierà senza neppure bisogno che Martinez dica una parola: il dubbio instillato negli avversari era così alto che non ce n’era stato bisogno.
Chi credeva che quella contro la Colombia fosse stata la masterclass di Martínez Il Disturbatore (o Il Mangia Anime, se preferite), in effetti, si è dovuto ricredere, perché contro il Manchester United la sua machiavellicità ha raggiunto il livello successivo. Invitando Cristiano Ronaldo anziché Bruno Fernandes, il rigorista designato, che stava già sistemando il pallone, il “Dibu” ha praticamente innescato una specie di guerra dell’ego, una lotta intestina, scatenato i demoni portoghesi che immagino ribollenti come una sopa de bacalao: Fernandes è il rigorista designato, ok, ma Ronaldo è Ronaldo. Fernandes si è sentito meno sicuro di sé (anche aveva segnato dodici rigori consecutivi), ha sentito la sua autorevolezza scricchiolare; Ronaldo ha pensato che forse lo avrebbe dovuto davvero tirare lui, quel rigore, che invece è schizzato nelle orbite siderali.
Con l’esultanza successiva, una specie di balletto maleducato e dai richiami vagamente sessuali rivolto sfacciatamente alla curva dei tifosi del Manchester United, e più in generale con quel machismo esasperato che si annida nei movimenti pelvici dei suoi tripudi, nelle dichiarazioni di abnegazione militaresca, nelle sue minacciose routine (ha dichiarato che prima di giocare la finale con il Brasile in Copa América si è rilassato giocando a Call of Duty), Emiliano Martínez ha costruito per se stesso un’immagine da villain che però un po’ stride con la sua carriera, con il suo percorso più di espiazione che di affermazione.
La sua tracotanza, gli atteggiamenti da bullo sembrano piuttosto la valvola di sfogo di un’intera parabola retta da un’attitudine decisamente più zen, votata alla pazienza. Perché per diventare una stella oggi, Martínez ha dovuto portare quintali di pazienza per dieci anni, quel soffice sedativo che gli ha permesso anche di sopportare la nascita di una figlia mentre era in Brasile per la Copa, per vedere la quale ha dovuto aspettare una settimana.
Tolleranza e pazienza. Calma e indulgenza. Prove per le quali c’è bisogno di una fortissima tenuta mentale, che Martínez ha dovuto gioco-forza allenare fin da quando se ne è andato da Mar del Plata, a 14 anni, per giocare nelle giovanili dell’Independiente. «Quando sono arrivato ero un po’ roscetto, con le lentiggini. E allora hanno cominciato a dirmi che somigliavo al disegnetto». Disegnetto, in spagnolo Dibujito, è il personaggio principale di “Mi Familia es un Dibujo”, una serie tv di fine anni ‘90 in cui una famiglia ha, come figlio, un cartone animato. Il suo apodo, “Dibu”, viene da lì.
Nel 2009 gioca da titolare il Sudamericano U17, in Cile. L’Argentina arriva in finale con il Brasile, i tempi regolamentari finiscono 2-2 e si va ai rigori. “Dibu” ne para due: il primo a Coutinho. Ma non basterà a consegnare all’Albiceleste il titolo. Di ritorno in Argentina gli dicono che l’Arsenal è sulle sue tracce. Lui pensa si tratti dell’Arsenal de Sarandi, mentre a essere interessati erano i Gunners. Francis Cagigao - che avrebbe portato a Londra, tra gli altri, Gabriel Martinelli e Cesc Fabregas - lo aveva segnato sul suo taccuino, anche se era in Cile per seguire altri calciatori.
Quindi vola a Londra per un provino. Di ritorno è piuttosto disilluso, ma soprattutto ha ben chiaro cosa vuole, e cioè fermarsi in patria, esordire con l’Independiente. Quando arriva a Mar del Plata, però, trova il padre in lacrime: dopo una lite è stato licenziato dal posto di lavoro, e ha dovuto vendere la macchina per saldare i debiti.
Settimane più tardi gli comunicano che l’Independiente è propenso ad accettare l’offerta degli inglesi: lui ripensa alle lacrime del padre, e capisce che i suoi desideri non sono importanti quanto l’opportunità di aiutare la sua famiglia. Ubi maior, minor cessat.
David Price/Arsenal FC via Getty Images
A Londra, dunque, arriva nel 2010. Davanti a sé ha Almunia, Fabianski, Mannone. Nella stagione successiva si aggiungerà anche Szczesny. Martínez non è però tipo che si lascia scoraggiare, alla madre dice «non voglio essere uno di quei giocatori frustrati che vanno in Europa e tornano con niente tra le mani». Sceglie di lottare per un posto, anche se sa che non sarà facile.
Dalla sua, però, ha una grande motivazione, che lo sorregge quando tutto sembra suggerire il contrario, quando la disillusione lo porta fino al disamoramento. «Ho atteso per anni», dirà più avanti, «chiedendomi perché non si fidassero di me, chiedendomi se la mia chance sarebbe mai arrivata». «Ti alleni a fare il portiere, tutti i giorni. Ma nessuno ti prepara a quella che sarà la tua vita». Inizia una serie di prestiti: Oxford United, una presenza; Sheffield Wednesday, undici presenze - e Kirkland, il portiere titolare, che negli intervalli delle partite gli preparava il tè.
Nel Novembre del 2014 si infortunano sia Szczesny che Ospina: è la prima vera occasione per Martínez (che tutti chiamano ancora Damián). Scende in campo contro Borussia Dortmund, West Brom, Southampton: per tre partite mantiene la rete inviolata. Wenger sembra quasi orientato a fidarsi di questo carneade argentino, se solo non arrivasse la solita, nefasta cold rainy night in Stoke: l’Arsenal perde 3-2 dopo essere stato sotto per 3-0, Emi non è quel golem di sicurezza che ti fa dormire sonni tranquilli e dalla settimana successiva tra i pali torna Szczesny. Da quel momento in poi giocherà solo altre 2 partite in Premier League in cinque anni, intervallate da prestiti al Rotheram United, Wolverhampton e Getafe, in Liga.
EFE/Mariscal
Qual era, in fondo, il problema di Emiliano Martínez? La mancanza di ambizione? O forse non era poi così dotato? Cosa lo spingeva a restare, con dedizione centripeta, a Londra? E cosa, invece, in una spinta centrifuga, ad allontanarsi per cercare l’affermazione? Nel 2019 è al Reading. «Ho avuto questa sensazione di essere io il numero uno», dice oggi: «ecco, volevo provarla anche all’Arsenal», dove non l’aveva mai provata. Certo, a differenza dei suoi predecessori non si era ancora bruciato, era sempre rimasto tranquillo, più o meno focalizzato. La sua occasione, pensava, sarebbe arrivata.
Si allena incessantemente. Anche durante il lockdown del 2020. Racconta che la moglie gli chiedesse chi glielo facesse fare. Lui le rispondeva che il suo momento sarebbe arrivato. In giardino ha una porta dalle dimensioni regolamentari: chiedeva alla moglie di caricare una macchina sparapalloni. E si allenava. Certo, sopportare dieci anni di attesa comporta una tenuta mentale incrollabile. Per questo Emiliano ha scelto di farsi aiutare.
«Quando ero al Getafe non giocavo. Avevo perso l’amore per il calcio, non mi sentivo più me stesso. Allora mi sono preoccupato, e ho iniziato a farmi seguire da uno psicologo». «Il fatto è che quando sei giovani pensi che non ti serva. Sei giovane, ti mangeresti il mondo. Qualcuno ha l’opportunità di farlo, qualcun altro no. A me è capitato tardi».
Quando nel 2020 Leno si infortuna gravemente, mancano otto giornate di Premier (e tre partite di FA Cup), e Emiliano ha finalmente la sua occasione: Arteta, di cui è stato anche compagno, lo lancia tra i titolari, più per disperazione che per reale convinzione. A fine stagione l’Arsenal batterà a Wembley il Chelsea in finale di FA Cup: sarà il primo trofeo vinto da protagonista, fatto che gli scatenerà una gioia quasi liberatoria, che in qualche modo gli riconsegna autostima, fiducia in se stesso.
Stuart MacFarlane/Arsenal FC via Getty Images
Durante l’estate arriva l’offerta dell’Aston Villa. Come ci si allontana da un posto in cui, seppur ai margini, sei rimasto attaccato per un intero decennio? Emiliano ha il dubbio che la stagione successiva potrebbe essere quella della sua consacrazione, anche se rimanesse ai Gunners. Ma decide di sposare il progetto dei Villans, che lo pagano 21 milioni di euro, il prezzo più alto mai pagato per un portiere argentino. Lui ripaga la fiducia conservando la rete inviolata per 15 volte, entrando nel cuore dei tifosi.
Se non finissi per diventare troppo melenso, o per sfociare nella banalità, direi quasi che Emiliano Martínez rappresenta, in maniera fin troppo didascalica, l’epitome del giocatore massimamente convinto in se stesso, che affronta con abnegazione ogni porta sbarrata, ogni ostacolo, ogni impresa à la Sisifo certo di giungere, infine, all’autorealizzazione - che è anche, in qualche modo, un moto di rivalsa verso chi gliel’ha privata per così a lungo. Ma sarebbe ingeneroso e semplicistico: la verità - che Emiliano conosce bene - è che pronti, in fondo, non si è davvero mai. Ci si può far trovare preparati, certo: ma pronti, pronti è impossibile esserlo, prevedere quando esserlo.
Quindici giorni prima dell’inizio della Copa América, Franco Armani è risultato positivo al Covid-19. E quando Scaloni si è guardato intorno, con l’aria che deve aver avuto Bilardo nel ‘90 quando Pumpido si è infortunato, ha scelto di puntare tutto su Emiliano Martínez, una specie di nuovo Goycoechea. Gli esiti erano imprevedibili: è andata bene, ma in fin dei conti c’era da aspettarselo? Forse sì, perché Emiliano Martínez sarebbe stato un personaggio perfetto per Orazio Walpole: un moderno principe di Serendippe, che senza mai cercare davvero il centro dell’Universo, pensa te, ha finito per trovarcisi.