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Avere fede in Enzo Fernandez
13 dic 2022
Partito indietro nelle gerarchie, è diventato centrale nell'Argentina.
(articolo)
10 min
(copertina)
Foto di Tom Weller / dpa
(copertina) Foto di Tom Weller / dpa
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.

Il secondo tempo supplementare di Argentina - Olanda, quarti di finale della Coppa del Mondo, è finito da venti secondi. Lionel Messi appoggia il pallone a Enzo Fernández, al limite dell’area. Pochi minuti prima, al termine di un’azione fotocopia, il sinistro di Enzo si era alzato dopo aver sfiorato un avversario, disegnando una parabola che solo per poco non aveva ingannato Noppert. Ora Enzo decide di riprovarci, ma con il destro: si aggiusta il pallone e scocca il tiro. Sarebbe potuto essere decisivo. Il palo strangola un urlo in gola: l’accesso alle semifinali si deciderà ai rigori.

Sul collo ha tatuate le iniziali FE: le sue iniziali, ma anche la parola fede, che lui riesce a trasmettere attorno.

Enzo Fernández da Ciudad del Libertador General don José de San Martín, Gran Buenos Aires, non è un sorpresa assoluta, intendiamoci, neppure per chi non è proprio impallinato di calcio sudamericano: nell’ultimo trimestre, con il Benfica, si è messo in mostra come uno dei giovani più interessanti d’Europa. Ma su questo Mondiale, insieme a tutta una serie di poco-più-che-teenagers come Bellingham, Pedri, Kudus e Musiala, Enzo è calato come una palla demolitrice. Questo perché la mattonella in cui si svolge il suo raggio d’azione, quando è in campo un giocatore come Enzo, si trasforma rapidamente in una stanza piena di gente, in cui convivono il centrocampista capace di fraseggiare nello stretto, quello imbattibile nel recupero del pallone, quello con il talento della balistica, quello con la visione delle linee di passaggio più efficaci, capaci di spezzare le linee avversarie. E poi: quello che segna.

In Enzo convivono poesia e pragmatica, talento ed efficacia: solido e visionario, Enzo Fernández è el Flaco Spinetta del centrocampo argentino.

Di cosa parlo, quando parlo di fiducia monstre nei propri mezzi, di capacità di trasmettere fede? Di una giocata tipo questa, contro l’Australia, in cui l’Argentina sta attaccando, e lui si catapulta su una seconda palla incuneandosi tra la linea di difesa e la linea di centrocampo prima che possa innescarsi un contropiede.

Fionda come l’aquila che troneggia nell’etichetta del Fernet Branca, quindi, e arpiona il pallone; poi sente l’avversario pressarlo. Per imprimere un nuovo ritmo alla giocata, allora, fa una specie di incantesimo, toccando il pallone che gli è rimasto leggermente indietro con il tacco destro e poi di nuovo con il tacco sinistro. L’avversario, totalmente mesmerizzato, va fuori giri. Ed Enzo, con tutta la calma del mondo, toccando verso Julián Álvarez con il sinistro, può dare nuova linfa all’azione offensiva.

Di cosa parlo, se ancora non si fosse capito, quando parlo di fiducia nei propri mezzi? Della maniera in cui accarezza il pallone con la suola, della personalità con cui interpreta il ruolo di cinco contro l’Olanda. Del coraggio che, a ventuno anni, mostra di avere prendendosi la responsabilità di tirare il quarto rigore. Potrebbe essere decisivo per la vittoria: lo sbaglia, prolungando l’agonia. Rischiando di bruciare quanto di buono aveva fatto fino a quel momento. Mettendo a repentaglio la percezione del suo Mondiale.

Durante l’esecuzione dell’inno, prima della gara degli ottavi contro l’Australia, mentre passava in rassegna l’undici dell’Albiceleste la telecamera ha inquadrato Enzo nell’esatto momento in cui si giurava, con gloria, di morir: gli occhi due fessure insondabili – non spiritati, non iniettati di sangue, ma non per questo meno minacciosi –, la bocca serrata; e poi un movimento del collo, quello che fanno i pugili prima che suoni il gong o il più loco del baretto quando la discussione sta prendendo una piega che non gli piace e che ti sconsiglierebbe di continuare.

Quella con l’Australia non era che la sua settima (avete letto bene, settima) presenza con l’Argentina: dei 114 passaggi tentati ne ha sbagliati appena 22, con un tasso di conversione del 93%, il migliore dei ventidue in campo. Ha recuperato nove volte il pallone dai piedi avversari, vinto tutti i duelli in cui si è trovato coinvolto (5), dominatoin maniera incontrovertibile il centrocampo: è stato il gaucho solitario che ha tenuto a bada per l’intera partita un’estancia di svariati ettari.

Contro l’Olanda ha iniziato la partita giocando come vertice basso del centrocampo. Ha interpretato la gara in maniera didascalica, senza sbagliare un passaggio. Quando l’ingresso di Paredes ha fatto sì che tornasse nella sua posizione naturale, quella di mezzala, ha impresso al ritmo della gara i suoi iconici strappi. Nel mezzo tra i due tiri nel secondo tempo supplementare c’è stata un’incursione, un cambio di passo che l’ha portato all’interno dell’area: il passaggio a rimorchio su Lautaro non si è concretizzato per un nonnulla.

Che il centrocampo argentino, in limine al Mondiale, patisse qualche problema non era un segreto: l’assenza di Lo Celso aveva privato l’Argentina esattamente di quel tipo di calciatore che è una stanza piena di gente. E le prime due partite, diciamo una e mezza, hanno evidenziato ancor di più il problema, in quella maniera in cui le soluzioni adottate finiscono per rivelarsi più disastrose dei problemi che si propongono di risolvere.

L’utilizzo di un 4-4-2 con due pivotes (con il Papu Gómez largo a sinistra e De Paul all’estremo opposto, e Paredes e MacAllister centrali), o del 3-5-2 (con Guido Rodríguez bassissimo a fare praticamente il terzo centrale) non erano in fin dei conti opzioni scartabili a priori: e in effetti, Scaloni le avrebbe riproposte anche nelle uscite vittoriose con Polonia e Australia. Forse, a non essere azzeccati, erano semplicemente gli interpreti. Mancava, insomma, Enzo Fernández.

Quando ho scritto la guida al Gruppo C, ho identificato in Enzo il giovane da seguire, sottolineando però, allo stesso tempo, come Lionel Scaloni fosse poco tipo da lanciarsi in esperimenti.

Dopotutto l’esordio di Enzo in Albiceleste risaliva appena a Settembre, quando Scaloni lo aveva utilizzato sia contro Honduras che contro la Jamaica per un’oretta complessiva: Enzo aveva collezionato quasi un en plein nella ratio dei passaggi tentati, e lo stesso Messi lo aveva incensato definendolo giocatore con personalità, dai piedi buoni e intelligente. Una summa massimamente puntuale delle caratteristiche di Enzo, il cui utilizzo, ad ogni modo, appariva ancora prematuro. Il fracaso al debutto contro l'Arabia Saudita ha reso gli esperimenti non solo auspicabili ma necessari.

L’ingresso di Enzo con il Messico è stata la conferma all’assunto che non sono tanto le stelle a determinare il valore di una squadra, ma la squadra a far emergere le stelle: la Scaloneta non poteva essere diventata un camioncino sgangherato che procedeva in bilico su una strada sterrata della Cordigliera così, all’improvviso. Serviva un carburante diverso per far muovere il pallone, per creare gli spazi in cui farlo circolare. Serviva, insomma, Enzo Fernández. Che per tutti si è appalesato in questo esatto momento, contro il Messico, in cui ha disegnato un arcobaleno capace di sorvolare il complesso di Chichen Itza.

Ma che a pensarci bene si è materializzato ben prima, proprio nel momento in cui Enzo ha fatto il suo ingresso, posizionandosi come vertice basso del terzetto di centrocampo, dando allo squadra mobilità, fluidità, tonicità. Lo squarcio alla partita è arrivato con il sinistro dal limite di Messi, innescato da Di Maria. Ma a smistare il pallone verso Di Maria chi era stato, se non Enzo?

Con il gol contro El Tri, peraltro, Enzo è diventato il più giovane calciatore nella storia dell’Albiceleste a segnare a un Mondiale. Ovviamente, il primato spettava al Messi del 2006.

In un torneo dallo stretto respiro, in cui non ha senso tenere fuori squadra chi è massimamente focalizzato, e ancor di più in un torneo condotto come lo conduce l’Argentina, con la mistica a svolgere un ruolo per nulla marginale, l’innesto di Enzo si è presto trasformato in assunto ineludibile. Contro la Polonia è diventato non solo il più giovane nella storia dell’Albiceleste a partire da titolare, ma anche il più giovane a servire un assist.

Anche in queste particolari categorie, il primato precedente apparteneva a Lionel Messi. E in questi casi, chi viene scalzato è tanto importante quanto in cosa. Enzo ha personalità, sa motivare i compagni (ci riusciva anche da ragazzino) ed è polifunzionale, ma soprattutto a questo Mondiale è arrivato pronto.

Il padre ha dichiarato a una radio argentina che «la verità è che non pensavo andasse al Mondiale. Io dico sempre che è un calciatore del futuro». Il signor Raúl, forse non volendo, ci regala la migliore definizione del figlio. E questa sua futuribilità è ovviamente intrinseca alle sue caratteristiche, sia dentro al campo – dove sa disimpegnarsi da pivote, da mezzala, addirittura da enganche – che fuori: umile, maturo, capace di accettare un trasferimento (dal River al Defensa y Justicia, appena due anni fa) non come un downgrade, ma come la possibilità di migliorarsi. Alla corte di Beccacece è cresciuto («ho imparato a pensare più rapidamente, a non tenere il pallone sempre tra i piedi»), ha addirittura vinto (una Copa Sudamericana e una Recopa): poi è tornato al River Plate, dove ad affinarlo ci ha pensato Napoleón Gallardo, e quando realizzeremo il bene che Gallardo ha fatto al calcio argentino in toto, non solo al versante millonario, sarà sempre troppo tardi.

Gallardo lo ha trasformato nel tipo di calciatore che oggi conosciamo, e che in ogni caso portava già in sé i crismi di un talento senza il quale reti come questa, per esempio, non le segni.

È stato coraggioso, Enzo, quel tipo di coraggio che non distingui dall’incoscienza: ha accettato di trasferirsi in Europa passando da una porta di servizio, ma pur sempre uno stargate, cioè attraverso quel Benfica che ha lanciato in Europa Di Maria, Aimar, Otamendi. Si è messo al servizio di Roger Schmidt, che lo ha schierato – controintuitivamente alle sue caratteristiche da mezzala – in un centrocampo a due: si è dovuto barcamenare per imparare i movimenti richiesti nella fase difensiva. E così si è forgiato Enzo, fino a raggiungere una maturità capace di rivelarsi estremamente funzionale alle necessità di Scaloni.

La maniera in cui difende il pallone non solo mantenendo la posizione, facendo girare i compagni al suo lato, ma anche semplicemente e banalmente toccando la sfera di prima, assumendosi l’iniziativa della costruzione, abbassandosi, gli conferisce la saggia sicumera dell’asador designato a prendersi cura della parrilla, a mantenere il fuoco vivo e allo stesso tempo a scegliere i tagli migliori da mettere sulla griglia.

Il divertimento è centrale, nella scala di valori calcistici di Enzo Fernández. Nella maniera in cui partecipa all’azione, con cui combina con Julián – cresciuto nello stesso brodo cosmico alla corte di Gallardo – e con Messi, l’idolo dell’intera generazione di calciatori che lo scorta in questo Mondiale, sprizza gioia.

Nel 2016, in limine all’addio alla Selección di Lionel Messi, Enzo ha scritto una lettera aperta, pubblicata sul suo Facebook, sincera ed emozionale come sanno essere sincere ed emozionali le lettera aperte scritte dai quindicenni. Una lettera che si chiudeva con queste parole: «Gioca per divertirti, che quando ti diverti tu non hai idea di quanto ci divertiamo noi». Dopo la rete contro il Messico, mentre baciava lo stemma della Selección, Messi ha incrociato la sua corsa: gli è saltato in collo, abbracciandolo.

Dopo l’errore dal dischetto contro l’Olanda, mentre tornava mestamente verso il centrocampo, Enzo ha visto Messi farglisi incontro: aveva rotto le righe, era uscito dal gruppo, avanzava – da vero capitano, e forse qualcosa di più – per consolarlo. Negli occhi di entrambi, in due momenti così totalmente antitetici, nondimeno brillava una scintilla che non era complicato riconoscere: la scintilla della felicità, la scintilla della fede.

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