Il 2016 della Nazionale femminile americana ruota tutto intorno alla disfatta di Rio, a quello che sarebbe potuto essere e a quello che invece non è stato, perché alle ragazze di Jill Ellis veniva chiesto di diventare la prima squadra al mondo a vincere, nell’arco di un anno, sia la Coppa del Mondo che l’oro olimpico. Ma non ci sono riuscite.
La disfatta di Rio ha in qualche modo significato salutare, una volta per tutte, quella magnifica squadra festeggiata in tutti gli Stati Uniti e riconosciuta come la selezione più forte di sempre nel calcio femminile dopo aver stravinto il Mondiale in Canada. Anche a mesi di distanza, la sorprendente uscita ai quarti di finale in Brasile rimane per le giocatrici una ferita aperta: per molte sono state le ultime Olimpiadi da poter giocare. A noi che osserviamo da qui, invece, quello che è successo quest’estate permette di analizzare la strategia di rinnovamento di una nazionale che, dopo una generazione di fenomeni, è all’alba di un nuovo ciclo forzato.
Anche senza Rio, il 2016 della USWNT (US Women’s National Team) sarebbe stato ricco di spunti interessanti in ogni caso: ci sono stati riconoscimenti internazionali, addii dolorosi (il tentativo di trovare una nuova Abby Wambach è finto con la realizzazione che una come lei sarà probabilmente insostituibile), il passaggio dalla difesa a quattro a quella a “tre e mezzo”, un sacco di facce nuove entrate nel gruppo in punta di piedi ma già integrate nei meccanismi tattici.
Ci sono state anche le aspre critiche da parte di tifosi, stampa e persino di alcune compagne, a Morgan Rapinoe, che ha deciso di inginocchiarsi durante l’inno americano per sostenere la causa di Colin Kaepernick. Infine c’è stata la battaglia dell’Equal Play Equal Pay, con la quale le calciatrici rivendicano il diritto di essere pagate tanto quanto i calciatori.
Equal Play Equal Pay
La questione dietro la battaglia della USWTN per una paga migliore può essere riassunta così: se sono la Nazionale migliore al mondo, e negli Usa hanno un seguito che doppia quello della Nazionale maschile, perché vengono pagate così poco?
Durante tutto l’anno la squadra ha rilasciato interviste cercando di raccontare al mondo la situazione di disagio vissuta con la propria Federazione; fino all’ultima amichevole del 2016, Usa-Romania del Novembre scorso, rischia di essere per un po’ anche l’ultima partita giocata da questa Nazionale, perché se non si dovesse arrivare a un accordo, c’è il serio rischio che il 2017 si possa aprire con uno sciopero generale delle calciatrici.
Le ragazze che giocano nella NWSL - il campionato femminile americano - e che contemporaneamente fanno parte del gruppo della nazionale maggiore ricevono uno stipendio che va dai 36.000 ai 72.000 dollari l’anno, esclusi i premi vittoria e gli sponsor. Cifre bassissime se confrontate con quelle della MLS e soprattutto con gli stipendi della nazionale maschile. Lo slogan Equal Play, Equal Pay nasce nel 2014 quando Hope Solo (l’iconico portiere titolare della Nazionale) convince le compagne di squadra ad assumere un avvocato, Rich Nichols, per cercare di strappare un contratto migliore alla Federazione.
Per capire meglio la frustrazione delle ragazze basta raccontare quanto hanno guadagnato Hope Solo e Tim Howard, i due portieri titolari delle selezioni femminile e maschile, nel 2015: Solo ha giocato con la sua nazionale 23 partite guadagnando in totale 36000mila dollari, mentre Tim Howard ne ha giocate solo 8 sfiorando i 400000 dollari. Se le calciatrici vincono una partita guadagnano 1.350 dollari, se invece sono i calciatori a vincerla si mettono in tasca 17.625 dollari ciascuno.
Così, le ragazze chiedono di essere pagate come i colleghi: 5000 dollari a partita, 8000 se pareggiano e 17.625 se vincono, e vorrebbero anche viaggiare in prima classe, perché invece a loro spetta solo l’economica. Attualmente la nazionale maschile è ventottesima nel ranking Fifa, mentre quella femminile è prima (anche dopo l'uscita ai quarti di finale in Brasile) ma ciò che probabilmente fotografa meglio il differente peso specifico delle due squadre è un altro dato: durante le amichevoli del 2016 gli spettatori della nazionale maschile sono stati 45mila in totale, con una media di 9mila a match, mentre quelli presenti sugli spalti nelle partite delle ragazze sono stati 237mila, con una media di 18mila.
Quindi, da una parte abbiamo una nazionale che ha un seguito minimo e ottiene risultati mediocri (che in parte hanno portato all’allontanamento del ct Klinsmann), mentre dall’altra ne abbiamo una che richiama tifosi da ogni angolo d’America e i cui membri sono diventati dei veri e propri modelli di riferimento per le migliaia di ragazzine che decidono di iniziare a calciare un pallone, non solo negli Stati Uniti.
Nell’ultima intervista rilasciata alla CBS, Carli Lloyd, il capitano di questa squadra, è stata chiara: “Tutto quello per cui stiamo combattendo non avrà un impatto solo sulla nostra squadra e sulle generazioni future ma lo avrà anche a livello globale”. Le ragazze della Nazionale femminile americana non stanno combattendo solo per se stesse, quindi, ma anche per migliorare un movimento che, seppur lentamente, sta prendendo sempre più piede in tutto il mondo. Il 2017, probabilmente, ci dirà se questa battaglia di civiltà verrà vinta.
Il 2016 di Carli Lloyd
L’anno solare si è aperto con Carli Lloyd che ritira il FIFA Women’s Player of the Year a Zurigo insieme a Messi. Carli è una centrocampista sfrontata, che ama giocare a ridosso dell’area di rigore e dotata di una bella “castagna”, cioè di un tiro potente. Lloyd non è molto elegante nei movimenti, non ha la leggerezza e la classe della compagna di reparto Tobin Heat. Ma Lloyd è una giocatrice creativa con una grande qualità di visione di gioco nella trequarti avversaria, un controllo di palla e una rabbia che sintetizzano un po’ l’interpretazione del calcio di un gruppo solido, compatto e piacevole da seguire che si appresta a giocare l’Olimpiade.
Heath che manda al bar 3 giocatrici della Romania.
A gennaio è diventata capitano dopo l’addio di Abby Wambach - l’attaccante con il record storico di gol segnati con la propria nazionale, sia maschile che femminile (186 in totale). Saputa la notizia che Carli sarebbe diventata capitano, a molti sono subito tornate in mente le parole di Pia Sundhage, ex ct della USWNT, che con la centrocampista probabilmente non ha mai avuto un grande rapporto: “Carli è stata difficile da allenare. Quando sentiva la fiducia di tutti, poteva diventare una delle migliori giocatrici al mondo. Ma se iniziava a dubitare di quella fiducia poteva diventare una delle peggiori”. D’altra parte, Sundhage non è stata l’unica a rimproverare Lloyd per non riuscire ad essere un punto di riferimento costante per la squadra, una leader sia sotto il profilo della personalità che delle prestazioni, spesso altalenanti.
Carli è anche una delle poche giocatrici della Nazionale ad aver costruito un rapporto solido con il portiere Hope Solo, apparsa sempre un po’ lontana dal resto del gruppo a causa di alcune sue esternazioni negli anni contro media, federazione e persino alcune compagne. Per questo in molti si chiedevano come fosse possibile per la squadra farsi trascinare da un capitano che ha spesso preso le parti di Solo.
Il 2016 ha invece confermato che Carli è un leader silenzioso ma tremendamente carismatico, che ha preso per mano la squadra sul campo durante il Mondiale del 2015 e che a 34 anni ha raggiunto la sua piena maturità, riuscendo a diventare un punto di riferimento per tutte, soprattutto per le debuttanti. Da gennaio a luglio ha segnato ben 9 gol, di cui 4 fondamentali per la qualificazione alle Olimpiadi. In totale, a fine 2016, è arrivata a segnare 96 gol in carriera in 232 partite giocate, e parliamo di una centrocampista.
Facce nuove
Che il 2016 potesse essere un anno di svolta per la USWNT si era capito già dalle prime convocazioni di Jill Ellis, la ct inglese che ha guidato questa nazionale alla vittoria del Mondiale in Canada lo scorso anno, che ha inserito nel gruppo nuove giocatrici, alcune delle quali giovani. L’obiettivo non era solo quello di sostituire giocatrici come Wambach, che aveva nel frattempo salutato il calcio giocato, o come Sydney Leroux, che aveva deciso di prendersi un anno sabbatico per mettere su famiglia, ma sceglierne delle altre in grado di interpretare al meglio il nuovo stile di gioco che Ellis ha scelto di utilizzare durante tutto l’anno: possesso palla più solido e una mentalità che potesse puntare di più sul collettivo piuttosto che sulle individualità, nonostante la somma di quei talenti individuali fosse la ricetta per i risultati stratosferici raggiunti negli ultimi anni.
I due simboli di questo cambio di rotta sono rappresentati dalla convocazione dell’esterno offensivo Crystal Dunn e della diciottenne Mallory Pugh. La prima ha letteralmente spiccato il volo a cavallo tra il 2015 e il 2016 vincendo anche il Golden Boot CONCACAF per le qualificazioni alle Olimpiadi di Rio con 6 reti. Dunn è una giocatrice duttile, che sa ricoprire in maniera eccellente più ruoli: dall’esterno d’attacco, alla mezzala fino al terzino.
Il suo percorso di crescita calcistica è però inverso. Viene utilizzata inizialmente da Tom Sermanni, il ct che la convoca per la prima volta nella nazionale maggiore nel 2013, come terzino sinistro. Questo perché Crystal ha corsa e fisico, ha una buona tecnica sia di destro che di sinistro, punta l’avversario e sa crossare. Quando però viene spostata in attacco nella sua squadra di NWSL, le Washington Spirit, tutti si accorgono che ha a disposizione un’esplosività nelle gambe e una rapidità di pensiero pressoché unici, che le permettono di prendere in contropiede i difensori avversari, sviluppando partita dopo partita anche una notevole qualità in fase di finalizzazione.
Non è una prima punta classica, perché tende a muoversi molto sul campo e ad allargarsi puntando e saltando gli avversari, ma sa cosa deve fare col pallone appena sente di avere il portiere avversario a pochi metri di distanza. Nel 2015 viene eletta MVP della stagione con 15 gol segnati, e quest’anno solo con la nazionale è arrivata a 14 ricoprendo il ruolo di esterno d’attacco sia nel 4-2-3-1 che nel 3-4-3 utilizzato dopo Rio.
Pugh è invece un’ala offensiva molto veloce e tecnica – in prospettiva la migliore al mondo secondo alcuni - che già nelle prime partite del 2016 è sembrata a proprio agio con compagne più grandi di lei, e già questo di per sé è strabiliante visto che con alcune compagne ci sono più di dieci anni di differenza. La sua giocata più classica è una corsa sulla sinistra con sovrapposizione e cross rasoterra alla ricerca della punta, di una centrocampista a rimorchio o dell’ala opposta che taglia verso il centro; sa anche inserirsi con grande intelligenza diventando a volte il terminale della squadra, soprattutto quando gioca con l’Under 20.
Ci sono molte giovani calciatrici in giro per il mondo veloci o tecniche come lei, con una grande visione di gioco e il timing giusto nell’inserimento senza palla, ma non molte sembrano per ora avere tutte queste caratteristiche contemporaneamente: proprio per questo Pugh è diventata la seconda più giovane giocatrice americana a prendere parte alle Olimpiadi. Addirittura, nell’agosto scorso il New Yorker le ha dedicato un approfondimento, a pochi giorni dall’inizio di Rio. E questo anche per ribadire quanto sia seguito e amato il calcio femminile negli Stati Uniti.
La partita che cambia tutto
In questo pezzo, Jacopo Piotto spiega perfettamente quali sono state le cause che hanno impedito alle americane di raggiungere la finale di Rio. La più allarmante tra queste è sicuramente stata quella di non aver avuto un piano B nella situazione di maggiore difficoltà, contro la Svezia nei quarti di finale.
Le svedesi non hanno fatto altro che aspettare le avversarie con pazienza e diligenza tattica, nella consapevolezza di essere inferiori, cercando di trascinare il match ai calci di rigore. Le americane si sono fatte prendere dal nervosismo e dalla frustrazione senza riuscire nel proprio gioco: il piano svedese è riuscito alla perfezione e gli errori delle americane dal dischetto hanno permesso alla Svezia di proseguire il cammino. Le ragazze di Ellis si sono risvegliate improvvisamente vulnerabili, dopo una specie di incantesimo che durava ormai da più di un anno.
A complicare le cose, Hope Solo con le sue dichiarazioni post match, in cui ha dato delle codarde alle avversarie per il modo in cui avevano deciso di affrontare la partita. La federazione ha preso una decisione netta: Hope Solo è stata allontanata dalla Nazionale, ufficialmente per sei mesi ma alcuni pensano che la separazione possa durare anche di più. Le conseguenze potrebbero essere catastrofiche da tanti punti di vista: non solo la nazionale perde uno dei suoi simboli, ma allontanarla significa anche scagliare un duro colpo proprio contro la battaglia dell’Equal Play, Equal Pay visto che Solo ne è l’ideatrice e il volto più famoso.
Probabilmente, la ct Ellis aveva già pensato di mettere mano al roster dopo Rio nella speranza di rinfrescare la rosa, ma l’allontanamento ufficiale di Solo ha accelerato di molto il cambio di guardia. Dopo le Olimpiadi, Ellis ha scelto di lasciare a casa a tempo determinato altre stelle: l’attaccante Alex Morgan, il terzino Ali Krieger, l’esterno Morgan Rapinoe, comunicando inoltre a una colonna della squadra come Heather O’Reilly che a 31 anni non avrebbe più fatto parte del gruppo, così come Witney Engen (difensore di secondo piano che però aveva partecipato alla spedizione al Mondiale 2015 vinto in Canada).
Probabilmente i commentatori americani non sono ancora abituati ad avere un occhio attento alla tattica e la scelta di Ellis di orientarsi verso la difesa a tre - seguendo lo zeitgeist, potremmo dire - venne inizialmente letta come la ricerca della soluzione più veloce tra quelle disponibili per ripartire da zero con molte giocatrici diverse; anziché una scelta ponderata sulla base dei problemi emersi a Rio.
La nuova USWNT
Complice probabilmente l’assenza di Abby Wambach, gli Stati Uniti hanno fatto fatica ad attaccare il bunker svedese, hanno cercato di arrivare con il gioco davanti alla porta delle svedesi ma sono spesso state fermate perché prevedibili. Così, Ellis ha optato per una difesa a tre alta e aggressiva, anche se ancora un po’ squilibrata perché costruita intorno ad una centrocampista adattata in difesa - Allie Long: appena premiata come migliore centrocampista del campionato NWSL 2016, dopo aver segnato 6 gol e servito 2 assist nel torneo con le Portland Timbers. La scelta di arretrare Long fa capire quanta voglia ci sia in Ellis di comandare il gioco fin dai primi metri del campo e quanto sia importante avere un difensore con i piedi da centrocampista.
Long con le Portland Timbers, un numero 10 diventato improvvisamente difensore centrale.
Nel 3-4-3 di Ellis il centrocampo ha esterni altissimi e larghi, che quando si tratta di costruire il gioco spesso si ritrovano ancora più avanzati dei 3 attaccanti, i quali invece accorciano sui centrocampisti centrali per permettere l’appoggio e lo scarico in velocità. Gli esterni pressano in maniera asfissiante l’avversario nella sua trequarti quando invece la squadra è alla ricerca del pallone e in situazione d’emergenza, o semplicemente quando l’avversario è riuscito a superare la linea del pressing, uno dei due è chiamato a sacrificarsi rientrando sulla linea dei difensori (un movimento che, a dir la verità, ancora non avviene in maniera del tutto fluida).
Nelle ultime quattro amichevoli del 2016 contro Romania e Svizzera le americane hanno sempre vinto, ma non tutto è andato come Ellis sperava. Ellie Long, infatti, non ha ancora digerito i movimenti da difensore centrale, e anche laterali di difesa come Kelley O’Hara e Ali Krieger, in origine terzini da difesa a 4, hanno dimostrato di saper spingere molto bene ma devono imparare a tenere la nuova posizione. Anche a centrocampo le scelte spregiudicate sono costate qualcosa, sono state utilizzate come esterni di centrocampo due giocatrici votate molto all’attacco e poco al rientro:Tobin Heat (forse un po’ sprecata in questo ruolo) e la giovane Kealia Ohai (che nasce come vera e propria punta).
Ellis, comunque, sembra voler risolvere i problemi in transizione negativa attraverso un pressing intenso e compatto, quello che è mancato completamente a Rio contro le squadre che puntavano tutto sullo spazio. Quando viene chiesto ad Ellis perché abbia pensato di cambiare così profondamente il piano tattico lei risponde netta e decisa: “Forse dovreste guardare Guardiola o il Chelsea, si tratta di mode. La difesa a tre ti permette di avere un uomo in più in un’altra zona del campo, è matematica”.
La Nazionale americana si ritroverà all’inizio del 2017 per preparare il torneo She Believes, un quadrangolare ad inviti organizzato negli Stati Uniti, al quale lo scorso anno parteciparono grandi squadre come Germania, Francia e Inghilterra (a meno, come detto, di gravi contrattempi nel rinnovo del contratto economico tra giocatrici e federazione).
Probabilmente contro avversarie di questo calibro, che amano comandare il gioco tanto quando le americane, Ellis tornerà ad utilizzare il 4-2-3-1, perché è per ora il sistema con cui le giocatrici si sentono più a loro agio. Ma anche se non nell’immediato, qualcosa dopo Rio sicuramente cambierà, e vedere una Nazionale femminile che riesce a trasformarsi così tanto in pochi mesi, con idee chiare e lucidità, fa sicuramente bene a tutto il movimento.
Se Ellis riuscirà nel 2017 a mescolare le nuove giocatrici con le veterane, e le vecchie idee che hanno reso fortissima questa squadra con gli ultimi input tattici del calcio europeo, avrà comunque scritto un’altra pagina fondamentale di questa nazionale, al di là dei risultati. E la disfatta di Rio non sarà più quella ferita dolorosa e così difficile da rimarginare che sembrava essere a caldo, ma verrà ricordata come l’inizio di una nuova piccola rivoluzione.