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I migliori ingressi di Eriksen negli ultimi minuti
10 dic 2020
Un'esperienza che racconta le contraddizioni del nostro calcio.
(articolo)
16 min
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L’Inter ha presentato Christian Eriksen al Teatro alla Scala di Milano. Gli ha fatto indossare l’abito elegante, gli ha rifinito la barba al centimetro e gli ha fatto percorrere il corridoio nella platea. Sguardo in camera, una sistemata ai polsini della camicia: era pronto ad andare in scena da direttore d’orchestra della squadra di Conte. Si sarebbe messo al centro del campo, a comandare una squadra di corazzieri e corridori con calma ed eleganza. Sembrava tutto quello che mancava all’Inter: una connessione di qualità tra centrocampo e attacco, una persona che poteva mettere Lukaku davanti alla porta a occhi chiusi.

Non era neanche un anno fa. Eriksen aveva 27 anni: pochi per qualunque calciatore, figuriamoci per uno che al gioco fisico ha sempre preferito la tecnica e l’intelligenza. Non aveva nulla da dimostrare: 51 gol e 62 assist in 226 presenze in Premier League, diciannovesimo di sempre nella storia del campionato.

Pochi mesi prima era chiuso in una stanza con Mourinho e Daniel Levy, il presidente del Tottenham, per cercare una soluzione. Il suo contratto era in scadenza, non voleva rinnovare e cercava una nuova squadra. L’Inter gli sembrava un’ottima soluzione. A Londra giocava poco e sempre partendo dalla panchina; di certo non poteva immaginare che in Italia sarebbe andato incontro allo stesso destino, persino peggiore. Nei primi mesi della scorsa stagione al Tottenham, i peggiori per lui, aveva giocato 1387 minuti, all’Inter - fra quest’anno e lo scorso - si ferma a 1253. Ha iniziato titolare 14 volte, mentre è partito dalla panchina 19 volte. Negli ultimi tempi il suo minutaggio, invece che aumentare, si è ridotto sempre di più. Sommando il tempo giocato con i suoi ingressi dalla panchina quest’anno si arriva a circa 50 minuti, poco più di un tempo quindi. In rosa solo tre giocatori hanno giocato meno di lui, e si fatica ancora a definirli giocatori dell’Inter: Stefano Sensi, con tutti i suoi problemi fisici; Andrea Pinamonti e Radja Nainggolan, la versione “evil” di Eriksen, che ormai pare rassegnato al suo destino e ha iniziato a far finta di allenarsi.

Durante questa polvere di tempo a Eriksen toccava il compito di convincere il suo nemico, Antonio Conte, che poteva essere utile alla causa. Davanti allo schermo i tifosi dell’Inter sono di fronte a un difficile esercizio ermeneutico: capire se aveva ragione lui, che chiede di giocare, oppure Conte, che lo tiene in panchina se va bene, o lo mette a pochi secondi dalla fine per mangiargli l’anima se va male. Ecco quindi i migliori ingressi di Eriksen negli ultimi minuti delle partite.

vs Benevento

Minuti giocati: 9.

Palloni toccati: 13.

Eriksen aveva giocato titolare la prima di campionato contro la Fiorentina: 64 minuti poco convincenti. A Sky chiedono a Conte se non ha forse giocato fuori ruolo, lui dice che ha cambiato la squadra per farlo giocare nel suo ruolo: «Abbiamo giocato col 3-4-1-2 per far giocare Eriksen nel suo ruolo», sembra accusarlo. Poi aveva usato bastone e carota: «Eriksen ha aumentato i giri del motore» ma al contempo sperava in una «scintilla che lo accenda definitivamente».

Questa scintilla magari deve arrivare dalla panchina, perché contro il Benevento Eriksen se ne sta lì. Al suo posto c’è Sensi, che gioca 65 minuti, e quando esce comunque entra Brozovic. Tra i cinque cambi usati dal tecnico, Eriksen è quello più tardivo, anche in una partita dall’andamento tranquillo.

Una conduzione solitaria guardandosi intorno con aria spaurita. Un cambio di campo per Hakimi. Tre passaggi di piatto all’indietro; tre passaggi di piatto orizzontali, uno per Brozovic che perde palla e innesca Lapadula (che sbaglia) solo davanti al portiere. Un filtrante di piatto per Sanchez fuori misura.

Poi al novantesimo una mezza illuminazione: una corsa in mezzo ai giocatori stanchi del Benevento, poi un cross partito a caso e colpito male, che finisce per qualche motivo sulla traversa.

Eriksen ha preso la traversa ma senza neanche permettersi di avere rimpianti. Avrebbe potuto segnare in maniera del tutto casuale, e a quel punto quanto sarebbe stato strano?

Dopo la partita la Gazzetta lo stronca, dice che il problema di Eriksen è che gli manca il furore. «Il danese fin qui non ha mai veramente convinto. Nessun dubbio sulle enormi capacità tecniche, ma è il resto che lascia perplessi. La mancanza di strappi, di verve, di aggressione verso il portatore di palla avversario, fa di Eriksen un giocatore marginale all’interno del sistema contiano, fatto di furore e qualità, di pressione alta e costante, di inserimento negli spazi».


vs Milan

Minuti giocati: 23.

Palloni toccati: 13.

Ma il problema di Eriksen non è solo questo, per Conte c’è altro. Qualcosa di più profondo e culturale. Nell’universo di Conte, Inghilterra e Italia sono due mondi opposti: il primo è pacifico, rilassato. Il gioco è veloce e poco tattico; in Italia è teso, folle, e tatticamente pressante. Eriksen è un leone nel primo mondo e un agnellino nel secondo. Ci sono delle cose che non capisce: il suo carattere “buono” e “ingenuo” non gli fa capire la malizia del calcio italiano. A luglio aveva detto che stava migliorando - lo ha detto un numero non ricostruibile di volte - ma che non aveva ancora capito il calcio italiano, il più difficile del mondo™: «Le aspettative sono alte in Italia. Più hai il nome grosso, più le persone si aspettano da te. Ho lavorato in Inghilterra e lì la situazione è più rilassata, pacifica».

Figuriamoci se uno come Eriksen può reggere le pressioni di un derby del Madonnina, quindi va in panchina. Entra al 68’ con l’Inter sotto di un gol: una di quelle situazioni in cui ha la piccola responsabilità di salvare la squadra dalla sconfitta. Deve inventarsi qualcosa, trasformare qualche pallone in oro, è lì per quello.

Entra bene, alla prima azione cuce il gioco sulla trequarti, prima con Lautaro poi con Lukaku. Al 72’ riceve un pallone al limite dell’area, la sua zona, il primo controllo è impreciso, Romagnoli lo contrasta ma il rimpallo manda Lukaku in porta. Prova a saltare Donnarumma, poi cade, l’arbitro fischia il rigore, l’arbitro lo toglie. Avrebbe potuto essere decisivo, almeno indirettamente, ma niente. La sua migliore giocata è difensiva: un recupero su Ibrahimovic lanciato verso la porta in cui si è trovato inspiegabilmente come ultimo uomo. Il tipo di azione che si rimprovera a Eriksen di non saper fare.

Per il resto non succede niente di significativo. Prima di questa partita però c’era stata la pausa nazionali ed Eriksen aveva giocato e segnato. Un gol su rigore, decisivo per la vittoria, contro l’Inghilterra; un altro contro le Isole Far Oer. Si era detto sollevato: «Sono felice di tornare in nazionale, almeno qui gioco». Chissà se per Eriksen le cose, che già andavano male, non hanno cominciato a precipitare proprio da quel momento in cui ha minacciato l’autorità di Conte.


Intermezzo - le partite giocate da titolare

Prima della partita contro il Mönchengldbach, Conte sembra deciso a dare a Eriksen un’altra possibilità: «Eriksen si sta allenando bene, sta cercando di mettersi a disposizione come tutti gli altri. Di partita in partita farò delle scelte, sa che può dare di più e sa che noi ci aspettiamo di più. Nelle situazioni in cui verrà impiegato è importante che dia quella sensazione di miglioramento». In Champions l’Inter ha bisogno di vincere, ma pareggia, Eriksen combina poco e niente. Gioca trequartista nel 3-4-1-2 dell’Inter, ma sin da quando è arrivato non c’è mai stato un vero problema di posizione. Il problema sembra essere più in generale l’identità tattica dell’Inter, una squadra che tende a palleggiare molto in difesa, svuotando il centrocampo e andando diretti in verticale sulle punte. Una squadra che da una parte sembra aver bisogno di connessioni più facili tra difesa e attacco, ma che dall’altra sa essere efficace solo quando aziona subito le combinazioni delle punte. Una squadra che ama attaccare su un campo lungo e in transizione, che consolida poco il possesso, e che ha sempre distanze ampie fra un giocatore e l’altro. Il contesto perfetto per nascondere tutti i pregi di Eriksen ed esaltarne i difetti - la mancanza di dinamismo e di coprire ampie porzioni di campo, la difficoltà a difendere all’indietro.

A dire il vero, non si può nemmeno dire che Eriksen abbia giocato male contro il Mönchengladbach. Non è riuscito a trovare una giocata risolutiva che avrebbe forse risolto i suoi problemi e quelli della squadra, ma ha giocato con intelligenza tutte le palle toccate. Ha avuto anche un paio di lampi notevoli, come il lancio di 50 metri in diagonale verso Darmian, e se ci fosse stato Hakimi forse sarebbe arrivato davanti al portiere. A lui, però, si chiede sempre di più. Dopo la partita domandano di lui a Conte, che impazzisce: «Mi dà fastidio questa cosa di dover parlare sistematicamente di Eriksen e magari non parlare di altri giocatori che magari hanno giocato 10 minuti o sono rimasti in panchina. È dall’anno scorso che mi chiedete solo di Eriksen. Fa parte della rosa, se merita gioca e se non merita non gioca».

Gioca titolare anche con Genoa e Parma, e in quelle occasioni gioca francamente male. Soprattutto col Genoa, che la mette sul piano fisico, non riesce a vincere neanche un duello individuale. Quando esce al suo posto entra Barella, che propizia il gol dell’1-0. Barella è il contrario del danese: esuberante, iper-dinamico, confusionario ma sempre appariscente nel bene o nel male. Eriksen ha quel tipo di talento che se non si ha attenzione ai dettagli - alla qualità del suo gioco di passaggi e alle sue scelte - nelle sue peggiori giornate sembra un uomo senza qualità. Contro il Parma c’è un piccolo episodio che, leggenda vuole, sia diventato il punto di rottura tra Conte ed Eriksen: al 51’, con l’Inter sotto, c’è un calcio d’angolo a favore; Eriksen si avvicina alla bandierina lento lento, Conte si infuria e dopo 5 minuti lo toglie dal campo. Sembra implausibile che un episodio così piccolo possa generare una rottura così grande, ma è anche rappresentativo della loro incompatibilità antropologica.

Quelle due partite in generale, comunque, rappresentano il capo d’accusa che portano i detrattori di Eriksen per dimostrare che non merita di giocare. «È colpa di Conte anche per le partite contro Genoa e Parma?». Lui in quei giorni risponde a un Q&A dei tifosi e alla domanda sul perché non giocasse invita a chiedere a Conte. Non sembra il modo più furbo per entrare nelle sue grazie. Qualcuno inizia a paragonarlo Bergkamp: un grande calciatore incompreso all’Inter, per cui in un pezzo di un po’ di tempo fa Daniele Morrone parlava di un problema di traduzione tra la cultura olandese del calcio e quella italiana. È un paragone che funziona.


vs Shakhtar Donetsk

Minuti giocati: 10.

Palloni giocati: 10.

Un’altra partita decisiva in Champions, un’altra mancata vittoria. Viene fuori uno zero a zero che per alcuni è la peggiore prestazione stagionale dell’Inter (ma è una scelta dura). Fabio Capello su Sky - Capello rispetto a cui qualche anno fa Conte aveva detto: «Quando parla un guru del calcio italiano noi possiamo solo dire “zì padrone”» - aveva accusa il tecnico di aver letto male la partita, mancava Eriksen secondo lui. Il danese entra a 10’ dalla fine, e non riesce ad accelerare i ritmi del palleggio nerazzurro. Quando ha il pallone non si prende grandi responsabilità, ma Eriksen non è quel tipo di giocatore. Non può prendere la palla in una zona qualsiasi del campo e trasformarla in un gol o in un assist. È un giocatore associativo, formidabile nell’ultimo passaggio, ma che ha pur sempre bisogno della squadra per brillare.


vs Real Madrid

Minuti giocati: 4.

Palloni giocati: 3.

L’8 novembre l’Inter affronta l’avversario più intenso e fisico che la Serie A propone: l’Atalanta. Per come vede il calcio Conte, figuriamoci se può ritenere Eriksen adatto a questa partita; si siede in panchina, gioca zero minuti. Quattro giorni dopo dice: «La gente vorrebbe vedermi giocare e anche io vorrei farlo. Ma l'allenatore ha idee diverse e io come giocatore devo rispettarle». Le cose da quel momento iniziano a precipitare. Non solo Eriksen non gioca, ma Conte tenta di svuotarne l’interiorità con una manipolazione psicologica neanche troppo sottile. In sostanza aspetta che la partita arrivi agli ultimi minuti, poi lo lascia scaldare e quando si arriva agli ultimissimi minuti lo lascia entrare. Lascia che le telecamere inquadrino il suo viso, che i telecronisti si trovino costretti a commentare quel momento con imbarazzo. Solo ai giovani della Primavera tocca di entrare nei minuti di recupero, per un giocatore del suo spessore invece equivale alla pratica del pubblico ludibrio.

Contro il Real Madrid l’Inter è sotto due a zero e ha un uomo in meno, Eriksen entra negli ultimi minuti di partita, corre da un avversario all’altro mentre il Madrid banchetta con i resti dell’Inter. Lui corrichia, di sicuro qualche tifoso dell’Inter lo trova snervante, di sicuro Conte lo trova snervante e magari non vorrebbe vederlo davanti ai suoi occhi durante gli allenamenti. Eriksen col fisico “normale”, che prende il calcio come un esercizio di intelligenza, un professorino insopportabile. Anche quando parla bene di lui, Conte non riesce proprio a non infilare almeno qualcosa di velenoso, come quando in estate ha detto: «È un bravissimo ragazzo, non presuntuoso, è umile, non puoi non volergli bene... ma deve sciogliersi, questa timidezza va eliminata e deve sbloccarsi».


vs Sassuolo

Minuti giocati: 5.

Palloni toccati: 4.

Eriksen entra all’85’ al posto di Barella. Il risultato è sul 3-0, la partita è finita, il Sassuolo tiene la palla nella metà campo avversaria e l’Inter ha molto spazio da attaccare in contropiede. È la volta buona che Eriksen combini qualcosa?

Appena entrato perde una palla, ma poi va in contrasto e la riconquista, è la famosa “garra” di cui parla Conte? Una categoria che ama usare per esempio per Brozovic, che «quando ci mette la garra diventa un giocatore importante».

Poco dopo Gagliardini recupera una palla al limite della propria area e parte in progressione centrale. Lukaku alla sua destra, Eriksen alla sua sinistra, chi servirà? Esatto.

A 10 secondi dalla fine Eriksen ha una palla pulita da portare nella trequarti centrale avversaria. Corre con la testa alta, aspetta un movimento per l’ultimo passaggio, inclina il suo corpo verso destra, dove si sta sovrapponendo Vidal, ma quello ha giocato già 92’, non riesce a concludere la sovrapposizione e il filtrante finisce lungo. Vidal gli chiede scusa.


vs Bologna

Minuti giocati: 1.

Palloni toccati: 0.

Ed eccoci arrivati alla Guernica delle umiliazioni di Eriksen, all’umiliazione definitiva. Partita finita, vinta, ma manca la ciliegina sulla torta: l’ingresso di Eriksen a un minuto dalla fine. Lui si presenta all’appuntamento a bordo campo distrutto, capelli rasati, sguardo assente, occhiaie, demolito. La rappresentazione stessa della depressione.

https://twitter.com/StePeduzzi/status/1335469050336583680?s=20

Per Conte non c’è nessun problema: «Il rapporto con Christian, così come tutti i calciatori, è un buonissimo rapporto. È un ottimo rapporto. Non mi stancherò mai di ripeterlo, all’infinito. Tutte le scelte che faccio sono per il bene dell’Inter. Lui sta lavorando, si sta impegnando, è a disposizione».

L’unica corsa concessa a Eriksen nella partita.




vs Shakhtar Donetsk, ritorno

Minuti giocati: 5.

Palloni toccati: 3.

La perversione di Conte non è infatti nel non far giocare Eriksen titolare, ma di inserirlo solo a pochissimi minuti dalla fine. Quello di Eriksen all’Inter è diventato uno sport diverso, in cui le partite durano un minimo di 1 e un massimo di 5 minuti. Anche in una situazione disperata come quella contro lo Shakhtar, nell’ultimo turno di Champions League. Una partita in cui la difesa prudente e attenta degli ucraini ha mostrato tutti i limiti della squadra di Conte: la prevedibilità offensiva, la carenza di qualità tecnica e il modo cervellotico di interpretare certi contesti. In una partita bloccata come quella è naturale, dal divano, invocare Eriksen, o per lo meno la tecnica balistica del suo piede destro, che anche sui calci piazzati può aiutare la squadra nei contesti sporchi.

Eriksen stavolta è entrato con una vitalità all’altezza della situazione: si è preparato in fretta, con lo sguardo concentrato, è entrato in campo e ha provato veramente a trasformare il calcio in uno sport in cui ogni pallone è quello decisivo, cioè non il suo sport. Ha toccato tre palle e ha provato due tiri. Il primo dopo una bella combinazione con Sanchez in cui l’Inter non sembrava l’Inter - tiro uscito di tre o quattro metri. Col secondo pallone ha messo la palla sulla testa di Sanchez, che col tiro ha colpito il tragico Lukaku.

Il terzo pallone, invece, era quello decisivo della sua storia? Quello che avrebbe provocato un plot twist pazzesco? Eriksen lo raccoglie dal limite dell’area, lo arpiona col piatto destro, se lo sposta sul sinistro, ci sono un’infinità di corpi davanti a lui. Non è il suo piede forte ma stiamo parlando di un giocatore tecnico. Eriksen stesso ha detto: «Se mi viene sul destro tiro col destro, se mi arriva sul sinistro tiro col sinistro, cerco di fare la cosa più veloce possibile». Tira di collo forte, ma è un tiro centrale che arriva giusto giusto sopra la testa del portiere.

Sarebbe stato un altro caso di giocatore epurato che salva l’Inter all’ultimo minuto di una partita decisiva, come Nainggolan contro l’Empoli due stagioni fa.

Sono forse stati gli unici cinque minuti in cui Eriksen ha mostrato cosa avrebbe potuto essere e non è stato, e in quanti modi avrebbe potuto aiutare l’Inter. Come sempre a Conte è stato chiesto perché non è stato inserito prima; la risposta è stata che considera un attaccante (tradotto: un giocatore che non partecipa alla fase difensiva) e lo ha potuto inserire solo al posto di un attaccante per ragioni di equilibrio.

Se si parla così tanto di Eriksen è soprattutto perché la sua figura è al crocevia di alcuni temi sensibili nel nostro discorso sportivo: il conflitto presunto tra tecnica e agonismo, e quello ancora più immaginario tra giochismo e risultatismo. Conflitti in cui Conte ha spesso assunto posizioni contraddittorie. Da una parte ha portato avanti battaglie sulla complessità del calcio contemporaneo («Fai chiacchiere da bar, non è come ai nostri tempi» ha rimproverato Marocchi); dall’altra parte però è semplicistico e grossolano quando dice, per esempio, che «per un giocatore che arriva all’Inter la tecnica la do per scontata». Una frase usata proprio per sminuire il talento di Eriksen, un giocatore il cui profilo è opposto a ciò che piace a Conte. Un tecnico all’avanguardia per molti aspetti, ma che dalla tradizione italiana ha ereditato una visione del calcio che a volte pare a compartimenti stagni.

Una visione che separa in maniera netta gregari che si sbattono per la squadra (Moses, Estigarribia, Eder), e fenomeni che te la devono svoltare, quasi sempre freak capaci di inventare gol dal nulla - come Lukaku, Diego Costa, Pogba, Vidal. Non c’è da sorprendersi se in estate ha provato a comprare anche Gervinho. Nella fascia di mezzo sono accettati solo giocatori “affidabili”, come Gagliardini per esempio. Una dichiarazione passata sotto traccia è arrivata dopo la vittoria col Mönchengladbach, uno dei pochi momenti di pace della sua vita in guerra, quando ha descritto le caratteristiche dei suoi centrocampisti in modo incredibilmente rigido: «Era difficile intervenire dalla panchina perché avevamo tanta qualità ma poca interdizione con Sensi ed Eriksen. Brozovic è importante in entrambe le fasi, quando ci mette anche la garra è un giocatore importante. Gagliardini è affidabile sotto tutti i punti di vista»

Tra meno di un mese Eriksen potrà fuggire dall’Italia e non dovrebbe avere difficoltà a trovare una squadra. Per l’Inter sarà però difficile difendere l’investimento fatto un anno fa. La sua esperienza, così malinconica, racconta anche le contraddizioni del nostro calcio.


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