Nel Portogallo degli anni ’60, durante la dittatura di Salazar, una delle enclaves in cui oppositori del regime e rivoluzionari potevano rifugiarsi e pianificare la loro resistenza erano il centro storico di Coimbra e le sue Repúblicas.
Condomini autogovernati dagli studenti che li abitano, luoghi di una creatività estemporanea e fracassona, ma anche di rigida organizzazione e coscienza sociale come molti altri quartieri occupati e autogestiti nel mondo, le Repúblicas sono anche il più adamantino simbolo dell’integrazione nella città capitale della regione di Beira-Litoral, oltre che l’applicazione pratica di un diverso modello di gestione.
Nella città di Coimbra è cresciuto, dopo esservisi trasferito dalla Guinea-Bissau quando aveva undici anni, Éderzito António Macedo Lopes.
Mezz’ora è il tempo che separa Coimbra dal mare.
Mezz’ora è il tempo che ha separato Éder dalla gloria inattesa, quanto ha impiegato per trasformarsi nel più inatteso degli eroi che la finale di Euro 2016 potesse ambire ad avere: così più forte di ogni narrativa potenziale da essere riuscito a creare di per sé una narrativa ancora più grande.
Éder è un giocatore per niente appariscente, una prima punta soggiogata da una parte alla fascinazione maledetta di cui il ruolo di nove gode nella tradizione lusitana, dall’altra alla supremazia che la discesa di Cristiano Ronaldo nel panorama calcistico portoghese ha innescato. Perché se era facile pensare e ricreare un prototipo di centravanti prima di Pauleta, è abbastanza più complicato farlo dopo aver visto destreggiarsi in quel ruolo CR.
Quando Fernando Santos lo ha messo in campo, al 79’, aveva bisogno di un attaccante esattamente dalle caratteristiche di un centravanti vintage: un uomo forte fisicamente, che potesse sorreggere l’urto dell’irruenza di Umtiti e che sapesse permettere alla squadra di salire, di non sfilacciarsi, di resistere.
Éder ha portato a termine il compito che gli è stato assegnato con dovizia e premura: prima contro Koscielny si è guadagnato, con un po’ di malizia, una punizione che Raphaël Guerreiro ha spedito sulla traversa, una specie di anticipo della retorica dell’unsung hero che avrebbe determinato la capitolazione francese.
Neppure un minuto più tardi ha ricevuto palla da João Moutinho sulla trequarti.
Non credo che liberarsi da Koscielny sia coinciso da subito con l’idea di puntare la porta avversaria: dopo essere uscito vittorioso dal contrasto con il centrale francese Éder sembra temporeggiare, accelerare i passetti, non mi dà l’impressione di uno che sappia esattamente che il bus notturno che fa capolinea al Trionfo sia lì per passare; sfiora il pallone con il piede a martello, sembra incespicare, si disimpegna in un controllo un po’ goffo che ha tutta l’impressione di dover per forza precludere a un’apertura sulla fascia per un compagno, che però non sta accorrendo.
È in quella vacuità di soluzioni alternative, con la testa bassa, che Éder decide di tentare la conclusione.
Non è che tra le caratteristiche principali di Éder ci sia il tiro da fuori area.
Conformazione fisica, visione del gioco, abitudini e comportamenti che detiene in campo hanno contribuito al concorrere di situazioni per le quali il concetto di pericolosità tenda a diventare associabile alla sua silhouette solo dai diciotto metri in su, in direzione della porta avversaria. Nell’ultima stagione, giocata per metà con la maglia dello Swansea e per l’altra metà con quella dei francesi del Lille, ha calciato da fuori area solo una volta.
Dev’essere per quella particolare malia che finisce per avvolgere ogni cosa inedita che il tiro di Éder è uscito così perfetto nella sua compiutezza: la torsione del corpo armonica, il pallone colpito esattamente con la parte del collo con cui si dovrebbe colpire quando si tenta la conclusione da fuori area, la sfera che rimbalza tre volte, acquistando ogni volta maggiore velocità, prima di un ultimo rimbalzo di fronte a Lloris.
Il tiro di Éder è il colpo di sciabola che l’ultimo dei commis di sala, sostituendosi al Maître, sferra alla bottiglia di champagne più pregiata quando il banchetto sta per finire.
Se ieri sera non fosse sopraggiunto il coupe de theatre dell’infortunio di Ronaldo, forse Éder non sarebbe neppure mai entrato in campo, né avrebbe segnato il primo gol con la maglia del Portogallo in gare ufficiali.
Ma le squadre, a volte, finiscono per somigliare davvero a quell’utopia giovanilistica che vediamo possibile in un contesto come quello delle Repúblicas e meno applicabile nell’ipercinetico e capitalistico mondo del calcio professionistico: quando la creatività estemporanea e l’organizzazione, o un diverso modello di (auto)gestione, trovano un bilanciamento esatto, e sono in grado di reinventarsi per sopperire l’uno all’assenza dell’altro, allora quello è il contesto perfetto in cui l’eroe di una serata può diventare quel calciatore che per racimolare minutaggio in vista dell’Europeo ha dovuto abbandonare il campionato più bello d’Europa per il Paese al quale avrebbe portato in dono la più cocente delle delusioni.
Di fronte ad epiloghi del genere, il perché per festeggiare abbia estratto dal parastinchi un guanto bianco diventa davvero una curiosità minore.