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L’espansione della NBA in Medio Oriente, e viceversa
16 ott 2022
Il primo passo della lega di Adam Silver per esplorare un mercato ricchissimo quanto controverso.
(articolo)
15 min
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GIUSEPPE CACACE/AFP via Getty Images
(copertina) GIUSEPPE CACACE/AFP via Getty Images
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Non si tratta certamente di una novità, anzi, ma sono giorni in cui “NBA” ed “espansione” sono finite molto spesso nella stessa frase. E non potrebbe essere altrimenti, con la pre-season che ha fatto tappa a Las Vegas e Seattle, le due principali indiziate per ospitare le franchigie di espansione in caso di (imminente?) allargamento della lega a 32 squadre. Un progetto per il quale LeBron James si è pubblicamente rivolto al commissioner Adam Silver candidandosi come proprietario della squadra a Sin City, con uno sguardo che tradiva tutta la sua ambizione.

Se una nuova espansione, intesa come allargamento, è un progetto in cantiere da tempo per i vertici della lega ma ancora in fase di valutazione, il processo di globalizzazione è invece in atto da decenni, su un lungo percorso tracciato dall’ex commissioner David Stern e in cui il testimone è passato al suo discepolo-successore Adam Silver. Lo sviluppo costante del prodotto è stato ed è un punto focale dell’agenda di entrambi i commissioner, e l’ampliamento del bacino d’utenza rappresenta un passaggio di cruciale importanza. Con un obiettivo che suona molto semplice e quasi esagerato, un po’ come i piani dei cattivi nei cartoni animati: portare la NBA in ogni angolo del globo.

Sono diverse le regioni in cui la lega ha accresciuto la propria popolarità a un ritmo vertiginoso negli ultimi decenni: dall’America Latina (Messico e Argentina in primis) all’Europa, dall’Asia (trainata da Cina, Filippine e India) all’Australia. Quella che sembra invece una frontiera ancora piuttosto nuova e inesplorata è il Medio Oriente, e in particolar modo i paesi arabi del Golfo Persico. Anche qui, però, la NBA ha alzato l’asticella e iniziato a fare sul serio ormai da qualche anno.

A proposito di alzare l’asticella: quando c’è da saltare John Collins non si tira mai indietro.

La scorsa settimana abbiamo avuto l’occasione di assistere dal vivo alle NBA Abu Dhabi Games e di osservare da vicino i primi storici passi della lega alla conquista delle terre degli Emirati. In questa regione gli interessi della lega sembrano intercettare perfettamente le necessità del mercato con cui si sta confrontando. Per entrambe le parti coinvolte, infatti, l’evento della scorsa settimana è stato un punto di arrivo ma soprattutto di partenza. Lo hanno confermato le parole di Adam Silver nella sala stampa di Abu Dhabi giovedì scorso: «Le nostre partite vengono trasmesse nell’area del Golfo e nel Medio Oriente da 35 anni, e nella storia della lega ci sono stati 25 giocatori provenienti da questa regione. Essere qui è la coronazione di decenni di lavoro per noi, è qualcosa che avevamo in programma da qualche anno. E sappiamo che è solo un inizio».

Chi era presente alle due gare tra Milwaukee Bucks e Atlanta Hawks nella nuovissima e scintillante Etihad Arena, nonché a tutto il maxi-evento di contorno allestito in città dalla NBA insieme al Dipartimento della Cultura e del Turismo di Abu Dhabi, può aver guardato a tutto questo con due prospettive diverse. Quella affascinata e genuina dei giovani appassionati locali, una comunità in rapida crescita seppur ancora di modeste dimensioni, quasi increduli di poter vedere dal vivo Giannis Antetokounmpo, Trae Young e compagnia; oppure, la prospettiva di chi come noi ha partecipato da visitatori, più disincantata e interessata a comprendere gli interessi reciproci che hanno portato la pallacanestro NBA nel Golfo. La presenza di Adam Silver e di diverse celebrità del passato (Shaquille O’Neal, Vince Carter, Chris Bosh, Isiah Thomas e Dominique Wilkins) evidenziano chiaramente che per la lega sia stata una spedizione, quasi una missione di evangelizzazione, e non certo una gita. Ma cosa cerca la NBA da queste parti, e perché incarna il partner ideale per l’Emirato presieduto da Mohammed bin Rashid Al Maktoum?

Breve storia degli interessi della NBA in Medio Oriente

Facendo un passo indietro, è possibile constatare come il progetto espansivo nel Golfo sia il primo in cui Silver abbia sì raccolto il testimone da Stern, ma senza delle vere e proprie fondamenta già gettate, cosa che invece si potrebbe dire per le altre sedi delle recenti Global Games. La NBA, infatti, si è affacciata per la prima volta nella regione mediorientale a fine anni ’90, con la gara di esibizione disputata in Israele tra Miami Heat e Maccabi Tel Aviv. Ci ha fatto ritorno con una partita di pre-season solo la scorsa settimana, 23 anni dopo, mettendo piede per la prima volta in un paese del Golfo.

In questo lasso di tempo sono stati compiuti dei lenti, ma costanti, passi di avvicinamento. Che David Stern nel 2010 aveva anticipato, quando raccontò che la NBA stava «iniziando a rispondere a un enorme appetito per il gioco nel Medio Oriente, un’area in cui ci sono interessanti opportunità commerciali e in cui stiamo assistendo a un importante sviluppo di arene e destinazioni, come ad esempio a Yas Island». Neanche a dirlo, ha fatto centro: l’isola artificiale di Yas ad Abu Dhabi - un progetto da 40 miliardi di petroldollari avviato nel 2006 - ospita attualmente il circuito di Formula 1, l’Etihad Arena e il Ferrari World, presentandosi quale hub all’avanguardia dotato di strutture ricettive e impianti sportivi di primo livello mondiale.

Risale al 2011, invece, la prima tournée del basket a stelle e strisce negli Emirati, anche se non riguardante direttamente la NBA, ma la Duke University di coach Mike Krzyzewski, che giocò delle gare pre-stagionali a Dubai. Nel 2016, poi, la prima bandierina con la sagoma di Jerry West piantata nel Golfo, il giorno dell’apertura del primo store ufficiale nel Middle East, a Doha (Qatar). Nel 2019, infine, l’infittirsi delle relazioni con l’UAE, attraverso un serie di partnership ed eventi, e con l’inaugurazione della prima NBA Basketball School negli Emirati. Si dovranno attendere tre anni per lo step successivo, quello più atteso, principalmente a causa delle complicazioni legate alla pandemia. Il messaggio della NBA, in ogni caso, è stato chiaro: we are here to stay.

Per la prima esibizione, la lega ha scelto Antetokounmpo e Young come ambassador, in una doppia riedizione delle Eastern Conference 2021 tra Milwaukee e Atlanta. Del resto, chi meglio di Antetokounmpo nel ruolo di portavoce in un nuovo mercato? Silver lo ha definito un “global citizen”, riferendosi alla sua popolarità in ogni area del mondo e alle sue eterogenee origini: «Rappresenta e gioca per la Grecia, i suoi genitori sono di origini africane e ora la sua famiglia vive negli Stati Uniti. È una persona che rappresenta diverse culture, e un atleta che porta gioia in questo gioco. Inoltre, è un pluri-MVP e uno che gioca nonostante gli infortuni, con una passione incredibile e a un livello altissimo, lavorando incessantemente per migliorare. È il sogno di ogni commissioner».

L’attesa per vederlo giocare dal vivo è stata febbrile. Prezzi stellari, ovviamente, con i biglietti andati rapidamente esauriti e una parata di celebrità (locali e non) nelle prime file, con il countdown per l’evento proiettato sul Burj Khalifa, e due partite all’interno di un’arena sponsorizzata Etihad che sembra un render, tanto è nuova e luccicante. D’altronde, potrebbero forse avere un contorno diverso le Abu Dhabi Games?

Nella seconda sonnacchiosa partita in cui non c’era Giannis, ci sono stati cinque minuti di follia di Trae Young suggellati da questa “busta” ai danni di Bobby Portis.

L’interesse di Abu Dhabi per la NBA

Le due sfide, vinte entrambe dagli Hawks, sono state il culmine della sinergia avviata a inizio anno tra la National Basketball Association e il DCT (Department of Culture and Tourism), che ha portato anche alla nascita della Jr. NBA Abu Dhabi League - una lega aperta a 450 ragazzi e ragazze di 11-14 anni - e a una partecipazione sempre più massiccia a iniziative quali Basketball Without Borders. Come detto, la NBA ha iniziato a fare sul serio da queste parti e ha trovato in Mohamed Khalifa Al Mubarak, chairman del DCT e punto di riferimento della comunità cestistica locale, un perfetto interlocutore.

Al Mubarak rappresenta per il basket negli Emirati quello che James Naismith è per il gioco: l’uomo da cui tutto ebbe origine. Non ha inventato nulla, ma ha creato una comunità che prima del suo impegno era praticamente inesistente. Tutte le persone ad Abu Dhabi con cui abbiamo parlato dell’evento e del suo significato per la città hanno speso qualche parola (al miele) per lui, descrivendo lo sbarco del grande basket negli Emirati quale coronamento del suo lavoro. E in un certo senso, di un sogno che ha sempre inseguito.

Figura centrale per la promozione del turismo e per lo sviluppo di alcune aree di Abu Dhabi (in primis Yas Island, ma anche il Reem Central Park con il suo playground ora dedicato a Kobe Bryant), Al Mubarak ha studiato negli Stati Uniti, alla Northeastern University di Boston, da dove è tornato con due lauree e un intenso legame con la pallacanestro. Da tifoso dei Celtics, ma anche da giocatore, come ha ricordato nel 2013 con la sua partecipazione in maglia “UAE Celebrity Team” (allenato da Kobe per l’occasione) ad una partita contro alcune leggende del passato del Real Madrid, disputata a Dubai. Sul suo conto, un giornalista locale ci ha raccontato l’immancabile leggenda metropolitana, secondo cui Mohamed, nella gestione delle 11 aziende di cui è stato a capo nell’Emirato, avrebbe imposto la passione per il basket quale condicio sine qua non per l’assunzione di nuovi dipendenti.

Leggende a parte, Al Mubarak ha rappresentato lo scintilla che ha dato il via alla crescita del movimento, culminato con l’arrivo della NBA negli Emirati, cui ha assistito ovviamente dalla prima fila dell’Etihad Arena. Aver attirato un evento del genere è stato per il DCT un traguardo di grande importanza, per diversi motivi. Innanzitutto per il giro d’affari generato direttamente da questa occasione, ovvero per l’incasso dell’arena, delle compagnie aeree, di hotel e ristoranti, e in generale di tutta l’onda lunga del soggiorno in città degli addetti ai lavori e degli spettatori. Benefici che Abu Dhabi, come diverse altre località nel Golfo, vuole rendere una voce più rilevante e costante all’interno della propria economia, che da qualche anno è guidata da un imperativo: differenziare.

Sulla strada verso un modello sostenibile, e cioè verso la riduzione della dipendenza dalle fonti di energia non rinnovabili, il turismo è una risorsa importante. Da tempo gli Emirati e i Paesi limitrofi stanno investendo ingentemente sul proprio appeal per eventi sportivi di prima fascia, e non serve guardare lontano per contare i dividendi di questa scommessa. I prossimi Mondiali di calcio si disputeranno in Qatar; i calendari di golf e tennis prevedono stabilmente diverse fermate nel Golfo; il tutto senza dimenticare UCF, Formula 1 e ippica, molto popolare da queste parti. Ora, anche per la NBA, quelle del Persico sono destinate a diventare acque sempre più familiari: «Quando pensiamo a dove portare il gioco fuori dagli Stati Uniti, cerchiamo luoghi con facilities all’altezza, e Abu Dhabi lo è sicuramente», ha commentato Mark Tatum, deputy commissioner della lega.

È un circolo virtuoso, che ad ogni grande evento si alimenta e contribuisce a trasformare queste località in “hub di primo livello per eventi sportivi di primo livello”, prendendo in prestito un’espressione che sembra piacere molto ai portavoce del DCT di Abu Dhabi. Aggiungere la NBA al portfolio ha arricchito ulteriormente il biglietto da visita di Yas, con l’obiettivo dichiarato di avere in qualche anno «un impressionante e denso calendario di eventi sportivi di fama mondiale», ha spiegato Al Mubarak.

Il secondo fine del Medio Oriente nello sport

La promozione del turismo, però, non è l’unico obiettivo a smuovere i dollari degli sceicchi. Il secondo fine di questa espansione in ambito sportivo - quello ufficioso, ma non certo segreto - è di natura reputazionale. “Sportwashing”, viene definito, un’operazione che va oltre l’ospitare eventi sul proprio territorio e che riguarda anche attività di sponsorizzazione, per esempio quella del Manchester City e della squadra ciclistica UAE Team Emirates (in passato Lampre). L’obiettivo è redimere i propri peccati - o più realisticamente, provare a farli scivolare in secondo piano - in materia di diritti umani, libertà personali e parità di genere, sfruttando la gittata e il potere di influenza di cui lo sport è vettore in tutto il mondo.

Secondo Freedom House, gli UAE sono uno dei Paesi “not free” di questa regione, per via delle restrizioni alle libertà civili e personali, delle politiche in ambito migratorio e di alcune posizioni in ambito internazionale, come l’operazione militare repressiva nello Yemen. Lo sport può essere un affidabile alleato nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica da questi temi. Secondo Adam Google (Human Rights Watch), «sono operazioni che provocano uno shift all’interno della conversazione sugli Emirati Arabi Uniti: dalle violazioni dei diritti umani, si comincia ad associare questi Paesi principalmente a eventi sportivi».

Allargando il discorso, la logica è la stessa di operazioni di “whitewashing” quali, ad esempio, la collaborazione tra l’Università La Sapienza e il Bahrein, ispirata ai principi del dialogo e della pacifica convivenza fra le religioni. La partnership ha attirato dure critiche da parte di associazioni e attivisti per i diritti umani, tra cui Americans for Democracy & Human Rights in Bahrain: «Nell’ambito dell’inaugurazione, il Bahrein è stato descritto come un Paese multiculturale e multiconfessionale, dove diverse culture e religioni hanno vissuto l’una accanto all’altra da secoli. Il conferimento di questa cattedra ad Al-Khailfa da parte della Sapienza ha portato nuovo lustro alla sua reputazione internazionale, senza tenere conto del ruolo che il governo gioca nell’oppressione della comunità sciita bahreinita.» Un altro esempio può essere individuato nelle due edizioni del World Tolerance Summit tenute a Dubai: «Più gli Stati vengono accusati dal mondo internazionale di violazioni dei diritti umani», spiega Ana Maria Soare (Mondo Internazionale), «più sfoggiano con insistenza la loro tolleranza e cercano il riconoscimento esterno.»

Naturalmente, la NBA è un partner ideale a cui accostarsi. Per la sua portata globale e per le dimensioni del suo bacino d’utenza, ma anche per motivi di immagine, trattandosi di una lega impegnata in campo politico e sociale come nessun’altra al mondo, e quindi in grado di fornire una sorta di legittimazione inattaccabile. È un aspetto che ad Abu Dhabi, prevedibilmente, non hanno mancato di sottolineare (leggere: strumentalizzare), menzionando la tolleranza e la diversità come valori fondanti condivisi. Potrebbe stupirvi, o forse no, che anche da parte della NBA, nelle parole di Mark Tatum, sia stata esaltata «l’apertura mentale della cultura mista degli Emirati Arabi Uniti e di Abu Dhabi in particolare».

La NBA è solo l’ultima delle leghe, federazioni e comitati che acconsentono all’utilizzo della propria immagine per queste finalità, all’interno di un do ut des particolarmente remunerativo. In questo mercato, infatti, la lega americana scorge un nuovo importante sbocco, dopo aver assistito al proprio ridimensionamento in Cina causato dall’incidente diplomatico con protagonista Daryl Morey e dalla campagna di sensibilizzazione di Enes Kanter sul tema delle persecuzioni di Pechino contro alcune minoranze.

Nei Paesi del Golfo, Adam Silver e soci intravedono degli ampi margini di crescita. Innanzitutto per la ricchezza e le potenzialità economiche di questo mercato, ma anche per la sua permeabilità, logica conseguenza della carenza di leghe locali di alto livello, soprattutto negli sport di squadra. Il basket negli Emirati non è né il più seguito, né il più praticato: è il calcio in entrambi i casi a dominare la scena. A queste latitudini, però, le attività e gli eventi indoor stanno dimostrando di avere una marcia in più, per evidenti ragioni climatiche, fattore che sta contribuendo ad accrescere rapidamente le dimensioni della comunità cestistica.

In un contesto del genere, la strategia di penetrazione della NBA per attrarre nuovi appassionati prevede due principali punti di contatto. Il primo è diretto, con eventi simili alle Abu Dhabi Games (e il ricco contorno allestito in concomitanza all’NBA District), che in futuro potranno anche essere partite di regular season, come gli stessi Silver e Tatum hanno anticipato; il secondo, invece, è mirato a incentivare lo sviluppo di condizioni più vantaggiose - per il proprio business, s’intende - nel paese, avvicinando i più giovani al gioco con alcune iniziative mirate: la Jr. NBA Abu Dhabi League, l’NBA Basketball School, Basketball Without Borders e NBA Academy.

«Portando qui ad Abu Dhabi tutti questi allenatori a lavorare con diverse squadre e a diffondere la cultura della NBA nella regione, credo che vedremo moltiplicarsi i giovani giocatori e appassionati» ha detto Ali Hassan Al Shaiba, executive director del DCT. «Dobbiamo creare il contesto per i bambini che sogneranno di giocare in NBA. È un processo, e ci vorrà del tempo, ma stiamo gettando le fondamenta per la prossima generazione». Chissà, forse tra qualche anno vedremo dei prospetti NBA in arrivo da queste parti. Sognare non costa niente, e perché non una stella della lega, quindi? «Sarebbe incredibile», diceva David Stern dieci anni fa, «ma non aspettiamo con fretta che succeda, abbiamo tempo».

Evidentemente, l’emergere di un punto di riferimento sul campo, un portabandiera degli Emirati sui parquet NBA, sarebbe un acceleratore incredibile di questo processo di crescita. Lo abbiamo sperimentato dalle nostre parti negli ultimi 15 anni (e nei prossimi, auspicabilmente, con l’ingresso nella lega di Paolo Banchero), e naturalmente è successo anche altrove. Basti pensare al seguito che ha trainato Dirk Nowitzki in Germania, oppure Yao Ming in Cina, Rui Hachimura in Giappone, o in passato Hakeem Olajuwon e Dikembe Mutombo nel continente africano.

È anche per questo che vengono promosse in ogni continente School e Academy, o programmi come Basketball Without Borders. Perché nessuna lega al mondo si può definire “without borders” quanto la NBA, e l’ambizioso progetto nel Golfo Persico ne è l’ennesima conferma.

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