La Race of Champions è considerata un po’ il gran galà di apertura della stagione motoristica internazionale. È una competizione che mette di fronte piloti di differenti categorie, che si sfidano a bordo di auto identiche in classici testa a testa. L’edizione del 2019 si è tenuta nell’Autódromo Hermanos Rodríguez di Città del Messico a fine gennaio e sarà ricordata per diversi motivi: il primo, più nostalgico, è il ritorno di una nuova coppia Vettel - Schumacher, con Mick Schumacher a ereditare il sedile del Team Deutschland dopo che papà Michael, con l’attuale prima guida Ferrari, aveva dominato il trofeo tra il 2007 e il 2012. Al duo tedesco non è riuscita l’impresa, ma Mick, nella competizione individuale, ha eliminato proprio Vettel, in una sfida che ha il sapore di passaggio generazionale.
Il tema della nouvelle vague di piloti è stato ulteriormente ribadito dalle performance di un altro giovane corridore, il 23enne italiano Enzo Bonito, capace di battere in maniera brillante due concorrenti ben più esperti: Lucas Di Grassi, ex pilota di F1, ora impegnato in Formula E, e Ryan Hunter-Reay, ex pilota statunitense, campione 2012 di IndyCar Series. A sorprendere non è stato l’upset in sé, quanto il pedigree motoristico del pilota italiano, alla sua terza esperienza a bordo di una vettura da gara. Prima della Race of Champions 2019, Bonito ha partecipato all’edizione 2018 della competizione e, a ottobre 2018, alla gara di Imola della Porsche Carrera Cup Italia. Ma questo non significa che non sia un pilota esperto, dato che Bonito è uno dei talenti più cristallini della scena internazionale del cosiddetto sim racing.
Anche l’account Twitter ufficiale della Formula 1 ha esaltato la gara di Bonito.
Il successo e la storia di Enzo Bonito rappresentano un’istantanea parecchio efficace che descrive i confini molto fluidi tra il mondo del motorsport reale e quello virtuale. Il tutto all’alba di un Mondiale di Formula 1 che vede l’esordio, su McLaren, di Lando Norris, un pilota che sebbene abbia compiuto l’intera trafila per raggiungere la competizione regina dell’automobilismo, ha più volte sottolineato di come i videogiochi abbiano svolto un ruolo fondamentale nella sua formazione. Anche Enzo Bonito è sotto contratto con McLaren, per il suo esport team Shadow, con cui disputa le F1 Esport Series (l’equivalente virtuale del Mondiale), e non è un caso che entrambi i piloti corrano online per la stessa scuderia, ovvero la fucina di talenti più importante del racing virtuale, il Team Redline. Per gli stessi colori corre anche Max Verstappen, e i tre coetanei si scambiano ogni giorno consigli in chat su come allenarsi e affrontare i diversi circuiti.
I nuovi go-kart?
«Penso che gli esport siano destinati a diventare una realtà sempre più importante. Ed è in primo luogo una cosa positiva per lo sport, visto che stanno diventando la nuova porta di ingresso al mondo dell’automobilismo». Con queste parole, Zak Brown, CEO di McLaren Racing, ha presentato a luglio dello scorso anno la competizione esportiva della Le Mans Series, evidenziando in maniera chiave il ruolo delle competizioni virtuali nell’ecosistema complessivo del motorsport: «Storicamente è sempre stato il karting [la porta di ingresso], ma si tratta di uno sport molto costoso e pochi possono permetterselo. Gli esport invece sono molto diffusi in tutto il mondo, […] e stiamo arrivando al punto in cui le scuderie utilizzeranno gli esport per scoprire nuovi talenti».
A fare da eco a queste parole ci sono anche quelle del capo della divisione marketing della F1, Ellie Norman, che proprio facendo riferimento al successo di Bonito durante la Race of Champions ha dichiarato che entro dieci anni è senza dubbio possibile che un pilota proveniente dalla scena esport possa arrivare in Formula 1.
Proprio la McLaren è uno degli esempi che più farebbe pensare al fatto che gli esport rappesentino già il presente. La storica scuderia di Woking sta infatti già utilizzando le competizioni virtuali per rilanciare sia in termini sportivi sia di immagine un brand che dopo anni di gloria sta vivendo un momento complicato.
Nel 2017 ha inaugurato il suo programma esportivo istituendo la competizione “World Fastest Gamer”, un’enorme selezione di piloti virtuali aperta praticamente a chiunque, con la finalità di arrivare a un profilo con cui continuare a collaborare anche dopo quel torneo. Dopo una prima fase online, dodici piloti sono stati invitati nella sede dell’azienda per dimostrare le proprie abilità al simulatore e in veri e propri test attitudinali. A spuntarla è stato Rudy van Buren, un ragazzo di 26 anni proveniente dall’Olanda, che al momento della selezione svolgeva il suo lavoro come direttore delle vendite in un’azienda locale. La sua storia è interessante, ed è la dimostrazione di quanto gli esport possano essere un fattore per il motorsport.
Nel 2003 van Buren si è laureato campione olandese di kart, ma la scalata al vertice del mondo automobilistico si è complicato negli anni dell’adolescenza, quando ha capito che non sarebbero bastati passione e talento per sostenere le sue ambizioni. «A quell’età non ragioni come un pilota, almeno non io. A sedici anni vuoi solo correre, correre, correre. Non ho mai avuto la reale ambizione di diventare un pilota di Formula 1, perché sin da piccolo sono sempre stato uno dei ragazzi più alti. Altezza vuol dire peso, e ho sempre avuto un baricentro alto. Soprattutto, non avevo abbastanza soldi per farcela».
Con una maturità invidiabile, nel 2010 van Buren è tornato alla sua vita normale, senza perdere la passione per i motori, e ha iniziato a dedicarsi per puro divertimento ai simulatori di guida, ottenendo buoni risultati nelle competizioni di rFactor, una serie di videogiochi da sempre molto popolare nel mondo degli esport, perché basata su un motore fisico molto realistico e aperta alle modifiche della comunità e quindi utilizzata per simulare diverse categorie motoristiche. Qualche anno dopo van Buren ha deciso di provare a qualificarsi alla competizione organizzata dalla McLaren, e dopo aver sbaragliato la concorrenza di 30.000 piloti si è accorto che la scelta di abbandonare il mondo del racing reale è stata la miglior decisione mai presa nella sua vita.
Dopo il World Fastest Gamer, van Buren è diventato il pilota ufficiale di McLaren per il simulatore. Questo vuol dire che il suo lavoro è testare virtualmente tutte le nuove soluzioni meccaniche e aerodinamiche per studiarne il potenziale impatto sulla vettura reale, oppure, durante i weekend di gara, essere in sede a Woking a simulare le strategie possibili sulla base delle condizioni reali trovate dai piloti sul tracciato. I simulatori utilizzati in-house dalle scuderie sono di certo più avanzati dei videogiochi in commercio, ma sfruttano spesso gli stessi motori fisici e grafici, opportunamente modificati secondo le esigenze dei team e accompagnati da periferiche hardware sviluppate ad-hoc per dare un’esperienza più verosimile possibile. Il ruolo dei simulatori in Formula 1 è al giorno d’oggi fondamentale, soprattutto dopo la riduzione degli spazi di manovra per i test privati avvenuta negli ultimi anni. Se dal punto di vista dello sviluppo della vettura è chiaro che la tecnologia a disposizione dei team è di gran lunga superiore rispetto a quella alla base dei videogiochi, in termini di sensazione di guida, invece, le due esperienze sono del tutto comparabili.
Le finali del McLaren Shadow Project, conquistate da Fraga.
L’esperienza di van Buren è stata uno dei motivi per cui McLaren ha deciso di puntare in maniera decisa sugli esport. Dallo scorso anno, il World Fastest Gamer è diventato McLaren Shadow Project (e i partecipanti sono intanto saliti a quasi mezzo milione), un nome non scelto a caso, visto che la scuderia di Woking ha deciso di sviluppare un programma che faccia da ombra al percorso di formazione reale dei piloti su pista.
A trionfare, a gennaio 2019, è stato il nippo-brasiliano Igor Fraga, che rappresenta il prototipo del pilota del futuro, data la sua preparazione mista. Nel curriculum del giovane pilota di Ipatinga c’è sia un titolo di Formula 3 conquistato in pista nel 2017, sia il GT Sport Nations Cup, il torneo ufficiale FIA del videogioco Gran Turismo conquistato a novembre dello scorso anno a Montecarlo. Nipote di un meccanico e figlio di un appassionato di motori con un breve passato nel mondo del karting, Fraga ha cominciato ad appassionarsi all’automobilismo proprio grazie ai videogiochi: «Mio padre mi regalò Gran Turismo 3 e un volante. Voleva che apprendessi le tecniche di base come il controllo dell’acceleratore e del freno, gestire lo sterzo, prima di affrontare il mondo dei go-kart».
Uno studio propedeutico che ha dato i suoi frutti, per una carriera che ha continuato a vedere l’alternanza di guida virtuale e reale, e che adesso gli varrà un sedile virtuale per le prossime F1 Esport Series, nel tentativo di provare a scalfire il dominio di Mercedes e di Brandon Leigh, vincitore delle uniche due edizioni della competizione. Fraga, però, non si pone limiti: «Il mio sogno è di ottenere un sedile nelle categorie più prestigiose, come la Super Formula, la Formula 1 o l’IndyCar, diventare un professionista, un campione, uno dei piloti più veloci al mondo».
Allenarsi come un pilota di Formula 1
«Nell'ambito esport, probabilmente il racing è quello che si avvicina di più alla controparte reale non solo per l'eventuale realismo della simulazione, ma perché è forse l'unico genere di videogame che consente, o richiede, al giocatore di operare come un vero pilota, e fare le stesse cose: volante, cambio, pedaliera. In sintesi, se tu guardassi un pilota reale e uno virtuale guidare lo stesso tipo di auto sulla stessa pista, farebbero le stesse cose, seduti nello stesso modo. Questa cosa non avviene in nessun altro videogame».
Queste parole sono di Marco Massarutto, Product Brand Manager e co-fondatore di Kunos Simulazioni, azienda italiana che ha sviluppato Assetto Corsa e Assetto Corsa Competizione, titolo ufficiale della Blancpain GT Series, due dei più famosi e apprezzati videogiochi di guida in commercio. La contiguità formale dei mondi è il motivo per cui la distanza tra la pista virtuale e reale è sempre più ridotta, e anche la nuova generazione di piloti reali, cresciuti in un mondo dove i videogiochi sono parte del normale immaginario collettivo, ne ha approfittato e ne continua ad approfittare.
Il caso di Lando Norris è abbastanza peculiare. Al di là della già citata attenzione di McLaren per il racing virtuale, quella del pilota inglese è la storia di una passione genuina, a prescindere dall’aspetto lavorativo.
Norris è un videogiocatore, in particolare di simulatori di guida, ma ha un suo account su Twitch dove si diletta di tanto in tanto anche con altri titoli di tendenza, come il battle royale Player’s Unknown Battlegrounds. Classe ’99, Norris non è un figlio d’arte predestinato come Verstappen, suo compagno di giochi online, ma sua padre è un ricco imprenditore britannico, cosa che lo avvicina di più alla nuova generazione di "pilota con la valigia" (cioè con un pesante carico di sponsor al seguito che ne possano sostenere economicamente la crescita) come Lance Stroll.
Il giovane pilota inglese ha una personalità peculiare, è quasi un nerd e ama l’understatement, contrariamente ad altri colleghi. Ha scelto di vivere a Guildford, una piccola cittadina del Surrey conosciuta per il suo legame con Lewis Carrol, ma soprattutto vicina a Woking, sede della McLaren. Un’esistenza tranquilla, per un ragazzo riservato che non è a suo agio con le luci della ribalta: «Amo fare le cose che mi piacciono. A volte esco per bere qualcosa con gli amici, vado in giro, cose del genere. Preferisco di più stare a casa a gareggiare sui sim racing, per cui difficilmente mi vedrete a Londra a sbronzarmi».
In un servizio realizzato da Autosport a novembre e pubblicato sul canale YouTube della rivista britannica, il giornalista Jack Benyon è andato a casa di Norris per scoprire la sua stanza dei giochi. Ed è interessante notare che, per quanto il setup del pilota McLaren sia composto dal top attualmente in commercio, resta comunque comparabile con quello degli altri piloti di esport e con quello assemblabile da qualunque appassionato in base alle proprie disponibilità economiche. Il mix di strumenti professionali e di quelli pensati per lo streaming su Twitch, la presenza di un frigorifero pieno di Coca-Cola e il modo scanzonato con cui Lando Norris si siede in postazione in t-shirt e calzini lo rendono incredibilmente umano e vicino, un aspetto che potrebbe consentirgli di avere grandi consensi in futuro e, soprattutto, avvicinare il pubblico degli esport alle competizioni reali, perché Norris è a tutti gli effetti uno di loro.
Quando Benyon gli chiede se è McLaren a pagare la bolletta della corrente, risponde così: «No, o meglio, in un certo senso sì. McLaren mi paga per giocare al simulatore e io gioco in questa casa, quindi sì». Si tratta di un’ammissione che racconta il sogno di qualsiasi aspirante atleta di esport: trasformare la propria passione per i videogiochi in un lavoro.
Il servizio di Autosport da casa di Lando Norris.
Quando si sfida con Benyon in un giro a Brands Hatch su una vettura di Formula Renault simulata su iRacing (la sua simulazione preferita), al di là del suo talento, emerge il modo in cui videogiochi e realtà si intersecano in maniera inscindibile. Nell’analisi della performance di Benyon, Norris evidenzia tutti gli errori e spiega l’approccio corretto al circuito, individuando punti di riferimento e dettagli come in una qualsiasi sessione in pista, perché di fatto si tratta della stessa cosa, dato che la tecnologia grazie alla quale sono realizzati i tracciati in una simulazione di guida (il LaserScan) permette una ricostruzione totale di ogni asperità, avvallamento e tipologia di asfalto.
«Utilizzo principalmente iRacing e rFactor per prepararmi su un circuito o a guidare una nuova auto», racconta Norris a Eurogamer. «Grazie a iRacing ci sono tante cose che puoi imparare, che sono praticamente uguali alla vita reale. La pressione per un giro di qualifica o in seguito a un errore sono tutte cose che restituiscono le stesse situazioni che si hanno sul circuito. Da un punto di vista esclusivamente competitivo è davvero un’esperienza molto simile anche per ciò che riguarda i contatti e gli incidenti, e con il sistema di patenti a punti di iRacing ti conviene non fare niente di stupido. Cosa che invece io ho fatto spesso… In ogni caso, ci sono tantissimi aspetti comparabili al mondo reale».
L’incidente di Verstappen visto dall’abitacolo di Norris durante la 12h di Bathurst.
L’allenamento su iRacing per Lando Norris, così come per Verstappen, è anche un modo per cercare il limite senza alcuna conseguenza, e forse è uno dei motivi per cui entrambi i piloti sono noti per il loro stile di guida parecchio aggressivo. Così come in pista, anche online i due si divertono a ingaggiare duelli al limite, tanto che a febbraio, nella 12H di Bathurst su iRacing, i due hanno dato spettacolo in maniera inaspettata sul canale Twitch di Norris. Entrambi non sono riusciti a terminare la gara, e Verstappen è stato protagonista di un sorpasso finito malissimo. Al netto di questi episodi, la presenza di piloti professionisti di questo calibro su una piattaforma come iRacing permette a chiunque di cimentarsi con un benchmark reale utile a valutare le proprie performance in un’ottica diversa. Sempre nel servizio di Autosport, su un circuito come Brands Hatch, per Norris essere a un secondo di distanza dalla sua performance vuol dire far registrare già un tempo sul giro interessante.
Interrogato sul rapporto tra performance reale e virtuale, Marco Massarutto sostiene che «in termini di dualismo realtà-simulazione, non è del tutto scontato che questo avvenga, perché il fattore paura fa di certo la sua parte. Ma nella peggiore delle ipotesi, allenarsi su un simulatore consente di imparare molto bene una pista specifica, per cui anche l'adattamento alla guida reale sullo stesso circuito ha una curva di apprendimento meno ripida. Inoltre, si migliorano tantissimo i riflessi: non si impara a essere più spericolati, ma a essere molto più reattivi nel reagire alle situazioni».
A questo proposito vale la pena citare anche il caso di Greger Huttu, una leggenda tra i sim racer, grazie ai suoi sei titoli mondiali conquistati su iRacing, senza avere né la patente, né mai guidato una macchina nel mondo reale.
The world’s fastest alien, interessante documentario su iRacing e Greger Huttu.
Nel 2010, all’età trent’anni e senza una preparazione fisica adeguata, il pilota finlandese ha fatto alcuni test su una Skip car e una Star Mazda sul circuito di Road Atlanta. Nonostante le difficoltà di resistere alla forza G durante le curve e alla conseguente motion sickness, Huttu ha portato a termine 15 giri, con tempi superiori di circa tre secondi a quelli di un pilota esperto. Un distacco di certo abissale per gli standard delle competizioni motoristiche, ma la prestazione in base alla telemetria, la gestione della vettura e la scelta delle staccate raccontano di una performance ottima per un pilota alla prima esperienza senza alcuna nozione pratica, nonché uno dei primi attestati importanti per l’automobilismo virtuale. L’esperienza di Huttu ha costituito un mattone fondamentale per la crescita del movimento, e la sua disponibilità con i giovani piloti esportivi (oggi il finlandese gestisce il Team Redline) ha permesso alle nuove generazioni di sognare concretamente la pista a partire dallo schermo di casa.
Futuro senza barriere
In questo contesto, i programmi di formazione per piloti e scuderie virtuali sono fondamentali per colmare proprio quel gap che serve per trasformare il talento in un lavoro, e per abbattere la barriera che ancora divide il mondo esportivo da quello mondo reale.
Per questo diverse personalità del mondo del racing si stanno attivando per dare una possibilità ai giovani piloti. Fernando Alonso, per esempio, è attivo da anni sulla scena e ha recentemente fondato un nuovo team in collaborazione con Jean-Eric Vergne, pilota di Formula E, che è una vera e propria estensione della sua FA Racing Squad, scuderia impegnata in competizioni reali. La scelta di integrare i due mondi per favorire uno sviluppo totale dei piloti sembra essere la nuova direzione, e lo scorso autunno è sceso in pista anche l’ex pilota Ferrari Jean Alesi che, in collaborazione con Matteo Bobbi (altro ex pilota e analista televisivo) ha fondato la sua Academy dedicata a piloti virtuali. Anche in questo caso si tratta di un percorso che ibrida esport e realtà, tanto che lo staff a disposizione dei piloti è lo stesso che gestisce la carriera del figlio di Jean, Giuliano.
«C’è chi va dal virtuale al reale, mentre per me è stato l’opposto. Ho avuto la possibilità di usare un simulatore per allenarmi per Indianapolis», racconta Jean Alesi alla presentazione dell’Academy, durante il Lucca Comics and Games, «e c’è da dire che ho fatto una grandissima fatica a causa del motion sickness. Nel momento in cui sono riuscito a entrare nel sistema, però, ho pensato che fosse una cosa straordinaria. Se tu fai uno sbaglio, nel mondo reale, ti fai male. […] Puoi andare alla ricerca del limite molto di più sul simulatore che nella vita reale, puoi provare gli assetti della macchina, e imparare la cadenza dei circuiti. Quando vai in pista, poi ti diverti». È proprio la dimensione del divertimento che è una costante nel racconto dei piloti, virtuali e reali, nel loro rapporto con la simulazione.
Gli highlights delle finali della F1 esport Series.
Anche nel suo processo di professionalizzazione, la community di sim racer resta comunque costruita intorno all’amore per le gare, alla voglia di correre, alla passione per il motorsport. In questo senso, Alesi, Norris, Huttu e qualsiasi giocatore da casa propria, nel momento in cui si approcciano a una simulazione di guida parlano la stessa lingua e sono sullo stesso piano a prescindere dal proprio vissuto.
Il sim racing sta abbattendo le barriere all’ingresso di un mondo che è sempre stato elitario, e già di per sé questo è un grandissimo risultato. Rispetto agli altri esport, che si sono diffusi solo negli ultimi anni, l’automobilismo virtuale parte avvantaggiato da una storia e da una community che si è sviluppata dalla fine degli anni ’90, e che ha sempre trovato nel mondo reale un punto di riferimento, e mai un’alternativa.
Se questa cosa è vera dal punto di vista dei piloti, lo è ancora di più per quanto riguarda gli spettatori. E gli ottimi risultati in termini di visualizzazioni delle finali della Nations Cup di Gran Turismo (3 milioni di spettatori solo in diretta su YouTube) e delle F1 Esports Series (4,4 milioni tra televisioni e streaming online) sono interessanti non solo per il futuro degli esports ma anche per quello delle gare tradizionali. I buoni risultati televisivi, infatti, sono facilmente spiegabili dal fatto che, a prescindere dalla propria passione per gli esport, il sim racing si rivolge anche allo stesso pubblico delle gare tradizionali, dato che in termini di lettura dell’azione e regia cambia davvero poco. Soprattutto, le gare di esport sono più brevi e più spettacolari di quelle reali, visto che le vetture di tutti i piloti hanno prestazioni equilibrate e, di conseguenza, a giocarsi la vittoria, tra sorpassi e manovre rischiose, sono sempre in tanti, e soltanto i più bravi salgono sul gradino più alto del podio.
Non c’è da sorprendersi, dunque, se tutto il mondo dell’automobilismo guardi agli esport come a una nuova strada possibile per ampliare il bacino d’utenza, per coinvolgere il pubblico più giovane e, in assoluto, portare in una nuova era uno sport che da sempre è basato sull’evoluzione tecnologica, che si candida a essere il primo a unire naturalmente, senza soluzione di continuità, la sua declinazione reale con quella virtuale.