C’erano notti, fuori Modena, che cadeva tanta di quella neve davanti alle porte da restare bloccati in casa per giorni. Senza la scuola, Enzo rimaneva a letto, a fissare la lastra d’ardesia del cielo attraverso la finestra, al caldo delle coperte. La camera era gelata: i soffitti altissimi, i vetri sottili che vibravano nei telai di legno sotto i colpi del vento, nessun riscaldamento.
Erano i primi anni del Novecento. La durezza dei tempi costringeva i bambini a crescere in fretta. Da sotto le coperte, Enzo sognava a occhi aperti la sua vita da adulto. Aveva tre desideri, che nella sua testa metteva in ordine di concretezza: diventare un giornalista e scrivere di sport; tentare la carriera da tenore; e poi un terzo che non riusciva bene a mettere a fuoco. I suoi pensieri erano disturbati dai colpi delle mazzole che arrivavano dal pavimento: da basso, nell’officina di papà Alfredo, si costruivano binari ferroviari. Di quel mestiere nuovo ne sapeva poco. Dei driver, i conducenti di auto da corsa, Enzo aveva letto qualcosa sui fogli di giornale lasciati in giro da suo padre. Erano giovani, indomiti. Portavano le loro auto a correre in posti esotici che non aveva mai sentito nominare. Dove diavolo era questa Indianapolis?
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