Ieri a Copenaghen c’era un senso di urgenza. O almeno questo è quello che sembrava comunicare il Parken tornato ad essere quasi del tutto pieno - di voci, urla, risate, parrucche, tonfi sordi dei tamburi. Il rumore di fondo che proveniva dalla televisione sembrava incredibilmente più alto del normale e ad ogni azione si aveva il dubbio che ci fossimo persi qualcosa di più importante di quello che avevamo visto. Forse siamo noi ad esserci disabituati ai suoni della folla, o forse davvero l’energia che sprigionava ieri il Parken era in qualche modo speciale, diversa. C’era urgenza, credo, di recuperare il tempo perso nell’assurda partita d’esordio contro la Finlandia, giocata sotto pressione della UEFA subito dopo il collasso di Eriksen in uno stato mentale di disturbato distacco. Ma anche di restituire qualcosa proprio ad Eriksen, omaggiato da tutto lo stadio con striscioni e con un lungo applauso al decimo minuto. C’era urgenza, infine, anche per la contingente situazione di classifica, che, dopo la sconfitta all’esordio, vedeva la Danimarca giocarsi la permanenza agli Europei in 90 minuti contro l’avversario più forte del girone.
Questo senso di urgenza ha portato la Danimarca a giocare i migliori 45 minuti da chissà quanto tempo (non posso di certo considerarmi una memoria storica affidabile della squadra di Kasper Hjulmand). Un calcio adrenalinico, senza fiato, che non aveva tempo da perdere. E che ha picconato le già fragili certezze di un Belgio che sembra vivere nel terrore di perdere quella che è forse la sua ultima occasione di vincere un grande torneo per Nazionali con questa incredibile generazione di talenti.
Fin dal primo minuto la Danimarca ha pressato altissimo il Belgio, mettendo in crisi la sua costruzione bassa, senza lasciargli mai un attimo di tregua. La squadra di Hjulmand ha messo in campo un’intensità che, nel soffocante caldo di Copenaghen, si faceva fatica persino a guardare. In particolare, Hojbjerg, schierato più in alto rispetto a quanto siamo abituati a vederlo nel Tottenham, ha quasi letteralmente fatto a pezzi il confuso centrocampo a due belga, composto da Tielemans e Dendoncker. Sia in fase di recupero palla, come si è visto nel subitaneo gol di Poulsen, in cui Hojbjerg ha divorato l’incerto passaggio di Denayer in uscita dalla difesa. Sia in fase di costruzione e definizione, infilandosi nelle tasche di spazio ai fianchi di Tielemans e spingendosi poi fino in area.
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Da questa progressione la Danimarca arriverà vicina al 2-0 con Maehle.
Il Belgio è rimasto in apnea per tutto il primo tempo anche per la maestosa partita di Simon Kjaer. Il centrale del Milan ha vinto 4 contrasti sui 5 tentati, e realizzato 3 intercetti, vincendo nettamente il duello impossibile con Lukaku, su cui la squadra di Martinez cercava di verticalizzare per riprendere fiato. Kjaer spesso gli ha impedito di ricevere, e quando non ci è riuscito ha avuto comunque la forza di rendergli la vita impossibile, costringendolo a giocare spalle alla porta, a usare il massimo della forza e della concentrazione possibile per tenere in possesso palloni sporchi, lontano dall’area.
Il Belgio prova ad uscire dal soffocante pressing della Danimarca verticalizzando su Lukaku, che prova a mettere il corpo tra la palla e Kjaer. Il centrale del Milan però lo sposta correttamente, gli ruba palla e dà continuità alla pressione della propria squadra.
In questo contesto, il Belgio è stato contagiato dal senso d’urgenza della Danimarca. La squadra di Martinez ha cercato di tagliare il nodo gordiano della pressione avversaria bypassando il centrocampo, allungandosi, andando il prima possibile da Lukaku. Dicendogli, in sostanza: pensaci te. E così gli spazi per la Danimarca si sono aperti. Per i raffinati dribbling in conduzione di Damsgaaard. Per il dominio atletico di Maehle. Persino Braithwaite è sembrato un giocatore pericoloso. Poi, però, dopo la fine di un primo tempo in cui il Belgio è sembrato costantemente sull’orlo di un precipizio, è entrato Kevin De Bruyne.
All’esordio in questi Europei per via della coda lunga delle fratture facciali riportate a fine stagione con il City, De Bruyne è sembrato fin da subito l’unico a essere emotivamente fuori dal contesto in cui era stato inserito. E mentre l’intensità infuriava intorno, lui, con la faccia quasi prima di emozioni, ha iniziato a andare alla ricerca di ricezioni sulla trequarti con il consueto passo vagamente appesantito. Oltre allo switch emotivo, l’entrata di De Bruyne è stata accompagnata anche da un cambio tattico. Se nel primo tempo quello del Belgio era infatti a tutti gli effetti un 5-2-3, con Lukaku riferimento centrale più avanzato, e Mertens e Carrasco a ricevere alle sue spalle nei mezzi spazi, nel secondo tempo il triangolo d’attacco è stato rovesciato, con De Bruyne al centro ma più arretrato, da trequartista-falso nove, e Carrasco e Lukaku più larghi e avanzati, quasi da ali.
La decisione di Martinez risolveva diversi problemi per il Belgio dalla trequarti in su. Innanzitutto toglieva Lukaku dalle grinfie di Kjaer, spostandolo a destra, nella zona del povero Vestergaard. Adesso il centrale del Milan per accompagnare il pressing della sua squadra doveva spingersi in zone molto più profonde per seguire De Bruyne, che si abbassava anche oltre la linea del centrocampo, aprendo la difesa della Danimarca al centro e creando così lo spazio per i tagli esterno-interno di Carrasco ma soprattutto di Lukaku. La posizione più larga di questi ultimi due ha poi ulteriormente allargato le maglie della difesa danese, creando il contesto tattico perfetto per il gol del pareggio del Belgio.
Al 54esimo Meunier è andato in diagonale verso De Bruyne vicino al cerchio di centrocampo. Il trequartista del City, sentendo l’arrivo di Kjaer alle spalle, ha anticipato la giocata, e di prima ha aperto a destra per Lukaku. Vestergaard ha provato ad intercettare la linea di passaggio ma ha sbucciato il pallone e a quel punto per l’attaccante dell’Inter il campo si è aperto fino all’area di rigore. In quelle condizioni per Kjaer non c’era più modo di recuperare e nel tentativo disperato di fermare Lukaku è finito a terra come un vitello in corsa su un lago ghiacciato.
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Qualcuno starà già pensando che queste condizioni tattiche di partenza sarebbero valse a poco senza la tranquillità con cui De Bruyne ha fintato il tiro costringendo Wass e Vestergaard a una coreografia ridicola nel tentativo di stoppare un tiro che non è mai avvenuto, e senza la sua visione nel trovare Thorgan Hazard al centro dell’area senza nemmeno aver avuto bisogno di guardarlo. Se però tornate al momento in cui Lukaku gli serve il pallone, noterete come l’attaccante dell’Inter poteva in quel momento passarlo in maniera molto più diretta a Carrasco, che ha lo spazio davanti a sé per tirare solo al centro dell’area. Lukaku invece ha deciso di prendere la via più controintuitiva tornando indietro verso il trequartista del City, affidandosi istintivamente al suo talento.
In quell’apparentemente assurdo passaggio di Lukaku c’è tutta la tranquillità restituita da De Bruyne alla squadra, la sua autorevolezza nei confronti dei compagni, con cui il Belgio ha vinto in un contesto emotivo obiettivamente complicato. Il suo ingresso in campo non ha spaccato la partita, come si dice in questi casi, ma al contrario è sembrato dare un senso in maniera naturale al Belgio, senza sforzo. Come se l’agitazione in cui era annegato nel primo tempo derivasse dalla sua assenza, più che dall’impeto della Danimarca.
De Bruyne non ha la disperazione cristologica con cui Lukaku si carica quasi letteralmente le proprie squadre sulle spalle, ma sembra dare un significato alle cose in campo solo con la presenza. I suoi 45 minuti di ieri non sono stati fatti da corse che hanno inclinato il campo, da lanci chilometrici che hanno tagliato a metà la squadra avversaria o da corse che hanno bruciato le fasce. Il suo gioco non sembra dire: adesso ci penso io, ma adesso troveremo una soluzione. Anche il secondo bellissimo gol, a rivederlo con attenzione, è un tiro meno irresistibile di quanto non sembri. Ciò che è davvero eccezionale - oltre al paio di dribbling con cui Lukaku riesce a riciclare una palla sporca sull’esterno destro - è il modo assolutamente armonico con cui il Belgio si organizzato spontaneamente per liberarlo al limite dell’area. De Bruyne si era attardato in maniera un po’ pigra dall’altra parte del campo e si è ritrovato in quella posizione quasi per caso: è stato il taglio in area di Thorgan Hazard e poi il tocco a preparargli il tiro di suo fratello a metterlo nelle condizioni di battere a rete.
Il taglio di Thorgan Hazard, in particolare, ha attirato al centro Stryger Larsen, liberando lo spazio al limite dell'area per il tiro di De Bruyne.
Per quanto gli aggiustamenti tattici di Martinez sono stati importanti, come abbiamo detto, il talento di De Bruyne sembra portare naturalmente con sé il contesto più adatto all’interno del quale esprimersi. Nel suo calcio così semplice e allo stesso tempo così complesso - fatto di aperture di prima e piccoli ricami a legare l’attacco con il centrocampo - sembra esserci già la tranquillità con cui i suoi compagni sanno di potersi organizzare intorno a lui.
Dopo aver segnato il secondo gol, De Bruyne ha fatto una piccola corsetta a braccia aperte verso gli spalti, ma subito si è fermato assumendo la più ieratica delle espressioni. Witsel, che stava correndo per festeggiare con lui, si è fermato quasi con imbarazzo, gli ha toccato la testa con un po’ di indecisione, e solo alla fine lo ha abbracciato in maniera molto delicata. Solo dopo la fine della partita ho scoperto che l’esultanza compostissima di De Bruyne era dedicata ad Eriksen: «Sono andato nella parte del campo dove è svenuto sabato e sono rimasto calmo». Lì per lì devo ammettere di non aver pensato a un significato. Credevo fosse solo la rappresentazione statica del modo in cui aveva giocato fino a quel momento. Un modo per dire: tranquilli, ci sono anche io.