Dopo aver gettato Wembley tra le fiamme dell’inferno, Donnarumma si allontana dalla porta abbassando gli occhi a terra. Cammina tranquillo verso un punto imprecisato nonostante abbia appena parato l’ultimo rigore di Saka, è stranamente sconsolato. Ho fatto il mio, sembra dire l’ombra sul suo sguardo, non ho tempo né voglia di vedere come vi ho appena condannato alla dannazione eterna. Ecco a chi somiglia, Donnarumma: a Wolverine che si allontana dall’elicottero che ha appena fatto esplodere senza curarsi del fuoco che sta divampando alle sue spalle. Se avesse avuto gli occhiali da sole di Tom Cruise in Top Gun, a quel punto se li sarebbe inforcati sopra al naso. Se avesse avuto il poncho messicano di Clint Eastwood ne Il Buono, il Brutto e il Cattivo se lo sarebbe aggiustato sulla spalla, passandosi il sigaro da un angolo all’altro della bocca.
Con la calma affabilità da gigante buono, in realtà Donnarumma non è così cool, e di certo non lo è stato di proposito in quel momento, in cui, come ha ammesso dopo la partita, non era nemmeno sicuro di aver vinto e stava guardando l'arbitro per paura del VAR. Se mi è sembrato Wolverine che si allontana da un'esplosione è più per il mio sguardo da tifoso che nel momento in cui Jorginho ha sbagliato il rigore che avrebbe potuto farci vincere gli Europei si è disperato solo per un attimo: quello immediatamente precedente all'attimo in cui ho pensato “adesso però loro devono segnare a Donnarumma”. In quel momento il mio cuore ha fatto come Belotti subito dopo la sua parata su Saka: si è aggrappato con tutte le sue forze sulle sue spalle enormi, che fanno sembrare un ragazzo alto più di un metro e ottanta, e pesante circa 75 chili uno zaino da campeggio a forma di panda.
È strano celebrare un portiere dopo una partita in cui ha fatto una sola parata in 120 minuti, nemmeno così difficile tra l’altro. Una respinta alta su un colpo di testa lento e centrale di Stones, al 64esimo del secondo tempo, su calcio d’angolo. Ma se alla fine di un torneo in cui complessivamente ha fatto appena 10 parate in 7 partite, solo una in più di quante il portiere della Scozia ne ha fatte in 3; in cui l’Italia ha subito appena 0.73 Expected Goals a partita, più solo della Francia secondo i dati di Statsbomb; se alla fine di un torneo in cui è stato così poco sollecitato, dicevo, l’abbiamo visto ricevere il premio di miglior giocatore dell’Europeo allora forse non è stata solo un’impressione nostra. Donnarumma ricade nel dilemma che riguarda tutti i più grandi portieri: per lui è stato davvero tutto facile o è il suo talento che ce l’ha fatto sembrare tale? Il confine tra una grande parata e un tiro non irresistibile è più sfumato di quanto non sembri.
Ieri ha ribaltato l’inerzia dei rigori senza nemmeno sfiorare il pallone. Quando Rashford si è presentato dal dischetto con un gol di vantaggio, mettendosi esattamente in linea col pallone con una posa davvero da film western, Donnarumma è rimasto immobile come un totem. Anche davanti alla sua rincorsa ad allargarsi, e poi davanti ai suoi passettini, all’allungarsi infinito dell’attesa in cui sarebbe arrivato al tiro, ha aspettato. Solo poco prima che arrivasse a colpire il pallone ha fatto un passo sul posto a sinistra, come a increspare l’erba sulla linea di porta e le certezze nella testa di Rashford. Magari sono solo i nostri occhi a collegare il suo palo esterno alla mossa di Donnarumma ma è impossibile non pensare che l’attaccante del Manchester United abbia davvero allargato il tiro il più possibile pensando che il portiere italiano si sarebbe buttato da quel lato. Sia Sancho che Saka nei due rigori successivi hanno entrambi tirato dalla parte opposta, come se quel piccolo passo avesse ipnotizzato tutti i rigoristi successivi. In entrambi i casi, l’ex portiere del Milan ci è andato con la sicurezza di chi già sapeva cosa stava succedendo, respingendo il pallone con entrambe le mani. I loro due rigori, tra l'altro, sono abbastanza simili a quello parato a Morata in semifinale: cosa sa Donnarumma che noi non sappiamo?
È paradossale, ma i rigori in questo Europeo sono stati la nostra zona di comfort. D’altra parte, più si andava avanti in un grande torneo per Nazionali, più le squadre rimaste si aggrappavano alla propria illusione di controllo sulla realtà. L’Inghilterra al fatto che mettendosi in undici uomini dietro la linea della palla non avrebbe mai subito gol. L’Italia, invece, alla mistica della monetina, che ci aveva già fatto vincere l’Europeo del 1968 e che per due volte di fila in questo Europeo ci ha dato il vantaggio di cominciare la serie dei rigori. Domenica Chiellini, contravvenendo a qualsiasi legge nazionale sulla scaramanzia, dopo aver vinto il testa o croce ha esultato come se avesse segnato un gol, battendosi il pugno sul petto. E ancora prima, contro la Spagna, i sorrisi e gli abbracci di Mancini, De Rossi e lo stesso Chiellini rivelavano un’euforia incosciente in una pratica, quella dei rigori, che di solito viene paragonata alla roulette russa. Forse c’era la consapevolezza del fatto che chi comincia a tirare i rigori è statisticamente avvantaggiato, ma credo anche la rilassatezza nel sapere che nella sfida dagli undici metri tra Donnarumma e qualsiasi squadra del pianeta terra probabilmente l’avrebbe spuntata Donnarumma.
Anche prima dei rigori, una parte della nostra spensieratezza credo fosse dovuta al fatto che anche se tutto fosse andato nel verso sbagliato e qualsiasi nostro piano si fosse rivelato fallimentare ci sarebbe stato Donnarumma. Gli unici momenti di terrore che abbiamo provato in questo Europeo, quelli in cui ci siamo sentiti in balia delle onde, sono stati quelli in cui Donnarumma è apparso leggermente più imperfetto rispetto alle incredibili aspettative che avevamo nei confronti delle sue capacità di impedire alla palla di entrare in porta. Quando, cioè, al 65esimo del secondo tempo di Italia-Austria si è fatto superare prima dalla torre di Alaba in area e poi dall’assurdo pallonetto di testa di Arnautovic, che per eludere la sua uscita era riuscito a mandare la palla sotto la traversa (un gol poi annullato dal VAR per fuorigioco). O quando domenica, sull’immediato gol di Shaw, in maniera del tutto irrazionale siamo arrivati a pensare che forse avrebbe potuto coprire meglio il suo palo. Solo con Donnarumma possiamo avere questo tipo di pretese, che ci hanno portato per tutto il torneo a valutare la normalità degli altri portieri alla sua eccezionalità. In quanti domenica hanno pensato che Donnarumma lo avrebbe parato, il rigore di Bonucci?
Il problema è che fino a quei momenti ci aveva abituato troppo bene. Contro l’Austria, alla fine del primo tempo supplementare, aveva intercettato un tiro potentissimo di Schaub da fuori area, di quelli che trasformano i portieri in statue di pietra, allungandosi alla sua sinistra con la stessa rilassatezza con cui noi lo facciamo in acqua d’estate, quando qualcuno ci tira dalla spiaggia (non ditemi che non l’avete mai fatto). Che Donnarumma fosse già pronto a un tiro del genere (per quanto possa sembrare incredibile) lo si capisce dalla solidità del suo polso, che ha fatto rimbalzare mollemente il pallone a terra, come se l’avesse bucato con la mano. Poi con il Belgio ha fatto lo stesso, ma buttandosi dal lato opposto, e soprattutto su uno di quei tiri di Kevin De Bruyne che sembrano uscire dal piede come cacciabombardieri che prendono velocità sulla pista di decollo.
Pochi minuti dopo è stato invece Lukaku ad apparire troppo velleitario nella sua conclusione, dopo aver spostato Chiellini con un doppio passo e aver provato un tiro lento ma preciso sul palo più lontano mentre cadeva. La parata più difficile, però, è arrivata contro la Spagna. Era il 25esimo del primo tempo e, su un rimpallo in area, Dani Olmo era arrivato due volte a tirare da posizione sempre più ravvicinata: prima vedendosi stoppato da Bonucci, poi, a una manciata di metri dalla linea di porta e con lo specchio aperto, calciando esattamente dove Donnarumma si stava tuffando a mano aperta, verso l’angolo in basso alla sua destra, scendendo a terra a una velocità vertiginosa per la sua stazza.
Eppure nessuna di queste parate ci è sembrata davvero difficile: non abbiamo mai veramente gridato al miracolo. Con Donnarumma vale la pena scomodare un parallelismo con Djokovic che dopo la sconfitta di Berrettini è doloroso ma rende bene l’idea: è solo vedendo la costanza e l’apparente facilità con cui respinge i tiri avversari, senza nemmeno le contorsioni a cui è costretto il tennista serbo, che si può capire quanto gli avversari siano costretti a scelte forzate o controintuitive per provare a sorprenderlo. E quindi come la sua aura, rafforzata dal suo metro e novantasei, li costringa a errori che altrimenti non farebbero. Lo abbiamo visto domenica: quanto quelli di Rashford, Sancho e Saka sono errori, e quanto invece sono timore di Donnarumma? Mentre Pickford ha dovuto inventarsi qualcosa per spaventare gli avversari - ballando sulla linea, agitando le braccia, parlando da solo - a Donnarumma è bastato tenere il suo solito sguardo placido da campeggiatore hippie e tuffarsi. Per lui parlavano le partite precedenti.
Quando dopo la fine della partita sono entrati per consegnargli fisicamente il premio di miglior giocatore del torneo, qualcuno accanto a me tra il serio e il faceto ha creduto che gli stessero dando direttamente il Pallone d’Oro. Dentro di me ho pensato che, se non fosse stato per quell’abominio del premio Yashin che di fatto rende impossibile ai portieri vincere il Pallone d’Oro, non sarebbe un’idea così peregrina a vedere solo questi ultimi tornei per Nazionali. Con Yashin, tra l’altro, Donnarumma condivide l’aneddoto biografico di essersi rivelato al mondo in una partita a Wembley contro l’Inghilterra. Per il portiere russo, la mancanza di immagini e informazioni sul calcio sovietico avevano reso sufficiente un’amichevole in cui difendeva i pali di una rappresentativa dei migliori giocatori del resto del mondo nel 1963 a convincere France Football a consegnargli il Pallone d’Oro. Per Donnarumma, invece, ci è voluto un intero torneo e una finale vinta contro l’Inghilterra a spazzare via gli ultimi dubbi sul suo reale valore, forse dettati dalle polemiche legate alla sua situazione contrattuale con il Milan o più probabilmente dalla giovanissima età. D’altra parte, era oggettivamente difficile credere che a 22 anni un portiere potesse essere già così forte.
Ma se il paragone con Yashin ci sembra una bestemmia per la semplice ragione che è posto in un passato mitologico che non può essere messo in discussione, ce n’è un altro che dopo questo Europeo vinto ha già iniziato a farsi strada, nonostante in Italia forse sia ancora più controverso. Domenica, interrogato sul paragone con Buffon che lo accompagna praticamente da quando ha fatto il suo esordio in Serie A, Donnarumma ci ha tenuto a non toccare gli idoli, dichiarando che «Gigione è il più forte di tutti». Se prima di questi Europei tutti quanti avremmo risposto con la stessa nettezza, adesso in molti non saranno più così sicuri e per lo meno se ne potrà iniziare a discutere senza passare per pazzi.