Prima di parlare degli ottavi di finale, lasciatemi dire che mi ha riempito d’orgoglio il fatto che l’Italia abbia giocato contro il Galles con il lutto al braccio, la scorsa domenica. Aver voluto ricordare così l’omicidio di Adil Belakhdim, investito venerdì da un camion frigo, mentre protestava contro le condizioni di lavoro di un magazzino a Novara bloccandone l’accesso, è stato un gesto significativo e chiaro. Per una volta, in un Paese spesso confuso su cosa possa essere divisivo ma comunque giusto, e cosa sia semplicemente sbagliato, quel lutto non serve solo ad onorare Belakhdim ma anche Luana D’Orazio, operaia tessile morta sul lavoro in provincia di Prato, a causa di un macchinario che la perizia chiesta dal pubblico ministero ha scoperto essere stato manomesso per ragioni produttive. Oppure, ancora, le quattordici vittime della funivia dello Stresa-Mottarone, anche in quel caso un incidente dovuto a un macchinario manomesso per ragioni economiche.
Certo, lo so che non è andata così. Anzi, mi scuso per il sarcasmo di cattivo gusto. Non voglio togliere nulla al ricordo di Giampiero Boniperti, ex calciatore della Nazionale e della Juventus e grande dirigente, né ridurre il problema delle morti sul lavoro a una questione puramente simbolica o formale. Però, come dire, ho l’impressione che sia tanto naturale omaggiare un leggenda del passato come Boniperti quanto impossibile prendere una posizione che abbia significato qui, ora, nel nostro presente. Anche una posizione discutibile, che susciti dibattito, ma che quanto meno ci faccia sembrare una società viva, coraggiosa, con la capacità di immaginare un futuro che non sia stare sul divano a guardare le foto di quando eravamo bambini e i nostri nonni ci tenevano in braccio.
Prima dell’inizio dell’Europeo avevo pensato che sarebbe stato bello se il lutto al braccio, l’Italia, lo avesse portato per ricordare Seid Visin, giovane ex-calciatore morto suicida a vent’anni, che in passato aveva scritto parole commoventi sul razzismo che ha subito in quanto italiano di pelle nera. In fondo, mi dicevo, anche le questioni più importanti vanno affrontate su più piani, alcuni concreti, altri meno, puramente simbolici e culturali. Anzitutto perché dietro le azioni concrete, tipo le leggi o i comportamenti quotidiani dei cittadini, ci sono la cultura e la mentalità del Paese in questione, altrimenti tutte le società avrebbero le stesse leggi e tutti si comporterebbero nello stesso modo. E la mentalità e la cultura di un Paese, o di un insieme di Paesi, si esprimono anche attraverso dibattiti culturali, simboli, immagini.
E poi se così non fosse, se questo genere di cose fossero davvero irrilevanti come alcuni sostengono, be’, non parleremmo di politica e diritti civili quando parliamo di nazionali di calcio. E invece ne parliamo. Ne parlano i calciatori anzitutto, e anche quando non ne parlano è una scelta intrinsecamente politica. Negarlo, in nome di una presunta apolicità dello sport significa ignorarne la storia. Quando ci sono state discriminazioni, ingiustizie, conflitti, in un modo o nell’altro sono sempre finiti in qualche storia di sport, da Carlos Caszely che rifiuta di stringere la mano a Pinochet, che poi gli tortura la madre, e dai pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos in favore dei diritti umani, che gli costerà la squalifica a vita dalle Olimpiadi. Alla propaganda di governi, dittature e politici di ogni schieramento. La storia dello sport è anche una storia politica: provate a immaginare di raccontare questo Europeo senza le sue ramificazioni politiche e culturali. Impossibile.
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La mia impressione è che noi italiani vorremmo evitare del tutto il discorso. Cosa c’è dietro questo desiderio di non parlarne meriterebbe una riflessione più lunga, ma il fatto è che, a due giorni dall’ottavo con l’Austria, si parla solo del fatto che gli azzurri non si inginocchieranno prima della partita, un gesto diventato popolare negli ultimi anni (Colin Kaepernik ha cominciato a farlo addirittura nel 2016, quando il presidente degli Stati Uniti era ancora Obama) e universalmente riconosciuto come segno di protesta antirazzista. Contro il Galles, quando cinque giocatori italiani si erano inginocchiati e gli altri no avevo pensato fossero semplicemente confusi sul da farsi, colti di sorpresa. D’altra parte, mi dicevo, senza neanche un giocatore con la pelle nera in squadra (tranne Emerson Palmieri, che però rientra nella lunga tradizione degli oriundi), uno dei tanti italiani nati da genitori immigrati, oppure adottati, ci può anche stare che non si sia parlato della volontà, o meno, di dichiarare simbolicamente che si è contro ogni forma di discriminazione.
E invece dopo una discussione, che evidentemente deve aver coinvolto anche i dirigenti, hanno deciso di unirsi nel non unirsi alla protesta. Che è un po’ cervellotica come presa di posizione, se ci pensate, soprattutto se si considera che la scorsa settimana il principale discorso che si faceva era che non sarebbe stato giusto imporre a nessuno di inginocchiarsi, che la libertà di pensiero andava difesa: e adesso, che fine faranno la libertà di pensiero e i suoi difensori? E se un giocatore volesse inginocchiarsi?
(EDIT: Dopo la pubblicazione di questo articolo c'è stata un'altra riunione tra squadra e staff della nazionale da cui è uscita una posizione leggermente diversa: non ci vorremmo inginocchiare ma se lo faranno i nostri avversari magari ci adeguiamo. Si conferma la sostanziale codardia nel prendere una posizione netta che possa scontentare qualcuno, pur lasciando trapelare un'indifferenza di fondo sui temi generale dell'antirazzismo e dei diritti civili, ridotti a una questione di buona educazione.)
A me pare che ci si illuda che così facendo non si stia prendendo nessuna posizione, o meglio, che si possano prendere entrambe le posizioni. Come ha detto Bonucci: «Siamo tutti antirazzisti, indipendentemente dai gesti di denuncia». Che sì, va bene, un ragionamento del genere funziona pure in Italia, dove nessuno è razzista, nessuno omofobo, nessuno misogino, anche se ci sono crimini razzisti, omofobi e contro le donne ogni giorno. Tanto più se si parla di calcio, un universo a parte dove è possibile fare versi da scimmia ai giocatori di pelle nera e comunque offendersi se si viene accusati di razzismo. Il fatto è che all’estero non ci cade nessuno in questo tipo di dialettica, e lo sguardo sui giocatori della nazionale italiana, stavolta, non sarà solo il nostro.
Anzi, sapete cosa? A me sta benissimo che i giocatori italiani non si inginocchino. Mi sembra persino più coerente rispetto al clima politico, e alla consapevolezza su questo tema, che respiro ogni giorno. D’altra parte l’Italia non sarà l’unica squadra a non inginocchiarsi e non mi sembra scandaloso, per qualsiasi ragione venga fatto. Così come mi stanno bene i fischi di (parte) del pubblico e la decisione della UEFA di impedire che l’Allianz Arena di Monaco si colorasse coi colori dell’arcobaleno per ricordare la parità dei diritti agli ospiti ungheresi, mentre la Puskas Arena è stata riempita al 100% per celebrare il potere di Orban e, al tempo stesso, quello della UEFA.
Però ecco, non venitemi a dire che questi non sono atti politici. E non pensate che non ci saranno gesti di risposta. A me stanno bene tutte quelle cose elencate sopra – e che in realtà non mi stanno bene che no (citando il rifiuto spontaneo di un ragazzo romano di qualche anno fa, di fronte alla logica astratta della politica) – perché mi accontento di giocatori come Goretzka che saluta con un cuore i tifosi ungheresi che davano dei gay ai calciatori. O di Georginio Wijnaldum che, a Budapest, indosserà la fascia da capitano arcobaleno. E di tutti quelli che parleranno di questi temi, alla faccia di chi vorrebbe nasconderli sotto al tappeto. Alla faccia nostra, cioè. Perché per carità, ci saranno metodi più efficaci per combattere il razzismo, l’omofobia eccetera, ma un uomo o una donna in ginocchio di fronte all’ingiustizia, o anche in piedi, seduti, su una gamba sola, ma con il coraggio di guardare in faccia la violenza delle discriminazioni, su di me ha sempre un effetto potente.
Foto di Alexander Hassenstein/Getty Images
Ma andiamo avanti. Parliamo degli ottavi di finale, che neanche Hitler in persona seduto sugli spalti potrebbe farmi passare la voglia di vedere.
E cominciamo da una considerazione forse banale ma che, giunti a questo punto del torneo può essere interessante fare. L’Europeo, come il Mondiale, è una competizione più lunga di quel che si pensa, e inizia veramente dagli ottavi di finale: sono quattro partite in cui le grandi squadre trovano, se la trovano, la propria identità profonda. Ricordate il Portogallo nel 2016? Passò il girone tra le migliore terze, con appena 3 punti dopo aver pareggiato con Islanda, Austria e Ungheria. Poi però qualcosa è cambiato e in finale ci sono arrivati con una consapevolezza profonda delle proprie possibilità e anche dei propri limiti.
L’Italia ha il vantaggio, rispetto a quasi tutte le altre, di arrivare con un’identità già chiara e rodata. La difesa a 5 provata nel secondo tempo con la Svizzera, anzi, mostra che Mancini ha così fiducia nel suo sistema che si può permettere di provare un assetto che magari tornerà utile per controllare il vantaggio in partite di più alto livello. Tentativo a mio avviso non riuscito fino in fondo e che serve a ricordare al tecnico stesso la delicatezza di ogni suo intervento sulla partita.
Mancini per ora non ha sbagliato niente. La tranquillità con gioca l’Italia è tutta sua e mi auguro la mantenga, ora che arrivano le partite più difficili e i momenti di maggiore tensione. Con Chiesa che scalpita e Verratti tornato a disposizione, anche se non ancora al meglio della forma, Mancini ha anche la possibilità di scegliere assetti tattici leggermente diversi o di cambiare la partita in corso cambiando gli interpreti. La profondità della rosa è una condizione necessaria per anche solo pensare di poter arrivare lontani.
Diciamolo chiaramente. L’Austria non è al nostro livello, ma è una squadra duttile (può giocare con la difesa a 3 come a 4) e contro l’Ucraina ha portato in campo un’intensità e un’aggressività senza senso. Prima della partita con la Svizzera dicevo ben venga il pressing, almeno l’Italia affina le armi del proprio palleggio e la propria capacità di attaccare negli spazi alle spalle della pressione. Lo stesso vale con l’Austria, solo a un livello diverso, superiore. Non ci sono ragioni – a parte il solito refrain nel calcio tutto è possibile - per pensare che l’Italia non debba farsi trovare pronta. Semplicemente perché lo ha sempre fatto per ora.
A proposito. L’Italia è la squadra che ha subìto meno xG di tutti i gironi (0.32, in media), e ne ha generati (1.82) più di tutte le altre ad eccezione di Olanda e Spagna. Per dire, la seconda squadra ad aver subito meno, l’Inghilterra (0.48), che è anche la sola altra squadra a non aver subito neanche un gol, ha creato poco davanti (0.90). Su solo tre partite le statistiche lasciano il tempo che trovano, ma testimoniano comunque il dominio pressoché assoluto avuto dall’Italia. Adesso, o qualcuno pensa davvero che nel girone abbia pescato le tre squadre più scarse di tutto il torneo, e che Galles e Svizzera, per dirne due che vedremo anche agli ottavi, siano inferiori a Ungheria e Scozia, oppure abbiamo ragione ad essere ottimisti prima di questi ottavi.
Il che non significa che si possa già pensare ai quarti e a chi sarebbe meglio affrontare tra Belgio e Portogallo. Poco importa, l’Italia dovrà salire, uno alla volta, i gradini che si troverà davanti, dimostrandosi all’altezza anche di grande squadre (come, d’altra parte, lo è stata quando ha battuto l’Olanda ad Amsterdam un anno fa). Il calcio, come anche il resto delle cose di cui abbiamo parlato, è una questione di resistenza. Di come si resta saldi anche nelle avversità, sicuri del valore delle proprie idee e sempre in grado di immaginare un futuro migliore del presente. E l’Italia è tanto confusa, inconsapevole e poco preparata fuori dal campo, quanto organizzata e pronta quando si mette gli scarpini ai piedi.