Dopo una partita stoica contro i campioni del mondo, l’Ungheria si dirige verso una delle due curve della Puskas Arena - pieno come non eravamo più abituati a vedere. La squadra di Marco Rossi, disposta in fila orizzontale, fissa gli spalti gremiti e viceversa, c’è un attimo di tensione da film western. Quando i giocatori mettono la mano destra sul cuore, però, l’equilibrio si spezza: sugli spalti vengono innalzate le sciarpe rosse, bianche e verdi come fossero stendardi medievali in un campo di battaglia, e lo stadio inizia a cantare l’inno dell’Ungheria. È un rito perfettamente a metà tra il sacro e il laico che nella società occidentale contemporanea è possibile in maniera autentica solo nel calcio e nello sport più in generale: vediamo i giocatori cantare a pieni polmoni fissando il pubblico, quasi commossi, ma la voce che sentiamo è quella del pubblico. È la perfetta rappresentazione dell’ideale (e idealizzata) compenetrazione tra massa e individui in campo.
Ritagliata fuori dal contesto dallo schermo del televisore la scena è davvero impressionante, come hanno fatto notare i telecronisti invitando il pubblico a casa a guardare alzando il volume. È solo reinserendo questa scena all’interno della contingenza, però, che la sua ambiguità fuoriesce. Il teatro in cui si svolge, cioè la Puskas Arena, è stato costruito nel 2019 dal governo Orban al costo non indifferente di mezzo miliardo di euro, nell’ambito di un piano più grande che punta ad utilizzare il calcio come nuovo orizzonte per l’orgoglio nazionale. In cui la spinta verso un futuro di rinascita del movimento calcistico del Paese è inconfondibile rispetto al ritorno a un passato dorato e senza tempo, dove l’Ungheria era la più forte Nazionale europea e il giocatore più forte del mondo era ungherese (Puskas, per l’appunto).
Un piano che, al di là dei suoi confini simbolici, ha risvolti molto materiali: agli imprenditori che fanno donazioni alle squadre di calcio, infatti, il governo ungherese garantisce corposi sgravi fiscali. In questo modo, in Ungheria nell’ultimo decennio sono state costruite molte accademie per lo sviluppo del calcio giovanile e più di 25 nuovi stadi. Tra questi anche quello della Puskas Akademia, nella piccola cittadina di Felcsut: capienza da quasi quattromila persone per meno di 1700 abitanti, forse per l’onore di aver visto crescere Viktor Orban cinquant’anni fa. Si chiama Pancho Arena, in onore al più intimo dei soprannomi di Puskas, e negli ultimi anni ha visto primeggiare la squadra che ospita: dopo il terzo posto nella stagione 2019/20 e arrivato il secondo in quella appena conclusa, che garantisce l’accesso ai playoff di Conference League.
Ma della scena che abbiamo visto dopo Ungheria-Francia ci ha disturbato anche chi ne ha preso parte, perché era impossibile non notare che una parte considerevole dello stadio era occupato da un gruppo organizzato in maglia nera dalla chiara connotazione politica. Lo stesso gruppo che, prima della partita, aveva marciato a migliaia per le strade di Budapest con striscioni contro il kneeling (l’iniziativa di alcune squadre di inginocchiarsi in solidarietà al movimento Black Lives Matter prima del calcio d’inizio), in un paese in cui il limite massimo di persone che possono partecipare a una manifestazione è teoricamente fermo a 500.
Anche conoscendo il contesto che la circonda, però, l’immagine dell’Ungheria che canta l’inno a cappella dentro la Puskas Arena non è troppo diversa da quella del Brasile ai Mondiali di sette anni fa, dove l’inno della Seleçao veniva interrotto per far cantare il pubblico (un altro momento catartico che ebbe un ruolo non irrilevante nell’ascesa politica di Jair Bolsonaro), o da quelle che rimbalzano sui social ogni volta finisce una partita dell’Italia, dove si vedono i giocatori della Nazionale arrivare vicino a sputare i polmoni pur di urlare l’inno di Mameli. Cos’è che ci scandalizza, quindi? Il fatto che una parte della tifoseria organizzata al seguito della Nazionale ungherese sia di estrema destra? O che il calcio sia diventato ormai abituale terreno di conquista di spinte nazionalistiche che non sono le nostre?
Non vedo enormi differenze tra le aspirazioni calcistiche del governo Orban, che ha garantito il 100% della capienza del suo nuovo scintillante stadio alla UEFA, alla sotterranea concorrenza diplomatica che si è scatenata per gli stessi motivi tra alcuni governi europei e quello inglese. Anche loro alla fine hanno cercato di utilizzare il calcio per i loro fini politici. Fin da questa primavera, il governo Johnson, fresco di Brexit, voleva provare l’efficienza della sua campagna vaccinale al di fuori della opprimente burocrazia di Bruxelles proprio ospitando più partite possibile degli Europei. Quando poi la variante delta ha stravolto questo piano, impedendo a Johnson di allentare ulteriormente le misure anti-Covid come richiesto della UEFA, il primo ministro inglese ha dovuto subire la pressione prima dell’Ungheria e poi addirittura dell’Italia. Pochi giorni fa Mario Draghi, durante il summit con Angela Merkel, aveva dichiarato infatti di volersi adoperare affinché la finale non si giocasse «in un paese dove i contagi stanno crescendo». Ieri il governo inglese, pur di non perdere questa battaglia diplomatica e l’appoggio della UEFA in vista della sua candidatura per i Mondiali del 2030, ha quindi sacrificato le sue legittime preoccupazioni sanitarie, concedendo una capienza di almeno 60mila spettatori dalle semifinali in poi.
Anche sulle tifoserie bisognerebbe fare una riflessione. Se è facile infatti ricordare che la tifoseria ungherese era la stessa che poche settimane fa fischiava la Nazionale irlandese che si inginocchiava per mostrare la propria solidarietà al movimento Black Lives Matter, allo stesso modo è facile notare che in Inghilterra succede lo stesso ormai da settimane (persino prima che gli Europei iniziassero) e il kneeling è diventato un enorme caso politico, con tanto di teorie complottiste che lo descrivono come una gigantesca cospirazione marxista e taglienti dichiarazioni di esponenti locali del partito di governo, che per questa ragione hanno deciso di boicottare la Nazionale.
Più che riflettere lo stato politico di un Paese, la questione del kneeling è diventata la prova di quanto illusoria e in malafede sia la pretesa della UEFA di scindere il calcio dalla politica. Con questo Europeo, l’organizzazione guidata da Aleksandr Ceferin al contrario ha confermato di avere un’agenda politica molto chiara, che alla lotta al razzismo e alla discriminazione sta anteponendo la volontà di trasmettere un vago messaggio di rinascita del calcio e quindi della società tutta, con lo scopo più simbolico che commerciale di far rientrare i tifosi negli stadi a tutti i costi. È possibile che la UEFA sia davvero convinta che questo sia lo scopo del calcio sulla Terra, o che lo abbia fatto anche per togliere sotto i piedi del progetto della Superlega l’alibi finanziario della pandemia. Fatto sta che è all’interno di questa agenda politica che si è giocata la sfida diplomatica tra gli Stati, con il paradosso ulteriore di giocarsi nel contesto di una competizione che dovrebbe teoricamente esaltare il superamento del nazionalismo e la nuova identità europea (cioè, come recita il motto dell’Unione Europea, l’unità nella diversità).
In questo senso, è significativo che la UEFA abbia deciso di non adottare ufficialmente il kneeling, lasciando semplicemente la libertà ai giocatori che volessero farlo e invitando gli spettatori a rispettare il gesto. Una posizione debole che ha creato confusione persino nelle Nazionali che sono esse stesse simbolo di ciò che il kneeling difende, come la Francia. La squadra di Deschamps aveva annunciato di volersi inchinare prima dell’inizio degli Europei ma alla fine si è tirata indietro, forse perché nella partita d’esordio anche la Germania aveva deciso di non farlo. Che le Nazionali europee non riescano ad adottare una posizione unitaria su un tema così basilare e fondante delle nostre società è deprimente, ed è ancora più deprimente vedere squadre come l’Italia che sono talmente fuori da questo dibattito da non sapere nemmeno cosa fare di fronte a un avversario che si inginocchia, lasciando ai singoli giocatori la decisione su cosa fare all’ultimo momento. Prima del fischio d’inizio contro il Galles, Bonucci, Bastoni, Jorginho, Verratti e Chiesa sono rimasti in piedi perché volevano opporsi a quel messaggio o semplicemente perché non sapevano cosa stava succedendo? Sarebbe bello saperlo dai diretti interessati. La Nazionale, dal canto suo, ha precisato che prima del fischio d’inizio con il Galles c’è stata «un po’ di confusione» e che i giocatori non erano «del tutto preparati a quel momento». Nel frattempo, però, proprio quella confusione è stata terreno fertile per chi alla lotta al razzismo e alla discriminazione sotterraneamente si oppone, come conferma l’hashtag #iononminginocchio che in poche ore ha raccolto centinaia di tweet.
La cosa più deprimente di tutte, però, è vedere come la UEFA abbia creato le condizioni ideali affinché questa confusione si propagasse, legittimando il discorso di chi sostiene che questi gesti siano vuoti e di facciata. Pur di avere stadi con il maggior numero di tifosi ammessi, la UEFA ha permesso a politici come Viktor Orban non solo di deridere la lotta al razzismo ma anche di farlo utilizzando proprio la presunta apoliticità del calcio che la stessa UEFA utilizza come foglia di fico per coprire la sua inadeguatezza. «Le regole UEFA e FIFA non ammettono la politica in campo e nello stadio, e noi non solo le accettiamo ma siamo anche d’accordo: la Nazionale non si inginocchierà per esprimere la propria condanna ad ogni forma di odio», si legge in un comunicato paradossale della federazione ungherese di calcio. Viktor Orban, parlando sempre dei fischi dei tifosi ungheresi al kneeling dell’Irlanda, è stato se possibile ancora più chiaro: «Dal nostro punto di vista è una cosa incomprensibile, una provocazione. I tifosi hanno reagito come fanno di solito quando sono provocati».
Che quella della UEFA non fosse semplice negligenza nei confronti di posizioni simili ma vera e propria complicità lo si è capito poi a torneo in corso. Prima con l’assurda apertura di un procedimento disciplinare nei confronti di Manuel Neuer, colpevole di aver indossato una fascia da capitano di color arcobaleno. Poi con l’ancora più offensiva decisione di rifiutare la proposta del sindaco di Monaco, che aveva proposto di colorare di arcobaleno anche l’Allianz Arena per la partita di oggi contro l’Ungheria. La UEFA ha proposto come compromesso di illuminarlo in quel modo in altri giorni del torneo per non farlo apparire come un giudizio politico nei confronti della squadra ospite, facendo finta di ignorare che fosse ovviamente anche quello lo scopo. Ogni anno l'Allianz Arena viene illuminato in quel modo in vista del Christopher Street Day del 28 giugno, giorno in cui vengono promosse iniziative a difesa delle comunità LGBTQ+, ma la UEFA teoricamente permette che gli stadi vengano illuminati solo con i colori delle Nazionali o con quelli della manifestazione. Evidentemente, però, per i dirigenti di Nyon era di primaria importanza non urtare la sensibilità di un governo che poche settimane fa ha di fatto equiparato l’omosessualità alla pedofilia, con tutto ciò di terribile che ne consegue.
La UEFA ha preferito perseguire la sua agenda politica - quella di restituire un’immagine di stadi pieni e di calcio in festa - fino al punto di apparire del tutto incoerente rispetto alle campagne contro il razzismo che le discriminazioni che da anni promuove, almeno a parole. Il problema non è tanto che in questo modo sta paradossalmente indebolendo la sua stessa posizione, trasformando gli Europei in una battaglia tutt’altro che apolitica e spaccando l’opinione pubblica con una posizione molto più divisiva della difesa dei diritti della comunità LGBTQ+. E non è nemmeno lo squarcio del velo di Maya sulle sue reali intenzioni a difesa del calcio del popolo, come dicono stancamente i fan della Superlega.
Purtroppo il prezzo più alto non lo paga né la UEFA né chi la considera alla fine dei conti il male minore. Il prezzo più alto lo paga chi in Europa lotta davvero ogni giorno contro il razzismo e le discriminazioni, che alla fine di questi Europei avrà un po’ meno argomenti di fronte a chi dice che in fondo se il calcio promuove queste battaglie non lo fa perché ci crede, ma solo per interesse.