Nelle prime ore successive all’annuncio della Superlega, i modelli presi ad esempio per spiegare di cosa si trattasse e quali conseguenze potesse avere sono stati innumerevoli. Tra i tanti quello più sensato è l'Euroleague di basket, che dalla stagione 2000-01 è gestita di fatto dai club con un sistema misto di accessi per meriti sportivi e di licenze triennali e poi, dalla stagione 2016-17, decennali.
È un paragone che ci può stare anche per la presenza in entrambi i tornei di due rami della stessa polisportiva, ovvero Real Madrid e Barcellona. E proprio il presidente delle merengues, Florentino Perez, ha usato l’esempio della palla a spicchi: «Nel basket noi giochiamo Euroleague e la Liga ACB. Il Bayern Monaco fa lo stesso. Il calcio è diverso? Nel basket non hanno protestato. L'Euroleague ci ha salvato». Quest’ultima frase è interessante: è davvero così? Davvero questa competizione ha salvato i club?
Come funziona l’Eurolega
Come trattato in passato anche su queste pagine, dalla stagione 2016-17 l’Euroleague ha cambiato il proprio formato: un girone unico attualmente a 18 squadre (probabilmente 20 o 22 nel prossimo futuro) di cui 13 detentori di licenze pluriennali, una (l’Alba Berlino) con licenza biennale, le due finaliste dell’Eurocup della stagione precedente e due wild card. È sostanzialmente un sistema chiuso, che nel corso degli anni ha alzato sempre più le barriere d’ingresso per proteggere e rafforzare i club già presenti. L’impiantistica, per esempio, ha acquisito un peso via via sempre più importante tra i parametri d’accesso, nel senso che per avere possibilità di entrare nell’élite bisogna giocare in un’arena capiente e moderna, il più vicino possibile agli standard NBA.
L’Euroleague nasce nel 2000 e dopo un anno di braccio di ferro con la FIBA (la federazione internazionale, che nel frattempo ha creato un torneo tutto suo) si prende tutto il malloppo, complice il fallimento del principale finanziatore del rivale, la società di marketing ISL. Rispetto al modello proposto dai 12 club calcistici ci sono tre differenze sostanziali:
- l’Euroleague nasce sì in contrapposizione all’istituzione internazionale, ma sotto la spinta delle leghe nazionali che, riunite nell’ULEB, si fanno promotrici del cambiamento: in questo modo la rivendicazione è più forte e solida;
- al momento della nascita non ci sono le squadre con più blasone, bensì le squadre più forti in quel momento storico: per fare due esempi concreti, per l’Italia non c’è l’Olimpia Milano e per la Spagna non c’è la Joventut Badalona;
- la proposta Superlega rappresenta quella di un club elitario, quella Euroleague versione 2000 è invece molto più aperta;
- la controparte è talmente in difficoltà che si fa soffiare il marchio “Euroleague”, usato fino a quel momento, perché non ha pensato di registrarlo in tribunale.
E poi c’è il ruolo dei tifosi, che nel calcio hanno inscenato manifestazioni di protesta non solo sui social ma anche per strada, mentre nel basket hanno invece reagito in maniera molto più tranquilla. I tifosi del football sono di gran lunga numericamente superiori e molto più organizzati rispetto a quelli della palla a spicchi e sanno essere molto più rumorosi, come hanno dimostrato soprattutto i supporter britannici. Lo stringere l’imbuto dell’accesso è arrivato dopo 15 anni in cui tifosi e appassionati della pallacanestro europea hanno avuto tempo e modo di abituarsi all’idea, senza che gli sia stata proposta letteralmente dalla sera alla mattina: anche questo è uno dei motivi del flop della Superlega.
Dal 2009 la proprietà del torneo è in capo all’Euroleague Commercial Assets (ECA), una società a sua volta proprietà di 11 club (Anadolu Efes, Baskonia, CSKA Mosca, Barcellona, Fenerbahce, Maccabi, Milano, Olympiacos, Panathinaikos, Real Madrid e Zalgiris) con l’ULEB rimasta azionista di minoranza. L’Euroleague è dunque ora davvero la competizione dei club per i club. E se nel 2016 ha cambiato formato è perché la FIBA è tornata a farsi viva dopo 15 anni di accettazione dello status quo, creando una sua competizione e minacciando sanzioni verso squadre e giocatori che avrebbero aderito all’Euroleague (vi ricorda qualcosa?). Qui abbiamo raccontato i dettagli di quella vicenda i cui echi non si sono ancora del tutto spenti, con il fuoco che cova sotto la cenere.
Il rapporto con i campionati nazionali
Una delle critiche principali rivolte all’idea di Superlega è legata all’impoverimento dei campionati nazionali: se uno o più club hanno a disposizione per diritto divino molti più soldi rispetto alle rivali nella lega nazionale, la tesi è che non sia più possibile una leale concorrenza sul campo. Il basket ci dice però che questo è vero solo in parte. Sempre considerando l’esiguo numero di stagioni disputate, si fa presto a notare che nei campionati dove ci sono squadre che partecipano all’Euroleague con licenza pluriennale le squadre che lottano per il titolo sono spesso diverse, e che se il dominio esiste arriva da lontano.
È il caso della Lituania con lo Zalgiris Kaunas, dominatore incontrastato sin dal 1993 fatta eccezione per qualche sporadico inserimento del Lietuvos Rytas. O di Israele, dove comunque il Maccabi Tel Aviv ha completamente sbagliato tre stagioni di fila dal 2015 al 2017 senza arrivare neanche in finale. O ancora della Grecia, dove il duopolio Panathinaikos-Olympiacos è attivo dal 1993 e dal 2019 è un monopolio assoluto del Pana stante la retrocessione d’ufficio in A2 dell’Oly perché si rifiutò di disputare i playoff contro gli acerrimi nemici (è una storia lunga). In Turchia solo nel 2019 la finale è stata tra le due squadre di Euroleague, Anadolu Efes e Fenerbahce; in Spagna il Valencia si è inserito nell’egemonia del Real; in Italia l’Olimpia ha mancato due finali Scudetto su tre.
Dunque a conti fatti l’esistenza dell’Euroleague non ha modificato i trend già esistenti nei vari campionati. Non ha dunque dato una svolta radicale all’andamento degli albi d’oro né ha creato ex novo dittature sportive. L’alternanza al vertice in Spagna e Turchia è legata al fatto che si tratta di campionati ricchi, dove anche chi resta fuori dall’Euroleague si ritrova con budget competitivi sul mercato anche perché la ripartizione dei diritti tv frutta qualcosa a tutti. Al contrario dell’Italia, dove peraltro l’influenza maggiore deriva dal fatto che Milano non può schierare il roster al gran completo dal momento che per regolamento deve mettere a referto 6 italiani e non più di 6 stranieri. In tutti questi casi, poi, a rimescolare le carte ci pensano i playoff.
Questi dati però non sono applicabili in toto al calcio, sia perché parliamo di diverse grandezze economiche sia perché non c’è una post-season in cui rimettere in discussione quanto fatto in stagione regolare. Né tantomeno esistono regole così protettive per i giocatori autoctoni come quelle italiane. L’esistenza di una Superlega, senza mettere mano ad una riforma dei tornei nazionali e a una redistribuzione dei diritti tv, nel calcio rischia effettivamente di confermare i predomini già esistenti.
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Un grosso problema di soldi
È ovvio che cinque stagioni, con una pandemia in mezzo e tutti i problemi relativi a partire dagli incassi al botteghino inesistenti, sono un lasso di tempo non sufficiente per dare un giudizio complessivo sulla bontà del progetto Euroleague. Siamo a metà del percorso che le 11 detentrici di licenza decennale hanno intrapreso e la brusca frenata legata al COVID-19 non può non pesare. Tuttavia c’è un dato che emerge con forza e che sta portando l’ECA a fare valutazioni sul futuro a breve termine, soprattutto sul sistema misto di accesso.
Disputare una singola edizione dell’Euroleague equivale a un bagno di sangue. Dal 2016 Galatasaray, Darussafaka, Buducnost Podgorica, Unicaja Malaga, Gran Canaria e Valencia sono entrate nel torneo attraverso la qualificazione sul campo, vincendo l’Eurocup o piazzandosi nei posti riservati ai rispettivi campionati. Per tutti questi club c’è stata la necessità di alzare notevolmente il budget: allestire un roster di almeno 15 giocatori per affrontare coppa e campionato e muoversi in charter in giro per l’Europa sono solo due delle voci che costringono i dirigenti a trovare nuove risorse. I ritorni, però, non sono stati sufficienti anche in presenza di palazzetti dello sport all’avanguardia.
Prendiamo il caso di Gran Canaria, che dispone di un impianto da 11.740 posti costruito per i Mondiali del 2014. La media spettatori per le 15 partite interne dell’Eurolega 2018-19 è stata di 4.823 unità, superiore di circa un migliaio rispetto alla stagione precedente in Eurocup: decisamente troppo poco per aiutare in modo concreto a sostenere i costi. I diritti tv, nonostante siano venduti in 201 paesi, non costituiscono un’entrata economicamente rilevante. Per quanto riguarda il capitolo premi abbiamo solo indiscrezioni, come quello di nova.rs che nello scorso agosto riportò la notizia - non smentita dai diretti interessati - di un aumento del fondo premi: minimo 1.5 milioni di euro per i club licenzatari a lungo termine, minimo 500.000 per gli altri, 650.000 per i club che arrivano alla Final Four, un altro milione e mezzo per i vincitori, premi vari per i primi 14 classificati. Il totale si aggira sui 38 milioni di euro, decisamente insufficienti a coprire le spese richieste. Per dare un metro di paragone, chi vince la Basketball Champions League della FIBA prende un milione, che corrisponde a poco meno di un terzo del montepremi totale della competizione: di contro però ha spese decisamente ridotte per l’accesso e il mantenimento del posto.
Chi arriva dall’Eurocup - che è una competizione “subalterna” ma sempre sotto l’egida dell’ECA - ha diritto a rimanere un altro anno al piano di sopra a patto che si qualifichi per i playoff. Il che significa non solo attrezzarsi con una panchina corposa ma anche competitiva, senza naturalmente avere la certezza di ottenere il risultato. Così di fatto si crea un’ulteriore disparità economica e tecnica tra chi può permettersi di fare contratti biennali e triennali e chi invece deve ragionare molto bene sull’opportunità di andare oltre l’annuale.
Quale futuro per l’Eurolega
A conti fatti l’Euroleague sta viaggiando a due velocità. Sul campo il torneo è avvincente, a tratti entusiasmante. La regular season da 34 partite non risente per ora del rischio di partite meno combattute verso la fine tra squadre che non hanno più l’obiettivo playoff. E la stessa post-season, comprese naturalmente le Final Four, mette in mostra un basket di altissimo livello. Ci sono i giocatori più forti fuori dalla NBA e i migliori allenatori europei in un sistema che si autoalimenta e che tende verso l’alto.
Il buzzer beater di Zach LeDay di Milano in gara-1 contro il Bayern Monaco: davvero un magic moment.
Dal lato dell’organizzazione, al contrario, ci sono lacune che vanno affrontate in tempi stretti. Il sistema misto sta mostrando delle falle che potrebbero essere risolte facendo diventare l’Eurocup una sorta di Euroleague 2, dunque prevedendo un sistema di promozioni e retrocessioni tra le due competizioni. Dalla prossima stagione la seconda coppa prevederà delle licenze triennali e questo sembra andare nella direzione di un sistema sì chiuso ma con un numero maggiore di club coinvolti. E poi c’è l’aspetto della stabilità economica e della divisione dei proventi che sono stati al centro di un meeting semi-clandestino ad Atene tra 7 degli 11 club soci dell’ECA. Mancavano gli spagnoli e il Fenerbahce, ovvero le squadre più vicine allo storico commissioner Jordi Bertomeu la cui figura appare traballante secondo la ricostruzione di molti media.
Ma quindi, l’Euroleague ha salvato i club, come sostiene Florentino Perez? La risposta, al momento, è nì. I club che vi partecipano sono certamente più forti sul mercato, non solo degli appassionati; l’intera struttura è seconda al mondo del basket dietro solo alla NBA; i marchi che la compongono sono sempre più consolidati e riconoscibili. A tutto ciò però non si sta accompagnando una reale crescita economica in termini di ricavi e distribuzione di essi, ed è su questo che l’ECA deve lavorare nei prossimi anni per non rimettere tutto in discussione.