È stato bello perché non ce lo aspettavamo. È stato bello perché ci ha contraddetti. È stato bello perché dopo un anno e mezzo di pandemia eravamo stanchi, più lontani gli uni dagli altri che mai, più pessimisti che mai. È stato bello perché, per una volta, non ci siamo sentiti né in debito né in credito. Non eravamo i favoriti, non lo siamo stati fino all’ultimo, finché non siamo diventati semplicemente vincitori, ma qualcosa dentro di noi ci diceva che era giusto così, che ce lo meritavamo. Ancora oggi - a maggior ragione oggi - non sapremmo dire perché, ma non siamo stati fortunati, non solo almeno, non abbiamo rubato niente a nessuno. Semmai ce lo siamo preso, qualcosa che magari non era destinato a noi. L’Europeo vinto da Roberto Mancini e quell’armata Brancaleone di “mezzi giocatori”, come più di un tifoso italiano non si sarebbe vergognato a definirli prima della vittoria, e forse persino dopo, è un’impresa così unica che sembra vivere in un tempo tutto suo. L’Europeo 2020, giocato nel 2021, pochi mesi fa, eppure appartenente già a una dimensione onirica, al regno dei ricordi sfocati, che forse sono solo miraggi, inganni che la memoria ci fa per aiutarci a tirare avanti. O forse è solo la mia di memoria che inizia a fare cilecca, permettendomi al tempo stesso di ricordare tutto nei minimi dettagli eppure facendomelo sembrare falso, inventato.
Niente come un periodo di isolamento forzato in casa, con una figlia piccola e una moglie con la mascherina h/24, circondato dalla campagna e da una foresta così grande e con rocce così alte che ogni tanto qualcuno si perde e muore cadendo, può farti apprezzare il ricordo di partite viste chiusi in casa, un numero di persone che oggi ci sembrerebbe eccessivo in uno spazio troppo esiguo, le corse in balcone per guardare le strade già piene di gente, incoscientemente spensierata, gli abbracci, tutti quegli abbracci pazzi, fuorilegge. Non credo che l’Europeo possa essere considerato oggettivamente il momento sportivo dell’anno, in un anno in cui gli atleti e le squadre italiane hanno vinto moltissimo, in cui per la prima volta nella storia un italiano ha vinto i 100 metri piani, ad esempio, ma le ultime due partite messe insieme sono le mie quattro ore preferite di questo 2021. Il che la dice lunga anche sul resto del 2021.
Stanza #1
Ormai non è importante smentire quei luoghi comuni che ad alcuni apparivano scientificamente provati prima dell’Europeo - l’Italia non ha più grandi giocatori da almeno quindici anni, la crisi organica del calcio italiano complessa e stratificata, che ha a che fare prima di tutto con le gestione aziendale, la capacità di stare nel mercato, diciamo, programmando e non solo comprando, e che tira in ballo anche la recente ma ormai tipica diffidenza italiana nei confronti dell’innovazione, l’odio per i giovani, sta giungendo al termine, cancellandoci dalla mappa del calcio mondiale, e allora abbasso la tattica, Coverciano, bisognerebbe ripartire dalle basi, dall’ABC, dalle scuole calcio, dalla gavetta in provincia, eccetera eccetera. Perché la mancata qualificazione al Mondiale russo di tre anni fa non era stato un semplice incidente di percorso, quanto, con un certo giustificato fatalismo, di questi tempi, l’azzeramento del nostro valore calcistico, un malocchio che non puoi più toglierti.
Oggi sappiamo che discorsi del genere sminuiscono anzitutto la complessità del calcio giocato, si illudono di conoscere il mare perché hanno studiato il moto acquatico del bicchiere d’acqua che stringono tra le mani. Pensano di conoscere Chiesa, o Barella, perché hanno visto giocare Del Piero, o Baggio.
Va ricordata però l’illusione ambigua successiva alla partita con il Belgio, che era al tempo stesso: tutto può succedere; ma anche è già tanto essere arrivati fin qui. Il gol di Chiesa nella partita con la Spagna è stato recepito su questa stessa frequenza emotiva. In una partita così dura, se vai sotto, sotto resti. E invece un contropiede francamente velleitario, l’esterno di Insigne per Immobile che sembrava fatto tanto per, Immobile che corre tanto per, Laporte che scivola proprio per mestiere, Chiesa che si ritrova quella palla in area di rigore come un ragazzino che raccoglie dieci centesimi rotolati sul marciapiede da chissà dove. Comunque sembrava impossibile che un calciatore così casinista trovasse con precisione l’unica traiettoria per battere Unai Simon, e quando ti entra un gol del genere, soffri una partita che sembra durare delle ore, che non pensavi di saper giocare fino a quando la stavi giocando, lo stress dei rigori ti sembrano poca cosa, tutto sommato è il meno. Va bene così.
Foto di Matt Dunham - Pool/Getty Images
Dopo la celebre Italia e Germania finita 4-3, Gianni Brera scrisse: «Sono difensivista convinto ma questo non è calcio: è una miseria pedatoria. E anche stupidità». Io, nel mio piccolo, sono offensivista convinto, ma stavolta l’Italia ha fatto di necessità virtù e più che di miseria si è trattato di differenza di valore, e della capacità di riconoscerlo. Il contrario della stupidità: di fronte a un avversario come la Spagna c’è voluta non solo la capacità di accettare il confronto con qualcuno di superiore, ma anche la forza mentale per fare il proprio, aspettando il momento giusto per ribaltare il tavolo. Il segreto però, per imprese di questo tipo è non annunciarle in nessun modo: se vuoi scrivere un capolavoro della letteratura contemporanea, assicurati di non dirlo a nessuno prima di averlo scritto. La faccia di Manuel Locatelli, il primo rigorista di quella partita, vagamente somigliante allo sfortunato cantante folk protagonista di “Inside Llewyn Davis”, uno che ogni sera deve convincere un amico ad ospitarlo sul proprio divano.
Eravamo nel mio salotto. Mia figlia dormiva nella stanza alla fine del corridoio ma quando dorme dorme, non avevo paura dei rumori. E poi, chi lo avrebbe detto che ci sarebbero stati rumori. Arrivati ai rigori, però, era certo che avremmo esultato e che ci saremmo disperati, in fondo ne valeva la pena, chissà quando ci sarebbe ricapitata una semifinale in un grande torneo. Però c’era il problema dello streaming, a cui non avevo pensato. Senza televisore eravamo in ritardo sui vicini, che ci avevano già guastato il gol di Chiesa, e lasciato poi in uno strano stato d’attesa, con la gerarchia dei sensi stravolta: era più importante quello che sentivamo, anche se provavamo a non sentire niente, di quello che vedevamo. Per i rigori non esisteva, non potevamo lasciare che ci spoilerassero anche quelli. Per questo ho chiuso le finestre, anche se faceva caldo e ho scelto per una strategia radicale: tra un rigore e l’altro, fino a che fosse cominciata la rincorsa del calciante - considerando che il nostro ritardo era di qualche secondo appena - avremmo ascoltato musica metal.
Locatelli, che aveva segnato due gol contro la Svizzera e poi era finito misteriosamente in panchina, ha sbagliato il suo rigore (sulla sua faccia la preoccupazione di chi temeva di non trovare nessuno disposto a farlo dormire a casa propria). Per sua e nostra fortuna ha sbagliato anche Dani Olmo, subito dopo, calciando alto dopo che Donnarumma, intuendo il lato dove avrebbe tirato e aveva allargato le braccia per farsi più grande, come si dice sarebbe meglio fare in caso ci si ritrovasse davanti a un orso, coprendo tutta quella metà di porta. Poi ha calciato Belotti, che come al suo solito sembra arrivare sulla palla dopo aver preso la rincorsa lungo una discesa impervia e piena di buche, calciando però all’angolino e continuando a correre verso la porta come se, in caso, fosse stato pronto a spingere dentro la ribattuta. Poi segnano Gerard Moreno, Bonucci e Thiago, tutti in modo piuttosto convenzionale. Bernardeschi invece segna un rigore da pazzo, sotto l’incrocio dei pali, fortissimo. E subito dopo sbaglia Morata, con un rigore che sembra calciato con la gamba di qualcun altro, come se improvvisamente al posto del piede si fosse ritrovato con un pezzo di legno, un Pinocchio al contrario, che diventa burattino nel momento meno opportuno. La palla rasoterra, angolata poco, dalla parte di Donnarumma che potrebbe non solo pararla ma anche schiaffeggiarla, picchiarla, e invece la para e basta.
Poi arriva Jorginho, che fino a quel momento non aveva sbagliato neanche un rigore con la maglia dell’Italia e che ci porta in finale con uno dei rigori più cool di sempre, che l’arbitro avrebbe forse potuto assegnare anche se non lo avesse davvero calciato, anche se dopo aver messo in ginocchio Unai Simon si fosse limitato a indicare l’angolo in basso a destra della porta, dove era troppo semplice mandare il pallone.
A quel punto abbiamo aperto le finestre e ci siamo uniti ai festeggiamenti, la tecnica della musica metal aveva funzionato, anche se aveva creato una tensione aggiuntiva alla partita perché, beh, la musica metal non è rilassante (ma quanto sarebbe stato strano riempire la stanza di suoni della foresta tropicale, dei rumori di una tempesta o di un altro di quei suoni “rilassanti”?). Quella situazione mi ha ricordato - o forse è stato il ricordo a farmi venire l’idea - che quando ancora andavo al liceo giocavo a Pes con la musica metal in sottofondo e una volta un amico, che ascoltava generi diversi, mi disse che era proprio il tipo di musica adatta per giocare a Pes.
Subito dopo l’ultimo rigore mi è venuto anche in mente che dal 2008 avevano battuto la Spagna una sola volta, pur incontrandola in tutti gli Europei venuti dopo e anche nella Confederations Cup del 2013, e avevamo sempre perso quando eravamo andati ai rigori (nel 2008 hanno sbagliato De Rossi e Di Natale, nel 2013 Candreva ha segnato col cucchiaio e l’unico a sbagliare è stato Bonucci). Me la ricordavo bene la partita del 2008, sempre all’Europeo, persa appunto ai rigori dopo una partita in cui non avevamo giocato benissimo e me la ricordo perché ero al mare, in Francia, e un tizio olandese troppo grosso per litigarci aveva esultato gridando “fuck Italy”. Allora io, con la musica metal sparata di nuovo a palla ho pensato a dove potesse essere oggi quell’olandese e a quanto sarebbe bene esultargli in faccia.
Stanza #2
Il metal aveva funzionato ma, come dire, avremmo preferito un’esperienza di tipo diverso per la finale. In un certo senso sapevamo che la possibilità di andare ai rigori contro l’Inghilterra non era remota. Loro avevano subito un solo gol in tutto il torneo, noi eravamo in fondo eravamo ospiti a Wembley e anche per una questione di educazione ci sembrava impossibile vincere nei novanta minuti. E siamo stati fin troppo accomodanti, lasciando che l’Inghilterra ci segnasse dopo appena due minuti. Lo spettro di un’altra finale come quella del 2012, in cui l’Inghilterra ci avrebbe passato nel tritacarne del proprio entusiasmo, della propria giovinezza, si è presentato nel salotto alla Marranella in cui eravamo stipati in un numero giusto ma che comunque, oggi, mi sembra da pazzi. Davvero eravamo in sei, o forse in sette, tutti in una stanza? Davvero ci siamo abbracciati e abbiamo saltato quando Bonucci ha respinto in rete il colpo di testa di Verratti deviato da Pickford?
A ben vedere è stata l’Inghilterra fin troppo ospitale con noi. Ci ha lasciato rientrare nella partita, come il proprietario di casa che ti fa vedere tutte le stanze tanto non è che tu poi lo cacci e gliela occupi. E invece così abbiamo fatto, anche se non sembrava il caso quando Chiesa ha tirato in porta, una volta nel primo e una volta nel secondo tempo, e sempre di poco non ha segnato il pareggio, al lato del primo palo o salvato da Pickford. Ricordo le nostre espressioni incredule in quel salotto, perché nell’ordine non credeva a: 1. il fatto che stessimo avendo delle occasioni, che forse forse ci stessimo persino meritando il pareggio, e 2. il fatto che, però, parevamo capitati in una di quelle serate in cui non c’è niente da fare, tutti gli sforzi sono vani e al limite puoi essere soddisfatto di averci provato. Il più incredulo di tutti, nel dopo essere partito da centrocampo disarcionando due avversari e puntando l'area di rigore come un manichino dei crush-test, però, era Chiesa, con gli occhi sgranati da pazzo vero che avrebbe strappato un ruolo in Apocalypse Now se avesse mandato quei pochi secondi di inquadratura indietro nel tempo, a Francis Ford Coppola.
Ricordo di aver guardato la faccia di Maguire, la sua mascella tubolare un po’ sbilenca, con gli occhi piccoli come quelli degli animali disegnati nei libri per bambini, e ho pensato a tutti gli inglesi che ho incontrato nella mia vita. I due fratelli con cui ho vissuto un’estate in paesino tra Manchester e Liverpool, uno iper-sportivo e iper-competitivo l’altro ribelle, che una notte si è fatto arrestare per aver vandalizzato delle auto nella strada di casa. A quello che ho conosciuto a quattordici anni che mi ha portato a dormire in spiaggia e sono quasi morto di freddo mentre lui scopava con una ragazza a pochi passi (perché mio padre mi ha lasciato dormire fuori?). A quei due ragazzi incontrati su un’altra spiaggia, in Francia, quando avevo già più trent’anni ed ero con un amico che all’epoca pesava un centinaio di chili, e ci hanno sfidato a un due contro due in spiaggia e hanno perso malamente, tutti gol di astuzia nostri, colpi di tacco che sfruttavano i rimbalzi, movimenti improvvisi dopo avergli chiesto in quale delle case che si vedevano sulla collina dormivano. Non ce l’avevo con nessuno di loro, però cavolo se non mi andava di immaginarli felici alla faccia nostra, ammesso che anche loro stessero pensando a me.
Evidentemente doveva essere un gol assurdo come quello di Bonucci a farci pareggiare - anche se sarebbe stato più assurdo fosse entrato direttamente il tentativo di Verratti, di testa, in tuffo, contro la difesa inglese. E quando sono arrivati i rigori è sembrato diventare chiaro che, insomma, la serata storta era la loro, non la nostra. C’era la storia del vantaggio che ha chi comincia la serie, ma anche il ritornello del chi sbaglia per primo vince, che per qualche ragione mi racconto fin da ragazzo. Ha sbagliato Belotti, calciavamo per primi. Poi però ha segnato Maguire, con una pettinatura di lato, morbida, voluminosa, che sulla sua faccia scomposta faceva l’effetto di un cane randagio pettinato per un concorso di bellezza. Il suo rigore è stato il più bello della serie, una bomba di sinistro sotto l’incrocio, violenta e precisissima.
A quel punto, con solo tre rigori mancanti all’Inghilterra, non potevamo più sbagliare. Solo un mitomane avrebbe potuto calciarlo con leggerezza, e quel mitomane, il nostro mitomane, era Leonardo Bonucci. Rigore calciato male, dalla parte di Pickford, a mezza altezza, ma che Bonucci ha festeggiato con una convinzione tale che sembrava non aver provato la nostra stessa paura. E allora anche noi ci siamo tranquillizzati. I rigori non sono per persone sensibili e Rashford lo è fin troppo, ha aspettato fino all’ultimo prima di calciare, ha spostato la propria rincorsa con dei passi laterali, ha rallentato, camminato fino ad arrivare sul dischetto, e poi ha preso il palo con metà della porta vuota.
A quel punto sono stato preso da un’euforia irrazionale. Ero sicuro che avremmo vinto. L’appartamento in cui eravamo era al penultimo piano di un palazzo e per tutto il secondo tempo l’allarme dell’appartamento sopra ha suonato. Ho pensato che sarebbe stato divertente se dei ladri si fossero calati sul nostro balcone e fossero usciti dalla porta principale, non penso che ci saremmo alzati per fare qualcosa. Bernardeschi con aria umile ha calciato un rigore fatto per essere sbagliato: centrale e rasoterra, ma Pickford si è scansato di lato. Quello di Sancho era calciato decisamente meglio, forte e angolato, però dal lato di Donnarumma che quando si sposta sulla riga di porta sembra far scorrere una porta di pietra che non lascia passare la luce, figuriamoci la palla. Così, quando poi ha sbagliato Jorginho - sarebbe stato bello se ci avesse fatto vincere semifinale e finale con un rigore saltellante, peccato - ho detto ad alta voce: ci fa vincere Donnarumma.
Foto di Laurence Griffiths/Getty Images
E cosa c’è di più rappresentativo dell’Italia intera di un portiere che ha parato tre rigori consecutivi, ti ha fatto vincere l’Europeo a Wembley contro l’Inghilterra, senza accorgersene, senza rendersene conto, alzandosi dopo la parata come niente fosse, come se la vita fosse tutta una serie di rigori da parare senza mai poter dire se hai vinto o se hai perso.
Poi siamo andati a festeggiare per le strade della Marranella, insieme a un gruppo di persone verosimilmente originarie del Bangladesh che agitavano una bandiera italiana bloccando una strada comunque poco trafficata, e poi in mezzo a centinaia di altre persone che hanno bloccato tutta Roma con le proprio auto, costringendo chi volesse arrivare in centro a farlo a piedi. In “Rayuela”, Julio Cortazar fa dire allo splendido personaggio femminile chiamato “La Maga” che «la felicità appartiene ad uno solo e invece la disgrazia si direbbe di tutti». A me, oggi, lontano da quasi tutte le persone che conosco, con cui mi scambio messaggi, vocali, foto, rassicurazioni, preoccupazioni, sintomi sospetti, sembra che sia il contrario: che questa specie di disgrazia in mezzo a cui viviamo da due anni sia una cosa che ci appartiene uno alla volta, in solitudine, mentre quella gioia, quell’Europeo, sia stata una gioia collettiva, di tutti.