“Senza un po’ di Mazzone non puoi fare Wenger"
François Zahoui, primo giocatore africano in Serie A
Alle origini del mito
Quando si chiude una porta si apre un portone. A soli 31 anni Carlo Mazzone, giocatore simbolo dell'Ascoli, si vede costretto a rinunciare alla carriera per una brutta frattura alla tibia. Siamo nel tumultuoso 1968, Il vulcanico Costantino Rozzi si è insediato da poco tempo nella stanza dei bottoni per fare da traghettatore e risanare i conti. Conosce poco l’ambiente calcistico e non ha ancora le basi tecniche per guidare una squadra che deve trovare la sua dimensione in Serie C. Il massimo dirigente intuisce la caratura del personaggio, gli affida la panchina della prima squadra ad interim e si appoggia alle sue conoscenze per firmare i successivi tecnici. Carletto chiede e ottiene la guida della Primavera, supervisiona quello che avviene in società insieme al tandem storico composto da Regoli e Panichi, e in caso di necessità si trasforma in allenatore di emergenza e nume tutelare.
Il presidente se ne innamora perdutamente dal punto di vista umano e gli promette un posto nella sua azienda nel caso di rovesci professionali. Approfitta delle giovanili per sciacquare i suoi panni in Arno: definisce lo stile di comunicazione con i giocatori, mette a punto i metodi di lavoro e disegna una visione tattica che abbraccia uno stile audace e propositivo, in contrasto con la visione sparagnina che spesso ha prodotto per necessità il vecchio calcio di provincia. Mazzone assume il ruolo di capo allenatore nella stagione 1971/1972; cede alle pressioni di Rozzi che ormai con il mondo del pallone ci ha preso gusto, comincia ad esternare la voglia di salire in Serie A, possibilmente con lui al timone per lungo tempo. Costantino spesso siede in panchina, finisce regolarmente a esultare in mezzo ai giocatori e con la sua verve comunicativa attira gradualmente il gotha della stampa sportiva nazionale.
Il tecnico lo osserva con sguardo austero, mantiene una rigida compostezza e vigila sui comportamenti della rosa, in questa fase della carriera lascia il proscenio al compagno di avventure. Con il passare del tempo finirà per introiettare l’approccio guascone del presidente, un innato spirito di sfida verso i vertici del calcio italiano e una palese insofferenza verso le pubbliche relazioni intessute da molti dei suoi colleghi. Domina il campionato di Serie C che vince con 58 punti, il miglior attacco (64 reti), la miglior difesa (20 reti) e uno stile di gioco brillante che esalta le qualità del bomber Renato Campanini ribattezzato "faccia da gol". Nella cadetteria, a dispetto dei limitati mezzi economici, la squadra sfiora la promozione nella massima serie. Rozzi vorrebbe confermare il suo tecnico praticamente a vita e gli garantisce il massimo supporto anche quando a inizio stagione i risultati stentano ad arrivare. Prese le misure con nuova categoria, il collettivo marchigiano stravince il girone di ritorno con 27 punti che destano molto scalpore.
I tempi sono maturi per la Serie A e nel 1973/1974, a margine della prima metamorfosi tecnica del condottiero romano, il gruppo comincia a esprimere un gioco via via più attento e un ricorso più morigerato alla zona. Arriva un secondo posto che poggia le basi su un rendimento straordinario nelle gare casalinghe e un atteggiamento guardingo nelle partite lontano dal pubblico amico. Il gruppo registra il quarto attacco (41 reti) e la seconda difesa del campionato (22 reti) migliorando nettamente il differenziale dell’anno precedente. Mazzone è affascinato dal calcio totale olandese e lo studia con perizia come Arrigo Sacchi e Zdenek Zeman ma cerca di conciliare le nuove filosofie calcistiche con il materiale umano a disposizione. Si mette costantemente un gradino dietro la società e i giocatori, disprezza gli atteggiamenti da santone e appena gli è possibile si rifugia in famiglia per ricaricare le batterie. Miscela la ricetta dei tulipani con i dettami del calcio inglese che lo affascina per la ricerca della verticalità, l’utilizzo delle fasce laterali e il grande agonismo.
Per certi versi assume dei tratti in comune con il leggendario Brian Clough: sviluppa una dialettica che contrasta con il divismo di alcuni allenatori e ricerca tratti di gioco più essenziali. Per la preparazione atletica collabora con il leggendario tecnico di Pietro Mennea, Carlo Vittori, che è nativo di Ascoli Piceno e avrà modo di lavorare con lui anche in altre piazze. Nel difficile contesto degli anni Settanta, dove i fantasmi tratteggiati dalle rivelazioni di Carlo Petrini e le ombre del calcioscommesse aleggiano molto vicine, Ascoli si rivela una piccola oasi sportiva.
La difficile rincorsa ai grandi club
Mazzone in pochi anni ha portato una squadra di provincia ai vertici, agganciando un campionato elitario a 16 squadre che ha picchi qualitativi altissimi e una diluizione del talento pressoché nulla. Dopo aver conquistato la Serie A, scatta la grande festa per la prima formazione marchigiana nel calcio di primo livello. Compare una mega padella in piazza Arringo, giunta direttamente da Porto San Giorgio per friggere il pesce. Si fa notare una gigantesca ‘A’ sul ponte di Santa Chiara dipinta in bianconero, sfilano i tifosi con enormi bandiere, stendardi e tamburi improvvisati. La società vara l’ampliamento del Del Duca, con le due nuove curve nord e sud, che viene completato in 3 mesi con 3 turni da 8 ore che prevedono quindi anche quello notturno. Ascoli può vantare un impianto da 36mila posti con circa 50mila abitanti, la città si stringe al gruppo dei giocatori che contribuiscono a far uscire dall’anonimato una regione intera. Nel 1974/1975 il calcio Italiano ha un sussulto nervoso dopo il clamoroso scudetto della Lazio e le tradizionali grandi squadre operano grandi cambiamenti per ristabilire le antiche egemonie. Il campionato sembra molto equilibrato.
A grandi linee si ripete il processo di ambientamento già visto in Serie B: un inizio con qualche fatica, soprattutto per un gioco più fisico, ma un girone di ritorno di livello frutta una salvezza tranquilla. Comincia a squillare il telefono e arrivano le prime offerte da società più grandi e attrezzate: Mazzone vacilla di fronte a questi corteggiamenti sempre più serrati. Il presidente cerca di trattenerlo con ogni mezzo ma la proposta della Fiorentina che vuole tornare ai fasti di uno scudetto abbastanza recente è troppo invitante. La separazione è rumorosa e Costantino, che si sente tradito, si abbandona a diverse interviste polemiche: dichiara che il prossimo obiettivo stagionale è quello di finire almeno un punto sopra la squadra viola. A Firenze la sfida non è semplice: hanno già faticato Nils Liedholm e Gigi Radice che lo hanno preceduto. Mazzone, forse conscio delle difficoltà, decide allora di trasferire anche la famiglia e di lasciare Ascoli dopo 15 anni spesi tra il rettangolo di gioco e la panchina. L'intenzione è quella di costruire un gioco molto propositivo e disegnare la squadra intorno al talento del giovane Giancarlo Antognoni.
Lasciare la città dove ha fatto fortuna gli pesa molto, i tifosi lo hanno talmente coccolato che con il tempo accantona l’ipotesi di tornare a vivere nella capitale. Tirati i primi calci a piazza Santa Maria in Trastevere, Carlo riesce a collezionare appena due presenze nella Roma ma con i suoi modi di fare da trasteverino di altri tempi e la parlata con l’accento inconfondibile, resta un simbolo della città eterna. La Fiorentina nei primi due anni della sua gestione aggancia un terzo posto e conquista la coppa Italo-Inglese con una proposta di calcio piacevole che soddisfa il palato dei fiorentini. Purtroppo non scatta il colpo di fulmine con la stampa: sui giornali cominciano a spuntare le foto che lo ritraggono intento a urlare con la mano ‘a cinquina’, mentre accanto a lui compare un impassibile Liedholm o Trapattoni intento a provare il celebre fischio. L’atteggiamento ruspante si riflette anche sulla valutazione del suo calcio che sembra poco adatto ai grandi club e troppo semplice a dispetto di ogni riscontro oggettivo. La terza stagione il suo ciclo è già terminato e si conclude con un divorzio che lo allontana dal calcio di vertice per lunghissimo tempo.
L’annata tremenda dei gigliati che alternano ben 3 tecnici lo ha quasi bruciato, comincia a percepire un ostracismo feroce che diventerà suo compagno di viaggio. Riparte da Catanzaro con successo e torna a lottare nella parte destra della classifica; ottiene la salvezza nel suo primo anno con Claudio Ranieri nominato capitano e con la famiglia rientrata ad Ascoli Piceno, si rassegna a una vita da grande nome di provincia. Compare più spesso del solito in giacca e cravatta e prova a ribaltare senza grandi risultati la percezione mediatica che ormai lo ha bollato come uno specialista di secondo piano. Una celebre intervista di quel periodo riporta un aneddoto divertente che gli costa un soprannome, che se possibile, ne peggiora ulteriormente le quotazioni ai piani alti. Diventa per tutti "Er sor Magara": la sua figura comincia a guadagnare dei contorni folk e una enorme popolarità tra i tifosi italiani.
Il centro di gravità permanente
I tempi sono maturi per rientrare nella confortevole roccaforte di Costantino Rozzi per smaltire le tossine accumulate in stagioni molto difficili. Il presidente nel frattempo è diventato un celebre personaggio televisivo e insieme al mitico Tonino Carino di Novantesimo Minuto ha messo la città sulla mappa degli appassionati. Viene sotterrata l’ascia di guerra e va in scena una riedizione del figliol prodigo, nessun allenatore che lo aveva succeduto era riuscito a convincere per davvero e il revival del tandem dei miracoli fornisce nuovo slancio a una squadra che si sta avviando a un momento d’oro.
Torna appena in tempo nel 1980/1981: entra in scena a metà campionato rilevando Fabbri e conquista una salvezza contro ogni pronostico. L'ambiente si ricompatta intorno al vecchio condottiero che nel 1981/1982 griffa una delle sue più grandi imprese trascinando i marchigiani al sesto posto. Un clamoroso girone di ritorno chiuso a 19 punti è l’ennesima perla di un tecnico che, dopo questa impresa, lascia l'impressione di essere stato sottovalutato dalle grandi piazze. Mazzone si trova a gestire il delicato caso di François Zahoui: il calciatore ivoriano è lo straniero che Rozzi acquista alla riapertura delle frontiere. Il suo ingaggio resta in bilico tra la provocazione e la genialità nonostante un impatto sul campionato alla fine modesto. A fare onde è invece Hubert Pircher che con 6 reti in pochi mesi attira l’attenzione di Enzo Bearzot in vista del Mondiale del 1982 (povero Roberto Pruzzo!).
Mazzone non riesce a trovare un ruolo definito per il giovanissimo attaccante africano ma con grande sensibilità instaura comunque un buon rapporto e lo tutela dal mondo esterno. Finirà spesso in tribuna senza fare alcun tipo di polemica e saluterà il bel paese nel 1983 da beniamino dei compagni di squadra. Alla grande impresa in campionato segue una stagione difficile che si risolve in una sorta di spareggio con il Cagliari; anche quando le cose non girano per il verso giusto riesce sempre a entrare nella testa dei suoi giocatori per ottenere il massimo. Dopo un'altra buona annata nel 1983/1984, che si chiude con un discreto decimo posto, il capolinea arriva al principio della stagione successiva quando le strade delle due glorie cittadine si dividono definitivamente: al suo posto viene ingaggiato Vujadin Boskov.
La ricerca di una nuova dimensione
Lontano da Ascoli, dove è considerato una leggenda, è difficile trovare dei suoi convinti estimatori nella massima serie. È costretto un'altra volta a ripartire dalla Serie B. Lo ingaggia il Bologna con cui sfiora la promozione che sfuma a pochi passi dal traguardo. Destino analogo lo attende anche nel 1986/1987 con il Lecce quando subentra alla 29ª giornata e riesce a compiere un'impresa: nelle ultime dieci partite del torneo ottiene sette vittorie, conquistando gli spareggi che però non avranno esito positivo. Il feeling con i salentini è notevole e nel 1988 arriva la sospirata promozione per il pubblico giallorosso. Si affida quasi integralmente al nuovo 3-5-1-1 sfoggiato da Carlos Bilardo nel Mondiale 1986 per valorizzare le caratteristiche di Maradona e mantenere un apprezzabile equilibrio tattico.
Con il passare degli anni è diventato ancora più ricettivo nei confronti dei giocatori tecnici e riesce a miscelare con abilità le caratteristiche offensive di Juan Barbas, Francesco Moriero (che con lui si impone in prima squadra) e Pedro Pasculli, in un collettivo coriaceo e abbastanza efficace anche nella propria metà campo. Carlo si incarica di svezzare anche Antonio Conte che ha il grande merito di aspettare dopo un brutto infortunio che lo tiene a lungo lontano dai campi di gioco. In un paio di esaltanti stagioni di A, la squadra si toglie lo sfizio di battere la Juventus e il Napoli sfoggiando un calcio di buona fattura e conquistando due salvezze che arrivano senza troppi patemi. Per lui si tratta di una sorta di squadra laboratorio dove affina i principi che gli regaleranno una seconda giovinezza. La critica e gli addetti ai lavori lo snobbano ancora, e dopo le ottime annate salentine c’è solamente il Pescara che gli offre un contratto per una ennesima avventura in Serie B.
La parentesi abruzzese non decolla ma la fortuna comincia a girare quando il Cagliari che ha da poco salutato Claudio Ranieri, lo ingaggia alla sesta giornata del campionato 1991/1992 dopo un pessimo avvio. Gli isolani hanno una squadra che sprizza talento da tutti i pori ma che risulta di complesso assemblaggio. Mazzone tocca subito i tasti giusti e nelle 28 partite rimaste mette assieme 27 punti. Nel 1992/1993 la campagna acquisti dei sardi è perfetta: Francesco Moriero si ricongiunge al suo maestro, Lulù Oliveira arriva per non far rimpiangere Daniel Fonseca e il neo presidente Cellino regala ai suoi tifosi anche il ritorno di Valerio Pusceddu. Sospinta dalle invenzioni di Enzo Francescoli che ha piena licenza di agire e svariare per il campo e le geometrie di Gianfranco Matteoli, la squadra conquista un clamoroso sesto posto che vale la qualificazione in Coppa UEFA.
Il gruppo non segna gol a grappoli (45 reti che valgono l’ottavo attacco del campionato), è discontinuo ma gioca un calcio imprevedibile con verticalizzazioni fulminee che esaltano anche il pubblico neutrale. La rosa si distingue per il grande equilibrio in fase realizzativa con ben quattro giocatori che raggiungono i 7 gol con Cappioli (che diventerà un suo pretoriano), Oliveira, Francescoli e Pusceddu. I rossoblu sono una delle compagini più divertenti del campionato insieme al Foggia di Zeman e Mazzone torna a riacquisire un'aura interessante anche per i piani alti della Serie A. Le grandi squadre tornano a valutare la sua candidatura e il tecnico saluta il Cagliari solo quando arriva la chiamata di Franco Sensi, che gli offre le chiavi della squadra del suo cuore. È l’occasione della vita.
L’epopea romanista
L’ingaggio nella capitale si materializza alla soglia dei 56 anni, dal punto di vista umano e professionale si tratta della sospirata rivincita che sembra smussare qualche angolo di un protagonista che non si è mai sentito veramente apprezzato dai colleghi. Mazzone quando approda a Trigoria ha gli occhi che gli brillano e si assume volentieri il compito di tenere a battesimo il primo anno della famiglia Sensi. Il pubblico di casa, che lo ha sempre seguito con simpatia, lo accoglie a braccia aperte mentre la stampa metabolizza con difficoltà un allenatore che si trascina l’etichetta di catenacciaro. La rosa è reduce da un pessimo campionato, si è sgonfiata dopo la squalifica di Caniggia e paga gli effetti a lungo termine della traumatica presidenza Ciarrapico. La società è un cantiere aperto, i protagonisti dell’ultima parte della gestione Viola sembrano ormai logori e mentalmente scarichi.
Mazzone veste i panni del normalizzatore che ha il compito di posare la prima pietra nella costruzione di una squadra che nei sogni dei tifosi dovrà ruotare intorno al talento di Francesco Totti. La prima preoccupazione del tecnico è quella di recuperare completamente "il principe" Giuseppe Giannini, un patrimonio tecnico che ha fatto da parafulmine nei momenti più delicati dei primi anni Novanta. Il capitano ha pessime referenze caratteriali e sembra aver perso smalto nella corsa. Mazzone lo recupera fisicamente, lo mette al centro del progetto e progressivamente gli cambia ruolo. Decide di arretrare il suo raggio di azione e lo piazza davanti alla difesa, esattamente come farà qualche anno dopo con Andrea Pirlo. I giallorossi riprendono il campionato con la stessa indolenza del recente passato, il gioco latita anche perché il netto calo di Thomas Häßler nelle prime gare priva la squadra di una delle risorse principali. Il tecnico si carica sulle spalle tutto l’ambiente e si prende la briga di ricostruire da solo il rapporto con i media dopo il silenzio stampa di 6 mesi che ha segnato il 92/93. Fa, disfa e crea.
Il 1993/1994 si conclude con un settimo posto ricco di alti e bassi con Giannini che segna la rete più importante della stagione a Foggia, un gol spartiacque che allontana gli incubi di retrocessione e spinge la risalita della squadra. Nel 1994/1995 arriva Fonseca dal Napoli pronto a comporre con Balbo una coppia d’attacco da trenta reti stagionali. La mano del tecnico comincia a farsi notare e il picco più alto è senza dubbio il derby vinto 3 a 0 con la Lazio di Zeman che incassa una durissima lezione di realismo e di equilibrio tattico. I giallorossi galleggiano a ridosso delle posizioni di vertice e progressivamente offrono un calcio sempre più convincente, anche se la magra campagna acquisti del 1995/1996 non consente di andare oltre al ‘solito’ quinto posto in graduatoria. La Roma è cresciuta, dopo anni di paziente rifondazione sembra pronta a camminare con le sue gambe e a lanciare la sfida ai vertici del campionato.
In questo triennio, poi, si afferma Francesco Totti, su cui Mazzone ha avuto un ascendente decisivo. La sua crescita è la chiave per recuperare un forte senso di appartenenza con la squadra dopo stagioni che avevano fatto scappare una parte significativa del pubblico. Si lamenta con i giornalisti quando un collega esagera con i falli tattici o sembra mancare di rispetto, predica un calcio pulito, insegna valori e sembra il più moderno dei tecnici della vecchia scuola. È consapevole di essere un segnale analogico in un mondo digitale ma non ha alcuna intenzione di mettersi da parte, diventa una sorta di senatore a vita. Rispetto alle sue avventure a Lecce e Cagliari diventa più morbido con i calciatori; è sempre ossessionato dai dettagli ma abbandona i lunghi ritiri punitivi e si affida di più al dialogo. L’avventura di Roma finalmente lo fa sentire appagato.
Roberto Baggio e i suoi fratelli
Mentre Carlos Bianchi si insedia al suo posto e la tifoseria giallorossa è ancora attanagliata dalla nostalgia, si precipita in Sardegna quando Cellino lo richiama al capezzale di una squadra che sta imbarcando acqua da tutte le parti. Il duo in attacco composto da Roberto Muzzi e Sandro Tovalieri non basta a salvare gli isolani e Mazzone che perde la massima serie in un drammatico spareggio con il Piacenza valuta seriamente l’ipotesi di prendere una lunga pausa. Seguono le brevi avventure a Napoli (che dura solo poche partite), quella di Perugia dove colleziona un'altra salvezza nell’annata del diluvio del Curi e in modo particolare quella di Bologna in cui conquista la Coppa Intertoto allenando Beppe Signori e giocando un gran calcio.
Cerca con tutte le forze un altro progetto tecnico, una squadra che gli consenta di proporre il suo 3-5-1-1 che ormai è una seconda pelle e che influenza successivamente anche i moduli di Antonio Conte. Si accasa al Brescia di Corioni che non ha mai finito una Serie A senza retrocedere. Si tuffa a capofitto nel reclutamento di Roberto Baggio, il sogno proibito di tutte le provinciali con ambizioni. Dopo aver convinto il presidente a investire la cifra necessaria, Mazzone sfrutta le affinità elettive con il miglior giocatore italiano del dopoguerra che in fin dei conti è stato emarginato, esattamente come nel suo caso. Si tratta di romantici apolidi che sono fisicamente agli antipodi ma hanno tratti in comune, compresa l’innata capacità di fare breccia nel cuore delle persone. È il connubio perfetto tra due bastian contrari del calcio, un incontro al vertice tra due visioni di questo sport che tendono a completarsi a vicenda.
Ha pronto il tessuto tattico ideale e gli cuce addosso lo stesso vestito che Bilardo aveva disegnato per Maradona. Sembra incredibile ma quasi nessuno in precedenza si è preoccupato di costruire la squadra attorno a lui: i problemi di collocazione in campo sono cominciati in tenera età e solo qualche volta attenuati, mai risolti del tutto. Mazzone si domanda cosa può fare per mettere a suo agio la persona prima che il giocatore e solo dopo cosa può fare l'atleta per lui. Un trattamento che al di là delle doti dei singoli e delle ovvie gerarchie ha riservato allo spaurito Zahoui ad Ascoli, cosi come a personaggi come Totti e Antognoni, e a Pep Guardiola che abbandona in parte la sua natura introversa grazie alla grande verve e alla simpatia travolgente.
La presenza del leggendario numero 10 attira l’attenzione dei media, trasforma il Rigamonti in un'attrazione nazionale, e attira a Brescia diversi giocatori di culto. Tra il 2000 e il 2004 va in scena uno spettacolo irripetibile che trasforma la città in una sorta di capitale onoraria del calcio nostrano. Si susseguono emozioni, gol diretti da calcio d’angolo, esecuzioni magistrali dei calci piazzati, la leggendaria tripletta nella partita con L’Atalanta che scatena la famigerata corsa sotto la curva, l’incredibile ritorno dopo la rottura del legamento crociato in pochi mesi. Brescia e il suo allenatore sembrano l’unica dimensione possibile per un fenomeno che viene escluso dai Mondiali del 2002 per far spazio a Cristiano Doni. Il primatista assoluto delle panchine di Serie A è l’unico o quasi ad avere l’umiltà e il buon senso di privilegiare la tecnica a tutto il resto.
Sfilano Luca Toni, Dario Hubner, Igli Tare, Andrea Pirlo che è reinventato regista come Giuseppe Giannini, e tanti co-protagonisti che vengono folgorati dall’animo di un uomo in stato di grazia da tutti i punti di vista. La statura morale mette in secondo piano l’allenatore, spesso si trasforma in un secondo padre per i calciatori e un nonno acquisito per il pubblico. Dopo le "rondinelle" fa ancora tappa a Bologna e poi a Livorno dove arriva a quota 792 presenze nella massima serie, a dispetto di un piccolo esilio in serie B in una delle sue fasi migliori.
40 anni di carriera affrontati da studente del gioco e appassionato autodidatta, una maratona partita dal calcio di provincia in cui ha avuto la fortuna di incrociare i flussi con un gigante come Rozzi. Senza la sua visione tecnica l’Ascoli non avrebbe preso quota così velocemente, ma è stato grazie allo storico mecenate che Mazzone ha potuto iniziare a darsi una forma come allenatore. Le corse sotto la curva, le risposte sincere e provocatorie alla stampa, la motivazione incrollabile a dispetto dello scetticismo generale. Il più grande recordman dei tecnici non ha mai preso il telefono in mano per fare pubbliche relazioni o spinto qualche intermediario alla ricerca di panchine. Forse per il suo caso andrebbe aggiornato il concetto di predestinazione.