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Exit West
06 mar 2018
Jerry West non è solo l’uomo nel logo NBA: è anche un raro caso di divinità del gioco divenuta dirigente di successo.
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16 min
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Se nell’eterna disquisizione a proposito di chi sia il più grande di tutti i tempi venissero prese in considerazione le carriere sviluppate una volta appese le scarpette al chiodo, non ci sarebbe davvero molto di cui discutere. Tra i soliti nomi in ballottaggio — da Michael Jordan a Magic Johnson passando per Kareem-Abdul Jabbar e Bill Russell — nessuno è stato in grado di replicare in giacca e cravatta la grandiosità delle imprese compiute sul parquet. Jerry West, invece, oltre a un’epopea agonistica straordinaria, potrebbe presentare un curriculum da dirigente con pochi eguali. Anzi, il paradosso è che quanto a titoli in bacheca, la seconda parte della sua avventura in NBA è risultata molto più fruttuosa della prima.

E il paradosso appare ancora più clamoroso se si considerano i requisiti indispensabili per il successo in ambito manageriale, specie nel comparto sportivo, ovvero spiccate capacità comunicative e immediatezza nel rapportarsi, ovverosia capire e soprattutto farsi capire dagli altri. Perché sostenere che per Jerry West tutti quegli aspetti rappresentino lacune più che punti di forza equivale a un vago eufemismo. Noto già da giocatore per qualità come la stoica sopportazione del dolore e il perfezionismo ossessivo ma anche per il carattere schivo e introverso, il diretto interessato ha provato in prima persona a motivare la complessa personalità nel memoir del 2011, non a caso intitolato “My charming, tormented life”. E se i traumi subiti da adolescente — tra cui spiccano gli abusi di un padre manesco e la perdita del fratello morto nella guerra di Corea — servono almeno in parte a giustificarne l’indole, per provare a comprendere come nonostante tutto Jerry West sia diventato JerryWest utilizzeremo un raffinato strumento scientifico.

Ad ogni persona incrociata durante gli ormai quasi 40 anni trascorsi dietro a scrivanie NBA — giocatori, allenatori, proprietari o colleghi degli altri front office — applicheremo il metro della Scala di Compatibilità Jerry West (più avanti, per comodità, SCJW). Laddove al grado 0 corrisponde la fattiva impossibilità di comunicare con il soggetto e al grado 10 corrisponde un’intesa quasi telepatica. Lo strumento potrebbe tornare utile anche per ipotizzare gli esiti della sua nuova, e forse ultima, impresa.

Quarantennio gialloviola

La peculiarità che ha contraddistinto la seconda parte della carriera di Jerry West è senza dubbio il tempismo delle decisioni prese. Almeno all’inizio, tuttavia, non era così. Dopo due anni trascorsi lontano dai campi nel tentativo di curare i tanti guai fisici maturati durante una parabola agonistica giocata sempre oltre i limiti imposti dal proprio corpo, l’ex guardia dei Los Angeles Lakers accetta la proposta dell’allora proprietario Jack Kent Cooke (SCJW grado 3) e si siede sulla panchina degli adorati gialloviola. Quelle trascorse sul pino sono tre stagioni positive per West e per la squadra, che sulle spalle di Jabbar (SCJW grado 7) lottano con le migliori arrivando a un soffio dalle Finals. Dopo aver perso la semifinale di conference con i Seattle Supersonics che vinceranno il titolo, West si dimette.

L’estate che segue è però di quelle decisive per le sorti della franchigia: la proprietà passa nelle mani di Jerry Buss (SCJW grado 5), immobiliarista di successo che con la sua audace interpretazione dello sport come show-business porterà i Lakers verso un vero e proprio rinascimento. Come noto la fortuna aiuta gli audaci, e il primo atto della gestione Buss consiste nel poter scegliere con la prima chiamata al Draft. Non ci sono molti dubbi in merito al destinatario della chiamata: Earvin Johnson (SCJW grado 6) di quel rinascimento sarà assoluto protagonista, guadagnandosi sul campo l’appellativo di “Magic”. West, dopo aver lasciato il pino pochi mesi prima della svolta, rimane comunque ai Lakers, prima con il ruolo di scout e poi dal 1983 come General Manager.

Dal campo alla scrivania (foto di Andrew D. Bernstein/Getty Images)

Il suo contributo nella costruzione della corazzata che vincerà cinque titoli in otto anni è fondamentale. Nondimeno, all’interno di un’organizzazione che modella l’ormai celebre “eccezionalismo” dei Lakers attorno alla convinzione di essere predestinati alla vittoria, West rimane una voce spesso critica e fuori dal coro. La summa del rapporto tra West e il resto della dirigenza è raffigurato dalla burrascosa estate del 1986: reduci dalla cocente eliminazione nelle finali di conference per mano degli Houston Rockets delle torri gemelle Sampson-Olajuwon, i Lakers s’interrogano sulla possibilità di rivedere la costituzione del loro roster. Pat Riley (SCJW grado 7), a cui i due titoli vinti hanno portato in dono un peso notevole nel processo decisionale, non mostra dubbi: c’è bisogno di un lungo. Jerry Buss è d’accordo, anche perché la soluzione al problema appare semplice: Roy Tarpley, promettente centro in uscita da Michigan State, è stato selezionato da Dallas con la scelta numero 7 al Draft, e i Mavericks si professano disponibili a organizzare uno scambio che mandi il rookie a L.A. in cambio di James Worthy. Coach e proprietario sono pronti a finalizzare la trade, ma West si mette di mezzo arrivando addirittura a minacciare le dimissioni. La discussione con Buss, in particolare, è di quelle furiose e apre la strada ad un prosieguo altalenante della loro relazione. Alla fine, comunque, a prevalere è l’opinione di West e il movimento di mercato salta. Il tempo darà ragione al GM, con i Lakers che vinceranno due titoli consecutivi mentre Tarpley, funestato da problemi di dipendenza, sparirà dai radar NBA nel giro di tre anni.

L’abitudine di opporsi a scambi caldeggiati dal resto del front office rimarrà una costante per West, così come il coraggio di azzardare mosse coraggiose quanto la trade che porta ai Lakers la possibilità di scegliere Kobe Bryant (SCJW grado 9) al Draft del 1996. L’approdo del “Black Mamba” è il primo passo per il ritorno alla gloria che fu, completato con gli ingaggi si Shaquille O’Neal (SCJW grado 3) e Phil Jackson (SCJW grado 5). Di quella rinnovata gloria, tuttavia, West fa in tempo a cogliere solo i primi bagliori. Dopo il titolo del 2000, infatti, lascia in via definitiva i Lakers dopo quarant’anni di onorato servizio tra campo, panchina e front office. Il rapporto con Jerry Buss è arrivato al capolinea e le condizioni di salute dell’ex numero 44 gialloviola non permettono più di reggere al folle ritmo imposto dall’eccezionalismo di cui sopra.

Obi West Kenobi

La straordinaria applicazione dimostrata prima sul campo e poi dietro la scrivania testimonia una caratteristica riconosciuta da tutto l’ambiente del basket a stelle e strisce: il grande cuore di Jerry West. Nondimeno, quel cuore è fonte di problemi da parecchi anni. I numerosi ricoveri a cui West viene sottoposto in tutta emergenza — tra cui quello successivo alla movimentata estate del 1996 che rischia di costargli caro quanto a ripercussioni — impongono un graduale disimpegno in termini di ruolo e incombenze quotidiane. Eppure, col tempo West sperimenta una disfunzione che lo affligge molto più dei guai cardiovascolari: la lontananza dalla palla a spicchi.

Senza troppi clamori, due anni dopo l’addio ai Lakers torna in sella, questa volta accettando la sfida di lanciare i Grizzlies, appena trasferitisi a Memphis dal Canada. I risultati ottenuti in Tennessee sono meno clamorosi rispetto all’avventura a L.A., ma West, insieme a Hubie Brown (SCJW grado 8), contribuisce comunque a gettare le fondamenta di quella che sarà l’epopea del Grit & Grind. Nel 2007 cede lo scettro a Chris Wallace (SCJW grado 7), con cui mantiene un legame da mentore rafforzato dalla comune provenienza geografica. Nonostante l’assenza, per lui inusuale, di trofei vinti durante l’esperienza ai Grizzlies, West rimane tra le figure più autorevoli e rispettate in giro per la lega. Qualcuno, a dire il vero, con poca grazia e altrettanto scarsa lungimiranza, insinua che come dirigente abbia fatto il suo tempo.

Non la pensa così Joe Lacob (SCJW grado 5), che avvallato dal socio Peter Gruber (SCJW grado 3) con cui ha appena rilevato la proprietà dei Golden State Warriors, lo ingaggia come consulente. Le sue mansioni sarebbero quelle di monitorare l’evoluzione della franchigia nel suo complesso, ma l’influenza esercitata da West nelle scelte tecniche appare da subito evidente. Bob Myers (SCJW grado 6), al suo primo incarico dirigenziale dopo anni spesi dall’altra parte della barricata con il ruolo di agente, confida nella comprovata esperienza dell’ex-Lakers. Assecondandone la visione, Myers impara una lezione decisiva per il futuro suo e degli Warriors: quello che è popolare non sempre è giusto e ciò che è giusto spesso non è popolare. Quello che potrebbe essere il mantra di Jerry West viene applicato alla lettera nello scambio che manda Monta Ellis (SCJW grado 4) a Milwaukee in cambio di Andrew Bogut (SCJW grado 7). Il pubblico di casa gradisce il giusto.

A fare le spese delle audaci mosse di mercato di casa Warriors è l’icona Chris Mullin durante la cerimonia per il ritiro della sua maglia, ritrovandosi a dover fare da paciere tra il pubblico inferocito e il proprietario preso di mira.

Il tempo sarà galantuomo con la scelta effettuata da Myers e West, complice anche un’altra trade, questa volta abortita in dirittura d’arrivo. In una curiosa replica di quanto andato in scena a un quarto di secolo prima a L.A., West si trova infatti solo contro il parere di dirigenza e proprietà quando prende corpo lo scambio che porterebbe Kevin Love sulla baia spedendo Klay Thompson (SCJW grado 8) verso il Minnesota. Come accaduto con l’affare Worthy/Tarpley, contro ogni logico pronostico, l’opinione di West finisce per prevalere e di lì a poco nascerà il mito degli “Splash Brothers”. Quella scelta, insieme al ruolo di primo piano recitato nella fase di corteggiamento a Kevin Durant (SCJW grado 7) nell’estate 2016, è il lascito che West regala agli Warriors. Conquistato il secondo titolo in tre anni, l’ottavo della sua carriera nel front office, lo scorso giugno il rapporto s’interrompe. I dettagli della separazione non vengono chiariti e le motivazioni rimangono sospese tra voci di una disputa sull’adeguamento del compenso, che la proprietà vorrebbe al ribasso, e divergenze ormai insanabili con Joe Lacob. La verità, come spesso accade, giace probabilmente a metà strada tra le due versioni e, con ogni probabilità, ha molto a che fare con la sensazione, condivisa da più parti, che il compito assegnato a West abbia esaurito la sua utilità. Gli Warriors, insomma, hanno ritenuto di poter affrontare le sfide future senza l’apporto del vecchio saggio. Qualcuno, poche miglia più a sud, ne ha subito approfittato.

Sull’altra sponda di Los Angeles

A differenza di quanto avvenuto dopo i congedi da Lakers e Grizzlies, il periodo sabbatico di West seguito alla rottura con Golden State non è durato poi molto — anzi. Due giorni dopo la decisiva vittoria degli Warriors in gara-5 delle Finals, Jerry ha fatto ritorno a Los Angeles, anche se questa volta ad attenderlo non ci sono i colori giallo e viola. Steve Ballmer (SCJW grado 7), patron dei Clippers da ormai tre anni, l’ha fortemente voluto come membro del consiglio esecutivo.

L’ex-CEO di Microsoft, recentemente defilatosi in azienda proprio per dedicarsi alle passioni extra-lavorative, aveva fin lì goduto della clemenza di tifosi e addetti ai lavori per il semplice fatto di non essere Donald Sterling. Abituato a puntare al massimo risultato e a pretendere l’eccellenza, Ballmer ha di fatto concluso quella che potremmo definire la sua luna di miele con l’aspetto ludico del possedere una franchigia NBA. Fatto tesoro delle esperienze maturate ha quindi realizzato come un front office competente costituisca, oggi più che mai, condizione necessaria per provare a primeggiare in un contesto così competitivo. Ancora una volta, un imprenditore proveniente dall’universo ultramoderno dell’high tech ha deciso di puntare sull’esperienza e la visione di West per instradare il futuro della squadra nella giusta direzione.

L’ingaggio dell’ex-Laker, nei piani della proprietà, s’inquadra all’interno dell’opera di riorganizzazione che coinvolge tutta l’area tecnica. Chiusa giocoforza l’era “Lob City” con la trade che ha spedito Chris Paul a Houston, Ballmer ha preso la palla al balzo, letteralmente, per avviare un rinnovamento profondo. Doc Rivers (SCJW grado 4), fin lì deus ex-machina grazie al doppio incarico di allenatore e dirigente, è stato ridimensionato alla qualifica di solo capo-allenatore mentre il titolo di President of Basketball Operations è stato assegnato a Lawrence Frank (SCJW grado 6). Nel caso di Frank, ad ogni modo, si è trattato di una promozione interna, visto che l’ex-Nets già rivestiva il ruolo di vice-Rivers. Ballmer, evidentemente, ha poi ritenuto essenziale introdurre una voce autorevole ma esterna all’organizzazione in grado di imprimere alle scelte tecniche un carattere di discontinuità. Quello che i Clippers chiedono a West, quindi, è di aiutarli a compiere un salto culturale nel vero senso del termine.

Passaggio di consegne (foto di Andrew D. Bernstein/Getty Images)

D’altro canto, quella che doveva essere l’epoca d’oro sull’asse Paul-Griffin e con Rivers al timone, può essere considerata tale solo se raffrontata con i desolanti precedenti. In teoria relegato a un ruolo di consulenza come già accaduto a Golden State, l’ascendente di Jerry West sulle mosse intraprese nello scacchiere del mercato estivo è inizialmente apparso vago. Laddove la trade Paul è risultata logica conseguenza delle intenzioni manifestate dal giocatore, in molti hanno storto il naso di fronte al principesco rinnovo offerto a Blake Griffin (SCJW grado 2) giusto qualche settimana più tardi. E in effetti il quinquennale da 173 milioni di dollari con cui l’ex-Sooner si avviava a diventare uomo simbolo e, anche a detta della dirigenza stessa, “il più grande Clipper di sempre”, sembrava davvero poco in linea con l’intento di voltare pagina.

Il ruolo di West durante la negoziazione del nuovo contratto, all’epoca descritto come marginale, è risultato essere decisivo in retrospettiva. Il dettaglio relativo all’assenza di una “no-trade clause", condizione barattata in cambio del quinto anno nella durata complessiva, ha costituito premessa ineludibile per il prosieguo degli eventi. In pieno stile Jerry West, piuttosto che perdere un asset senza ottenere nulla in cambio, i Clippers hanno preferito procedere con il rinnovo accettando una scommessa poi rivelatasi, dal loro punto di vista, vincente. Superati gli ormai consueti problemi fisici che hanno contraddistinto la prima parte di stagione di Griffin, West e soci hanno atteso che le prestazioni della prima scelta al Draft 2009 tornassero ad essere, almeno quanto a box-score, convincenti. Da lì è partita la silenziosa ricerca di una controparte disposta a sedersi al tavolo, qualcuno afflitto dalla disperata necessità di dare una svolta alla propria stagione. I Detroit Pistons, impantanati nella zona centrale della Eastern Conference e bisognosi di un nome che potesse attirare l’attenzione e aiutare a riempire la loro arena nuova di zecca, si sono rivelati partner ideale.

Appena intravista la possibilità di spedire Griffin in Michigan, Ballmer e Frank non hanno tentennato avallando senza colpo ferire il piano che, in maniera tanto implicita quanto evidente, portava la firma di West, che già da qualche tempo aveva cominciato a sedersi vicino alla panchina di Rivers in tutte le gare interne per lanciare un segnale. Le reazioni della tifoseria locale, ammesso che qualcuno creda davvero che ne esista una, sono state piuttosto controverse. D’altra parte, come già sottolineato, Jerry West non ha nessun timore di risultare impopolare. A quell’età e con quel pedigree, il parere del mondo esterno lo sfiora come un refolo di vento lambisce il mare che fronteggia la sua casa di Bel Air, mai abbandonata nemmeno quando gli impegni professionali lo hanno portato altrove.

Qualora l’effetto deflagrante della trade non fosse bastato a scuotere l’ambiente, a ruota è seguita la gestione del caso DeAndre Jordan (SCJW grado 3). Titolare di una player option per la prossima stagione che gli consentirebbe, in caso non venisse esercitata, di presentarsi sul mercato come free agent, il centro è stato coinvolto in numerose voci di scambio prima della chiusura del mercato. Assodata la sua permanenza a L.A., i Clippers gli hanno proposto un prolungamento che però, evidentemente, non soddisfaceva le aspettative del giocatore. Il sottotesto dell’intera vicenda, valido per Jordan e per tutti gli altri giocatori a libro paga, è apparso chiaro: nessuno è inamovibile, nessuno è indispensabile, la priorità è il bene della franchigia. Ad ulteriore conferma, l’estensione a cifre più che modeste firmata da Lou Williams (SCJW grado 5), altro pezzo pregiato in procinto di cambiare maglia e poi rimasto a L.A., è da intendersi come primo risultato dei segnali lanciati dalla dirigenza.

I benefici accumulati attraverso le cessioni delle due stelle Paul e Griffin garantiscono infatti ai Clippers una flessibilità fin lì impensabile in termini di gestione tecnica e salariale, una prerogativa a cui West e soci non sembrano voler rinunciare per nessun motivo. La speranza è che questa diventi presupposto per riuscire in una missione fin qui impossibile, ovvero attirare verso quella sponda di Los Angeles i migliori free agent sulla piazza. Anche in quest’ottica, la presenza di West, figura apprezzata e rispettata come poche altre, potrebbe designare un ulteriore elemento di novità rispetto al passato. D’altronde non è un mistero per nessuno che Steve Ballmer sia disposto ad allargare i cordoni della borsa pur di arrivare all’unico obiettivo di suo interesse: vincere un titolo NBA. E non è un mistero come tutte le stelle della lega, da LeBron James (SCJW grado 9) in giù, ripongano in Jerry West una stima che potrebbe arrivare a colmare il gap di credibilità che spesso ha frenato i Clippers.

Exit West

Nello strepitoso romanzo “Exit West” di Moshin Hamid, candidato al Booker Prize e citato dall’ex-presidente Barack Obama tra i titoli preferiti per il 2017 (insieme a due chicche per appassionati di basket come “Basketball And Other Things” di Shea Serrano e “Coach Wooden and Me” di Kareem Abdul-Jabbar), i protagonisti vanno in cerca di fantomatiche porte che conducono altrove, lontano dalle atrocità della terra natia. Nel caso di Jerry West, molto più pacificamente, il ritorno a Los Angeles potrebbe aprire lo sbocco definitivo verso l’olimpo della NBA, rendendone di fatto irraggiungibile la leggenda combinata di giocatore e dirigente. Certo, con ogni probabilità nemmeno lui si sarebbe immaginato un giorno di accostare alla città degli angeli qualcosa che non facesse rima con Lakers, ma tant’è. Anche se il legame con la squadra che ha considerato casa per oltre quattro decenni rimane saldo (il figlio Ryan ricopre proprio lì il ruolo di assistente GM), figurarsi una sua convivenza con personaggi del calibro di LaVar Ball (SCJW grado 0) rende l’idea di un distacco ormai definitivo.

Sulla soglia degli ottant’anni e costretto a convivere con i problemi di salute sopra descritti, è probabile infine che l’avventura al servizio di Ballmer sia proprio l’ultimo tratto del lungo cammino intrapreso tanto tempo prima da un ragazzo di rara timidezza a Chelyan, West Virginia. E se ad oggi risulta difficile anche solo intravedere il luccichio del Larry O’Brien Trophy dietro alla porta con il logo dei Clippers, una cosa appare certa: se esiste qualcuno in grado di scovarla, quella porta, è proprio Jerry West.

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