Un secolo e mezzo fa, da una storia molto simile a quella della fortunata serie tv Billions scaturì la colonna portante della normativa antitrust americana: lo Sherman Act. “Bobby” Axelrod e “Chuck” Rohades Jr. si chiamavano rispettivamente John D. Rockefeller e John Sherman. Il primo capitalista senza scrupoli, nonché ideatore della prima forma evoluta di cartello al mondo; il secondo uomo di legge determinato a stroncare il potere dei “robber barons”, e non tanto per ragioni di giustizia ed equità socio-economica, quanto per fini politici e personali, con l’obiettivo, fallito, di diventare Presidente degli Stati Uniti d’America.
Dal 1890 negli Stati Uniti la lotta a trust e monopoli ha cominciato a farsi seria. La Northern Securities Company, fusione di tre grandi compagnie ferroviarie, fu sciolta d’ufficio. La Standard Oil Company e l’American Tobacco Company vennero frammentate in aziende di dimensioni più piccole e geograficamente circoscritte. In tempi recenti i casi più clamorosi hanno riguardato la Microsoft, che nel 2001 ha patteggiato per evitare la chiusura, e Google, le cui sanzioni per condotta illegale nel mantenimento di un monopolio nell’ambito dei motori di ricerca non sono ancora state rese note (la sentenza è recentissima).
Una prossima condanna illustre potrebbe riguardare la F1, con Liberty Media Corporation - la società proprietaria di Formula One Group che dal 2016 gestisce il Circus dopo l’uscita di scena di Bernie Ecclestone - oggetto di un’inchiesta dell’Antitrust americano per la potenziale violazione della legge Sherman in relazione al diniego dell’ingresso in Formula Uno al Team Andretti, legato a Cadillac e General Motors.
Il no all’undicesimo team del Circus, arrivato in contrapposizione al parere favorevole espresso dalla FIA, ha provocato un’azione bipartisan del Congresso americano. Repubblicani e democratici si sono uniti nel firmare un documento che chiedeva alla divisione antitrust del Dipartimento di Giustizia e alla Commissione Federale del Commercio di aprire un’indagine sulla decisione di Liberty Media. Non è la prima volta che la compagnia americana si trova nel mirino dei politici. Lo scorso marzo il deputato liberaldemocratico inglese Paul Scriven aveva sollevato la questione dei legami tra Formula One Group e i paesi della penisola araba, accusando il Presidente e CEO della prima, Stefano Domenicali, di «assecondare lo sportwashing e il disimpegno dai problemi sulla violazione dei diritti umani e civili presenti in diversi Stati». Liberty Media nemmeno si è degnata di rispondere, forte anche di un’eco internazionale particolarmente flebile in merito alla vicenda, forse per una certa assuefazione al tema dopo i Mondiali in Qatar, oppure perché gli sport più popolari sono talmente colonizzati (basti pensare, tralasciando per una volta i soliti esempi calcistici, alla McLaren diventata al 100% di proprietà del fondo sovrano del Bahrain) che a pochi interessa la provenienza dei soldi che finanziano il macchinario.
Se però sull’etica si può chiudere un occhio, e all’occorrenza anche entrambi, quando di mezzo c’è il business le cose cambiano, ed essersi messo contro il colosso automobilistico di Detroit non è un problema da poco per Liberty Media. Tanto più che quella dell’Antitrust non è l’unica grana che il Presidente e CEO Greg Maffei deve risolvere. Sul tavolo ci sono anche le scorie dello scorso Gp di Las Vegas, e le nubi su quelli a venire. In quest’ultimo caso ci sono le prescrizioni della Contea di Clark del Nevada, competente sulla città di Las Vegas, che se disattese rischiano di far saltare la gara nel 2026. Riguardo a quello del 2023, invece, è in corso una class action condotta da un gruppo di spettatori che accusa la società di averli truffati.
Procediamo con ordine. È indubbio che l’arrivo di Liberty Media abbia rappresentato un toccasana per la F1, proponendo uno sport modernizzato rispetto alla precedente gestione, traghettandola con successo fuori dalle pericolose annate della pandemia quando, costi alla mano, diverse scuderie rischiavano la bancarotta, e infine conducendola a una imponente crescita di popolarità e incassi. Il 31 dicembre 2023 Formula One Group ha chiuso il proprio conto economico con un fatturato totale record di 2 miliardi e 746 milioni di dollari, con un utile lordo di 879 milioni e un netto di 499. Tanto per rendere l’idea: il fatturato di Dorna Sports, la società che negli ultimi ha gestito il motomondiale, cedendolo lo scorso aprile proprio a Liberty Media, non arriva a 500 milioni.
Le criticità di questa gestione non riguardano il cosa, ma il come. Il modello Liberty Media appare esageratamente business-oriented, elitario nei prezzi e più attento alla componente spettacolo che a quella sportiva. Paradossalmente però, proprio dagli Stati Uniti individuati quale secondo El Dorado per l’espansione commerciale - sono l’unico paese con attualmente tre Gp in calendario - stanno arrivando i guai più seri, che potrebbero davvero sparigliare le carte in tavola.
A differenza dei paesi arabi, che combattono “l’eurocentrismo della Formula Uno” (citazione di Domenicali) comprandosi il loro posto nel Circus (dai 42 ai 55 milioni di dollari il costo annuale pagato dagli organizzatori per ospitare il gran premio, contro i 26 di Silverstone, i 25 di Monza e Imola, i 20 di Montecarlo), gli Stati Uniti posseggono anche una grande tradizione motoristica, seppure in altre categorie. Quindi il diniego a un’istituzione dell’automobilismo a stelle e strisce quale Mario Andretti non poteva non avere conseguenze.
“La partecipazione in Formula Uno dovrebbe basarsi sul merito e non limitarsi a proteggere l’attuale schieramento di scuderie”, si legge nella lettera del Congresso con la quale è stata avviata la procedura per l’indagine dell’Antitrust. “Il rifiuto sembra essere motivato dall’attuale schieramento di scuderie europee, molte delle quali affiliate a case automobilistiche straniere che competono direttamente con case automobilistiche americane come General Motors. È ingiusto e sbagliato tentare di bloccare le aziende americane dall’entrare in Formula Uno, cosa che potrebbe violare anche le leggi antitrust americane”.
Il messaggio è chiaro: la Formula Uno della gestione Liberty Media è un circolo privato elitario e esclusivo, che decide in maniera arbitraria, e quindi in contrasto con i principi sportivi e della libera concorrenza. Anche in questo caso, money talks: nessuna delle dieci scuderie intende dividere con un nuovo soggetto una torta che ogni anno diventa sempre più ricca. Nel 2022 l’importo complessivo dei premi tra i team ammontava a un miliardo e 5 milioni di dollari, per poi salire poi a un miliardo e 157 milioni nel 2023 e a un miliardo e 215 milioni nel 2024.
Soldi che fanno la felicità anche dei team minori, tutti con il bilancio in attivo e senza quindi il rischio, come accadeva in passato, di fallimenti a stagione in corso. La Williams, ultima per valore della squadra (325 milioni di dollari), nel 2023 ha avuto entrate per 160 milioni e un utile lordo di 5 milioni. Non mette in pista monoposto che possono lottare per la vittoria o il podio, così come non lo fanno la Kick Stake (futura Audi), la VCARB, la Haas e l’Alpine. Eppure una delle ragioni addotte da Liberty Media per rifiutare il team Andretti riguarda proprio la presunta mancanza di competitività. Si legge infatti nelle premesse del documento di diniego: “Il modo più significativo con cui un nuovo concorrente apporterebbe valore al campionato è quello di confermarsi competitivo, in particolare lottando per il podio e la vittoria nei Gp”.
Ma il punto cruciale dello scontro arriva al passaggio successivo, quando viene contestata l’intenzione di debuttare con un motore da “cliente”. Ovvero quello che già avviene nel Circus con McLaren, Williams, Aston Martin, Haas e Kick Stake, ai quali nel prossimo futuro si aggiungerà con tutta probabilità la Alpine, visto che dal 2026 la Renault ha deciso di interrompere la produzione di motori per la F1. Quindi chi fa già parte del cerchio magico può passare da “costruttore” a “cliente” senza problemi, chi è all’esterno invece non può entrare perché non produce motori in casa propria. Un concetto che Liberty Media dovrà spiegare all’Antitrust in maniera molto convincente. Così come andrà motivata meglio l’interpretazione secondo la quale “una nostra ricerca indica che la Formula Uno aumenterebbe il valore del marchio Andretti invece del contrario”. Viene naturale chiedersi, rimanendo in ambito americano, quale valore aggiuntivo fornisca Haas – team USA con base in Inghilterra e motori italiani (Ferrari) – rispetto ad Andretti Cadillac.
Un’ulteriore motivazione traballante riguarda l’aumento degli oneri operativi per gli organizzatori dei gran premi, con riduzione di “spazi tecnici, operativi e commerciali degli altri concorrenti”.Spazi che però già c’erano nel 2016, quando le monoposto al via erano 22. Spazi che magicamente sono tornati disponibili nel 2023 a Silverstone, per la Apex Team, la scuderia fittizia del film F1, potenziale blockbuster nelle sale dal 2025, realizzato in collaborazione con Liberty Media e co-prodotto da Jerry Bruckheimer, Lewis Hamilton e Brad Pitt. Del resto, una delle poche cose note del segretissimo Patto della Concordia stipulato con le scuderie, e che verrà rinnovato nel 2025, prevede fino a 24 monoposto in pista, previo pagamento per i nuovi arrivati di una tassa di ingresso di 200 milioni di dollari – che le scuderie avrebbero chiesto di alzare a 600 nel nuovo documento.
In ogni storia di successo, e quella di Liberty Media con la F1 indubbiamente lo è, spesso arriva un punto di rottura oltre il quale alla strategia e alla visione si mischia il delirio di onnipotenza. Ne è un esempio il caso Andretti, ma anche la gestione dei rimborsi del Gp di Las Vegas da cui è scaturita la class action prima menzionata. Lo scorso anno le prove libere del primo Gran Premio totalmente organizzato da Liberty Media, senza alcun intermediario, furono interrotte dopo soli otto minuti a causa di un tombino saltato che distrusse il fondo della Ferrari SF-23 di Carlos Sainz. I lavori di controllo di tutti e 30 i tombini del circuito durarono cinque ore e mezza, poi le tribune vennero evacuate per ragioni di sicurezza e la seconda sessione di prove libere fu disputata a porte chiuse. Agli spettatori allontanati a notte fonda Liberty Media ha offerto un buono di 200 dollari da spendere in merchandising F1, ma solo a coloro che erano in possesso del biglietto per la giornata di prove libere, mentre chi aveva il pass per l’intero week-end era rimasto a bocca asciutta. Da qui la causa collettiva per ottenere il rimborso integrale del biglietto (senza contare le spese di trasporto e alloggio sostenute per assistere a 8 minuti di prove) dal valore potenziale di oltre un miliardo di dollari, un terzo del fatturato annuo di Liberty Media. Tutto adesso è nelle mani del tribunale statale del Nevada.
Las Vegas però non è solo passato, ma anche stretta attualità. Sulla capitale del gioco d’azzardo la F1 è calata con la leggerezza di un leviatano, e proprio il timore di un trasformare nuovamente mezza città in un girone dell’inferno dantesco ha spinto la Contea di Clark a far sentire la propria voce. L’ammonimento è arrivato dalla commissaria della Contea Marilyn Kirkpatrick, che ha invitato Liberty Media a non ripetere il caos logistico e organizzativo che aveva caratterizzato l’edizione 2023 provocando gravi danni economici a svariate attività commerciali cittadine, rese di fatto irraggiungibili dallo stravolgimento dell’assetto urbanistico e dalle recinzioni e barriere poste per delimitare il circuito. Una situazione che in alcuni casi si è protratta ben oltre la settimana della gara, durando anche mesi. Per rendere l’idea di cosa fosse diventato il traffico è sufficiente ricordare la proposta agli studenti della ULNV (University of Nevada, Las Vegas) di fare alcune settimane di didattica a distanza, con tanto di repliche sarcastiche sul web (“Siamo forse tornati ai tempi della pandemia?”).
Come ha scritto Stefano Tamburini su Autosprint: “Di fatto il nuovo assetto urbanistico mutato dall’avvento di un circuito sia pure provvisorio ma con strutture fisse di largo impatto ha spostato l’asse degli affari a favore delle due grandi società degli hotel (MGM Resorts International e Caesars Entertainment) ma al contempo ha bloccato il commercio e il trasporto nei corridoi intorno alla Strip a livelli mai visti prima. Il governo della Contea di Clark ha fatto realizzare uno studio approfondito sulle ricadute economiche del Gran Premio. La sintesi è stata quella di uno spostamento degli equilibri, con pochi grandi vincitori e tanti grandi perdenti”.
Tra chi ha perso c’è stata anche la Contea stessa, visto che i quasi 4 milioni di entrate fiscali generati dalle imposte dirette legate al Gran premio sono stati azzerati dal citato studio sulle ricadute economiche, costato 4 milioni e 301 mila dollari. I danni più grossi li hanno però subiti i cittadini e le attività commerciali. Sono però danni collaterali rispetto al giro di affari di 1 miliardo e mezzo generato dal Circus, e dai 77 milioni di entrate fiscali prodotte dall’indotto (alberghi, gioco, spettacoli, ecc.). Numeri sbandierati da Liberty Media di fronte alla richiesta della Contea, garantendo comunque preparativi meno impattanti per i prossimi due anni. In caso contrario, la Kirkpatrick ha minacciato la cancellazione del Gran Premio, e se Liberty Media è blindata da un contratto triennale fino al 2025, dall’anno successivo le cose potrebbero tornare in discussione. Visto che la gara è programmata in calendario almeno fino al 2032, si tratterebbe di un’ulteriore spina nel fianco di Maffei e soci.
Il quarto e ultimo fronte di battaglia made in USA riguarda la televisione. In questo caso non c’è di mezzo alcuna un’istituzione, ma potrebbe avere conseguente altrettanto destabilizzanti. A livello televisivo, negli Stati Uniti la Formula 1 non funziona. O meglio, funziona solo guardando il lato della fiction, tra action fracassone e soap opera, della serie Drive to Survive, i cui elevati ascolti però non si concretizzano in un travaso, anche parziale, di utenti sulle corse. Anzi, il crollo di telespettatori è notevole, come emerge dai dati Nielsen Sports sugli eventi sportivi 2023. Il Gran Premio più visto, Miami, si è attestato al 39esimo posto della categoria sport motoristici, sopravanzato da 37 gare della Nascar Cup. Nessuno pretende i 100 milioni di spettatori di Drive to Survive, pubblico numericamente da finale del Super Bowl, ma il milioncino che si è sintonizzato davanti alla tv per Miami (quando l’audience di Daytona 500 è stata di 8 milioni e quella della 500 Miglia di Indianapolis di 4.7) è davvero un risultato misero. Un altro nodo destinato a venire al pettine alla scadenza dei vari pacchetti dei diritti televisivi.
Uno scenario nuovo di zecca si è aperto lo scorso fine settimana e riguarda la Hitech Grand Prix. In questo caso Liberty Media non c’entra nulla, perché la parte in causa risulta essere la FIA. Si torna al tema della domanda di ammissione di un nuovo team al Circus ma, a differenza del caso Andretti, la proposta della Hitech GP è stata bocciata direttamente dalla Federazione, per ragioni finanziarie. Un ambito però che sarebbe di stretta competenza di Liberty Media, e da qui è nato il ricorso di Hitech GP, con la decisione delle parti in causa di ricorrere a una procedura di arbitrato che si è conclusa con la vittoria del team britannico. Ciò significa che la FIA dovrà risarcire Hitech GP a causa di una decisione che non le competeva. Il team britannico aveva deciso di ricorrere a via legali su decisione dell’allora team principal Oliver Oakes, passato nel frattempo al comando dell’Alpine. Oakes, subentrato nel team dopo il ban alla Uralkali di Dmitrij Mazepin in seguito al conflitto russo-ucraino, non aveva digerito l’essersi visto scavalcare nelle valutazioni dal Team Andretti, la cui domanda a suo parere era ritenuta inferiore a quella della sua scuderia. Andretti, ai quali era stato ufficiosamente consigliato dalla Federazione l’acquisto di un team quale via più breve e comoda per entrare nella F1. Ma il team più in difficoltà, quello che appare più prossimo a smantellare, è proprio l’Alpine di Oakes. Il garbuglio è così completo.