Quella di Fabian O'Neill è una storia di dissipazione del talento, ma anche di rimpianti per interposta persona, meno suoi che di chiunque altro. Una storia che ha molto a che vedere con la percezione del nostro concetto di nostalgia. Non è una storia di what if - perché what if, nella carriera di Fabián O’Neill, nella vita di Fabián O’Neill, casomai le due cose fossero scindibili, non ci sono mai stati, non ha mai voluto ci fossero, non davvero.
Ciò che rimpiangeremo non è il calciatore che è stato, e forse neppure quello che non è riuscito – per quel tipo di impedimenti contingenti che si chiama vita – a essere. Ciò che ci fa commuovere, piuttosto, che ci spinge a ricordarlo col cuore spezzato, è un’idea di eterna incompiutezza, di fragilità, di impossibilità. Eppure, di bellezza. Di estrema prossimità, e al tempo stesso lontananza, da quel tipo di estetica rioplatense metà Anni Novanta, dagherrotipica.
Fabián O’Neill era un dieci latinoamericano, e al tempo stesso quanto di più distante da un dieci lationamericano. Era, questo sì, puntualmente uruguaiano: i cavalli, la polvere, l’alcool nelle pulperías. La capacità di irradiare amore, e l’estrema necessità di esserne avvolto, intabarrato.
Foto di Claudio Villa / Allsport
La storia di Fabián O’Neill è una storia di elevazione, lui che era cresciuto con la nonna visto che i genitori non riuscivano a sostentarlo, ma anche di dannazione: il coraggio, e il calcio, ammesso che per lui fossero due cose distinte, l’aveva appreso in strada, nei potreros polverosi di Paso de Los Toros. La coscienza di sé che ne era susseguita era un grumo di sovrastrutture concettuali ramificate come il dedalo di vie di una città portuale. La strada, il suo calcio, erano la quintessenza della rapidità con cui sei costretto ad apprendere, e l’eterno rincorrersi delle dimostrazioni che sei chiamato a dare.
Nel paese che gli ha dato i natali, lo stesso che ha visto nascere il grande poeta Mario Benedetti, caravanserraglio imprescindibile per il transito delle mandrie, c’era da attraversare un fiume. Gli uomini deputati all’operazione erano famosi per la loro tenacia incrollabile, e per la forza sovrumana. Li chiamavano “uomini toro”: erano coraggiosi, imponenti, guardavano alla vita sprezzanti. Fabián O’Neill, fisico da mandriano, lo sguardo truce di chi cresce nella frontiera, riversava quelle caratteristiche sul campo.
In spagnolo, il tunnel si chiama caño, che significa “tubo”. Veicola bene l’idea di qualcosa che fluidamente viene incanalato da una parte all’altra, da una riva del guado all’altra. Per Fabián O’Neill, il caño era una marca distintiva: non solo un’abilità che utilizzava per eludere l’avversario laddove a supportarlo non c’era l’atleticità o l’inafferrabilità dell’estro fantasioso che contraddistingue, per esempio, una cola de vaca, un grand pont o un elastico, ma uno strumento in prima battuta ideologico. Il caño di Fabián O’Neill era uno sberleffo, spesso dettato da una scommessa con i compagni. L’irriverenza sfacciata era il propellente.
Nel 1995 era esploso con la maglia del Nacional de Montevideo. Lo chiamavano El Mago. Durante un Clásico con i rivali storici del Peñarol, O’Neill anticipa il compagno Nelson Abeijón e ogni volta che si troverà di fronte Nicolás Rotundo lo umilierà con un tunnel. «Ma scusa, Fabián: fai un gol, non sarà meglio?», gli aveva chiesto Nelson. «Abejita», aveva risposto lui, «se gli faccio due tunnel poi giochiamo in superiorità per il resto della partita». Quadrato nelle sue intenzioni, scese in campo e umiliò Rotundo che si beccò due gialli.
In campo metteva l’estro premeditato del giocatore di biliardo che dichiara sempre la buca. E che ha una sua etica. In una gara contro la Salernitana di Delio Rossi, nel 1998, dopo aver assaggiato i tacchetti di Gennaro Gattuso, aveva detto ai compagni Abeijón e Diego López che si sarebbe ribellato a quel catenaccio semplicemente facendosi etereo. Aveva affondato uno, due, tre tunnel contro Gattuso. Per gioco, per scommessa. Con se stesso, con quel calcio che lo aveva adottato e con il quale cercava di scendere a patti.
A Cagliari, come molti altri uruguaiani, aveva trovato un porto d’approdo sicuro. Era arrivato per sostituire un diez, Enzo Francescoli. Al Nacional, il posto che aveva lasciato vacante era stato occupato da un altro diez, Álvaro Recoba. Fabián O’Neill era l’interregno, il punto di congiunzione tra diverse maniere di interpretare il ruolo di fantasista: il filo conduttore rimaneva l’indolenza che confonde i confini con il genio, una tristezza milonguera che non è nostalgia, ma neppure apatia. A pensarci bene, tra i tre forse era proprio Fabián O’Neill quello che sembrava portare tutti i crismi per far compiere al calcio uruguayano lo scarto verso un’era calcistica che sarebbe arrivata soltanto un decennio più tardi.
Non andava d’accordo con Oscar Washington Tabárez, forse l’unico in tutta la storia del calcio uruguaiano. Gli preferiva Gregorio Pérez, il suo secondo. Cellino gli diede ascolto, sostituì il "Maestro" con un suo surrogato, che peraltro non amava particolarmente O’Neill, dal momento che era stato tecnico del Peñarol negli anni in cui Fabián si divertiva a esserne la bestia nera. Alla prima stagione nell’isola, retrocedette. «Ci hanno rotto tutte le macchine: dovevamo fare sette punti per non retrocedere e dovevamo giocare con Milan, Inter e Juventus. Impossibile. Andavo in spiaggia e i tifosi mi gridavano ubriacone! L’anno successivo siamo risaliti in A, e quegli stessi tifosi – li avevo riconosciuti, perché non mi dimentico la faccia di chi mi insulta – mi pagavano da bere».
Per risalire in A, all’ultima giornata della Serie B 1996-97, bastava un pari contro il Chievo. O’Neill, che di quella squadra era capitano, si era messo d’accordo con il capitano avversario. «Ci sono andato a parlare, addirittura ci siamo giocati tutti il pareggio alle scommesse. All’87’ uno dei nostri fa gol, e andiamo in vantaggio per 2-1. Tira da metà campo e la mette all’incrocio, 2-1 e ci eravamo messi d’accordo per il pareggio. Allora grido a Diego López “Boludo, fatti fare gol sennò qua ci ammazzano a tutti”. Diego perde palla e ci segnano il due pari».
Amore per se stesso, forse: quello ne ha avuto poco.
Scendeva in campo ubriaco. Il problema dell’alcool se lo portava dietro da quando era ancora un ragazzino, e aveva imparato a trascorrere le serate fuori bevendo coca cola e vino: «Mi bevevo tutte le bevande alcoliche che incontravo. Veniva il pallone verso di me e io vedevo l’ombra, non sapevo se andare verso l’ombra o verso la palla, non facevo altro che sperare che finisse presto il primo tempo». Non potevamo accorgercene, allora. Oppure sì? Caracollava in campo, noi pensavamo fosse perché è il pallone che deve muoversi, mica il calciatore. Aveva un fisico imponente, perfetto per la deriva iperatletica che il calcio stava cominciando a prendere, ma correre: non correva. Però sapeva come dilatare il tempo, come sprimacciare le distanze: sul posto saltava gli avversari, li aggirava, li faceva scomparire, e poi disegnava arcobaleni lunghi quaranta metri, perché magari non sapeva dove si trovava, ma dove si trovassero i compagni, per qualche ragione, lo aveva ben chiaro in mente. Era meno leggiadro del "Principe" Francescoli, più muscolare: dal flaco al gordo, dal magro al grasso, anche se la classe – se non la medesima – era indiscutibile.
Segnava poco, anche se da tifoso romanista non posso dimenticare una partita di gennaio in cui, ingiocabile, sfracellò le già friabili certezze di una Roma zemaniana, segnando una doppietta. Più che giocare pennellava.
Più l’iconicità che l’effettiva consistenza cagliaritana gli fruttò un passaggio alla Juventus, piuttosto incolore a dir la verità. L’unico estimatore era Zinedine Zidane, che per quanto al figlio avesse messo il nome di Francescoli doveva esprimersi con cognizione di causa, e non per semplice affetto al calcio charrúa. Quell’attestato di stima gli avrebbe permesso di guardare indietro, alla sua carriera atletica, con una punta di orgoglio.
Nel 2002 partecipò alla spedizione uruguaiana in Corea e Giappone, anche se non scese mai in campo. La sua maglia, però, sul campo ci finì: Richard "Chengue" Morales la indossava sotto la sua nell’ultima inutile partita con il Senegal, finita 3-3. Per riconoscenza, per senso di appartenenza: «io sono amico del "Chengue", di Darío Rodríguez, di Regueiro», disse parlando di Forlán, che si affacciava in quegli anni alla Celeste, che contrario loro «non beve, non fuma, non fa niente. Non possiamo essere suoi amici. Siamo dell’altra banda, ma lui ci ha sempre rispettati».
Il rispetto, per Fabián O’Neill, è sempre stato un valore importante: darne per riceverne. Dopo il Mondiale era tornato in Uruguay, al Nacional, giusto in tempo per mostrare gli ultimi sprazzi di un talento in rapida dissolvenza. Imbolsito, con la pancia e le gambe pesanti e un taglio di capelli da clochard era sceso in campo nel roboante 2-2 contro il Santos di Diego, di Robinho, di Ricardo Oliveira, segnando un gol furbo che aveva istigato una rimonta poi rimasta inaccolta.
Il Santos, quella Libertadores, rischiò di vincerla: si inchinò soltanto in finale al Boca Juniors. Fabián O’Neill, il Nacional, la sua maglia 13 (che "el Loco" Abreu volle fortemente, per omaggiarlo), la abbandonò pochi mesi più tardi. Aveva appena ventinove anni quando venne alle mani per una questione di soldi con "el Quero" Eduardo, suo amico storico. Lì capì che la situazione gli stava sfuggendo di mano.
C’è un problema se il ricordo di un calciatore si cristallizza non per le gesta in campo, ma per la piaga perniciosa che la sua esistenza assume non appena al verde del prato si sovrappone l’oscure delle notti nei boliches. La dissoluzione, la dissipazione, ci sottraggono la magia.
La storia di Fabián O’Neill comincia a ricoprirsi di una patina malmostosa negli anni successivi. Il suo problema con l’alcol diventa la cifra distintiva del personaggio. Forte di un successo estemporaneo, di un benessere cadutogli dal cielo, sperpera ogni guadagno, dividendolo con amici che così amici, in fondo, non sono. Racconta tutto in un libro, “Hasta la ultima gota”, che poi significa fino all’ultima goccia, anche fuor di metafora, salvo lamentandosi del fatto che dei proventi del libro gli tocchi solo una minima parte. Che forse è un bene, intuendo a quale scopo potesse destinarli.
«Soldi e paura, non ne ho avuti mai», diceva. A un’asta bovina, a cui si presenta ubriaco, non smette di alzare il braccio, come fosse un gesto incondizionato. Alla fine della giornata avrà comprato 1104 mucche, di cui non saprà che farsene, se non venderle, e insomma, avete capito.
Gli ultimi anni li ha passati a Montevideo, all’angolo tra Millán e Clemenceau, alla bottega di frutta e verdura di fronte al bar “La Nueva Lata”. Si diceva fosse felice, che tanto gli bastasse. La bottega era del Quero, che in qualche modo cercava di salvarlo da se stesso. «Non voglio stare dalla parte dei ricchi», diceva. «Non ho mai voluto farlo, perché quello ricco ero io». «Cavalli lenti, donne svelte e il gioco d’azzardo: è così che ti ritrovi con niente in mano. Ora no, perché ora tanto non ho già più niente in mano».
Da questa parte del mondo, i tifosi cagliaritani lo ricordavano con un misto di nostalgia e commiserazione. Lui viveva una vita di piccole soddisfazioni, di condivisione mutua: «Frequento gente che sta con me anche se sa che non ho niente. A volte ho mille pesos io, a volte loro. Una dozzina di bohemienne come me, però ci aiutiamo l’uno con l’altro». Era diventato quello che vive nei nostri bar di provincia, con le guance sempre rosse, lo sguardo liquido, la voglia di cantare.
In un’intervista del 2017 diceva di aver chiesto dei soldi a Paco Casal per saldare alcuni debiti. «Spero che non mi faccia lavorare, per questo. Lavorare non mi piace. Mi piacerebbe scoprire giocatori, ma non è che mi metto la cravatta per questo. Sono fatto così: ribelle e orgoglioso». Un anno prima lo avevano operato alla vescica. Sarebbe dovuto rimanere tre anni senza bere: era durato un mese. «Sto bene, però. Sono come una macchina in vendita, che non sai se ha il motore o la batteria che funzionano», scherzava.
Negli ultimi anni della scuola elementare, sotto Natale, ci veniva riproposto più o meno lo stesso tema, sempre simile: racconta una cena di Natale inaspettata. Il mio cavallo di battaglia narrativo era quello di raccontare l’invito di un mendicante che chiedeva l’elemosina sotto casa. Ogni anno lo stesso clochard, ma con sempre maggiori dettagli sul suo passato, sulla storia che l’aveva condotto per strada. Nessuno dei senzatetto che per una sera era stato alla nostra tavola, però, aveva problemi con l’alcool. L’immaginazione viaggia a briglia più sciolte quando non devi scendere a patti con qualcosa che ti ha toccato da vicino, che certe cene di Natale le ha fatte finire a schiaffi, o a piatti fracassati in terra. Non è qualcosa su cui ci si può permettere di scherzare. Con O’Neill spesso lo abbiamo fatto, sublimando la sua disperazione con un’ironia che finiva per risultare amara.
Marina, una dei suoi figli, lo ha ricordato come un uomo ormai troppo diverso da quello che le aveva dato la vita, un uomo senza più «la scintilla, l’allegria, la tua essenza unica». Quell’essenza che lo portava a condividere, anche un po’ impacciato, di rimando, tutto l’amore che la Sardegna gli aveva saputo tributare.
Con quell’aria di chi sa essere perfettamente puntuale nel suo essere fuori luogo, con l’onnipotenza fragile delle epifanie estemporanee, con quella capacità che ha avuto Fabián O’Neill – forse solo un po’ troppo ribelle, forse solo un po’ troppo orgoglioso – di non passare inosservato. Anzi, con il passo pesante di chi, suo malgrado, lascia un’orma indelebile.