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Quando Fabio Quagliarella era bambino, e il padre entrava nello spogliatoio dopo che aveva giocato con la squadra dell’oratorio vicino casa sua, nel rione Annunziatella di Castellammare di Stabia, lo trovava in lacrime.
«Perché piange?», chiedeva il padre.
«Piange perché è finita la partita», rispondeva l’allenatore. «Voleva continuare a giocare».
Basta questo, forse, a spiegare il ritardo di Quagliarella nel dire addio. Poteva farlo quando la Samp è retrocessa e lui aveva il contratto in scadenza, nell’ultima partita di campionato, il 4 giugno contro il suo Napoli campione d’Italia.
Oppure la settimana prima, quando è uscito dal campo col pubblico in piedi nascondendo le lacrime nella maglia blucerchiata: invece, proprio dopo quella partita con il Sassuolo ha detto di essere “disponibile” a giocare anche in Serie B.
La Sampdoria l’ha salutato sui social a luglio, lui ha risposto con altrettanto affetto ma non ha chiarito se avrebbe smesso di giocare o se avrebbe cercato un’altra squadra. Alla fine si è arrivati a un anonimo lunedì di novembre perché dichiarasse ufficialmente di voler smettere. Che poi, voler smettere. Insomma. Per usare le sue parole: Quagliarella è costretto a smettere dalle sue condizioni fisiche «inaccettabili». Fosse per lui, è chiaro che continuerebbe anche a quarant’anni.
Non c’è forse giocatore che più di Fabio Quagliarella abbia espresso il proprio talento nei suoi migliori gol. Se nel caso di altri attaccanti è sempre un po’ riduttivo, nel suo - pur tenendo conto che la stessa qualità che gli permetteva di segnare da ogni posizione la usava anche per cambi di gioco e filtranti - i gol sembrano una sintesi coerente con il suo percorso in carriera: sempre più centravanti, lasciando via via le zone esterne di campo, concentrandosi su un cono sempre più stretto con la porta avversaria alla base.
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