Con la sconfitta ad Istanbul contro la Serbia, si è chiuso un decennio dell'Italbasket che per comodità narrativa possiamo chiamare “quello degli NBAers”. Dieci anni in cui alle alte aspettative nei confronti della generazione degli '85-'86-'87-'88 non sono seguiti risultati all'altezza. Mai in semifinale all’Europeo, mai ai Mondiali, mai ai Giochi Olimpici. Un'intera generazione di giocatori nel picco delle proprie carriere incapace di entrare nella storia sportiva del nostro paese dalla porta principale. Iniziato da un Europeo, Spagna 2007, in cui la generazione dei nuovi fenomeni non si è trovata sul campo con quella dei vecchi fenomeni, e terminato con un Europeo in cui di più onestamente non si poteva chiedere, questo decennio rappresenta per molti versi un'occasione sprecata, non solo dal punto di vista tecnico.
Italia-Germania, Eurobasket 2007: gli azzurri perdono contro la Germania di Nowitzki e vengono eliminati. L'analisi finale di Bonamico è copiabile ed incollabile a tante altre sconfitte azzurre successive.
Nella nostra preview avevamo scritto che l'Italbasket era “una squadra che ha mostrato di non avere molti punti nelle mani e dovrà necessariamente alzare il livello nella propria metà campo”. E su questo gli azzurri sono stati impagabili, mostrando dedizione e spirito di sacrificio, senza paura di difendere sui cambi o di provare il tagliafuori contro avversari di maggiore stazza, andando oltre la stanchezza dovuta a rotazioni più corte rispetto alle avversarie. Ci sono molti punti di contatto con l’Italbasket di Euro 2013, che è utile ricordare perché in questi giorni è stato giustamente esaltato lo spirito battagliero dell’attuale gruppo, ma è stato fatto come se mancasse da tantissimo, quando invece quattro anni fa ci esaltammo tutti per una squadra che pareva allo sbando e che invece uscì con la Lituania ai quarti soprattutto perché stravolta dalla fatica.
A questo giro le difficoltà sono arrivate quando le armi degli avversari erano troppe da contrastare tutte insieme: con la Serbia, ad esempio, ci voleva un “extrasforzo” – per usare un termine caro al precedente CT Pianigiani – per difendere con efficacia contemporaneamente sulla stazza di Boban Marjanovic, sul talento di Bogdan Bogdanovic e sulla lucidità di Stefan Jovic, oltre a tenere i tagli dal lato debole che ci hanno fatto malissimo nel primo tempo, anche al di là della enorme difficoltà a rimbalzo (44-19 per i serbi alla fine). In attacco, poi, senza nessun vero giocatore di post basso, senza nessun lungo realmente pericoloso in ricezione statica o dinamica e senza nessun penetratore affidabile - Daniel Hackett sotto questo punto di vista è andato a sprazzi come prevedibile, visto il lungo periodo per infortunio - non c’erano molte alternative al movimento di palla perpetuo per liberare un uomo, possibilmente dall’arco, ma con pochissimi vantaggi creati dal palleggio - e quindi ritrovandoci più di una volta ad affrettare un tiro contestato sul finire dei 24 secondi.
Senza Danilo Gallinari, Messina ha dovuto reinventare giochi offensivi che potessero esaltare le caratteristiche di chi aveva punti nelle mani, ovvero gli esterni più Nicolò Melli. Quando il tiro è entrato con continuità è scattato il circolo virtuoso per cui tutti davano qualcosa in più in difesa e tutti tiravano con più fiducia in attacco. Quando il tiro non è entrato, come contro la Germania, siamo entrati nel panico perché incapaci di trovare alternative proficue o di gestire il ritmo della gara andando in lunetta. Vale per tutti, a maggior ragione per Marco Belinelli: il suo è stato un Europeo in linea con le precedenti esperienze azzurre, ovvero alternando momenti di esaltazione totale (44.6% da tre) a momenti in cui si è intestardito con scelte poco redditizie (35% da due punti). Ma si è adeguato allo spirito operaio generale dando un buon contributo difensivo (2.1 recuperi a partita) e non è affatto poco, dovendo anche fare i conti con le attenzioni di tutti gli avversari, in particolare sui blocchi lontano dalla palla.
Alla fine della fiera siamo stati quello che pensavamo di essere e siamo arrivati dove speravamo di poter arrivare, né più né meno. Abbiamo battuto le squadre più scarse di noi (Israele, Ucraina, Georgia, Finlandia) e abbiamo perso contro quelle più forti (Lituania, Germania, Serbia), chiudendo tra le prime otto d’Europa che era contemporaneamente il risultato minimo e quello massimo per questo gruppo. Alla fine, quindi, #SiamoQuesti.
L'azione simbolo del nostro Europeo di sacrificio e fatica: la stoppata di Datome su Shermadini sulla sirena di Italia-Georgia. Il capitano è stato sempre esemplare per abnegazione e applicazione difensiva, chiudendo con 15 punti e il 42% da tre.
E ora?
“Non finisce qui” ha detto Daniel Hackett al termine dell’ultimo match di Istanbul. Ma è veramente difficile immaginare come possa proseguire, non tanto nell'immediato quanto nel futuro.
Da oggi il nuovo CT è Meo Sacchetti, che a novembre esordirà nel girone di qualificazione per il Mondiale 2019 e le convocazioni saranno da subito un incastro complesso. Del quintetto base di Messina nessuno sarà convocabile perché impegnati in NBA o in Eurolega; non saranno disponibili nemmeno Cinciarini e Abass, comunque comprimari in questo Europeo; niente Gallinari e niente Pascolo, gli assenti per infortunio; e nemmeno Fontecchio, uno degli Under 23 su cui dovremo giocoforza puntare per il prossimo ciclo. Bisognerà affidarsi ad Aradori, recuperare Alessandro Gentile, ritrovare Amedeo Della Valle, Achille Polonara e Luca Vitali, lanciare Diego Flaccadori, avere fiducia nella crescita costante di Biligha e Baldi Rossi, incrociare le dita per le condizioni di Tonut. Bisognerà in definitiva costruire una squadra quasi da zero e con pochissimo tempo a disposizione. Vero è che rispetto ad altre Nazionali perdiamo un numero di giocatori minore per le sovrapposizioni dei calendari, ma proprio qui sta il problema di questo decennio: dietro i big non c'è stata una quantità di giocatori sufficienti per garantire il ricambio ad alto livello o anche solo per sopperire ad assenze momentanee. E se allarghiamo lo sguardo oltre Cina 2019, la situazione oggi non induce all’ottimismo.
Può sembrare paradossale considerando gli ottimi - per non dire eccellenti - risultati ottenuti dalle giovanili nell’ultimo lustro. Ma non bisogna sottovalutare il modo in cui questi risultati sono stati ottenuti, ovvero con grandi alchimie tattiche del CT di turno per esaltare i pregi e mascherare i difetti del roster a disposizione con il sacrificio e la disponibilità dei singoli. La stragrande maggioranza dei ragazzi medagliati in questi anni fatica a stare in campo in Serie A: questa è l’amara realtà. L’impatto con il basket degli adulti per la maggior parte di loro è stato, ed è ancora, devastante sul piano fisico e tecnico. E non basta garantire loro la presenza sul parquet perché italiani o perché Under: dopo tante stagioni di protezionismo che ha prodotto pochissimo di buono, è arrivato il momento di archiviare questo sistema che non funziona.
Nel basket italiano mancano i giocatori, mancano le strutture, manca a volte il rispetto delle regole, mancano anche le più basilari conoscenze della comunicazione e del marketing. Il presidente Gianni Petrucci ha parlato della necessità di ripartire “da un’analisi serena che faremo insieme al Consiglio Federale, alle Leghe, alla GIBA e al territorio”. Ovvero elementi in lotta da anni tra loro, spesso per un tozzo di pane.
Tra tanti argomenti di dibattito uno ha più peso degli altri: trovare il sistema migliore, in primis dal punto di vista economico, per far sì che ogni società sia obbligata o quantomeno spinta a investire nel giovanile. Parte tutto da lì, dal campo, dall’allenamento dei giocatori fatto da allenatori professionisti e motivati. Se quella attuale non è una situazione da “ora o mai più” per il basket italiano, le assomiglia moltissimo.