Continua la follia estiva del calciomercato. Saranno due mesi di notizie spulciate su giornali unti di crema solare, di giocatori che cambieranno squadra sette volte in un giorno solo. Fino al 31 agosto proveremo a commentare le trattative più interessanti quotidianamente, su questo articolo che aggiorneremo in diretta anche più volte al giorno. Questo è il secondo capitolo della serie, qui trovate il primo. Quindi in spiaggia non scordatevi il tablet.
Nani può sostituire adeguatamente Keita?
di Daniele V. Morrone
[venerdì 1, mattina]
La difficile situazione contrattuale di Keita Baldé ha portato Lotito a cercare un patto col diavolo per evitare di cederlo sottoprezzo ad una delle squadre italiane interessate (a quanto pare soprattutto Juventus e Inter). Il diavolo in questo caso ha assunto le sembianze di Jorge Mendes, che dopo aver facilitato la cessione di Keita al Monaco per la cifra originariamente chiesta dalla Lazio (Mendes è il principale advisor del club monegasco) ha chiesto in cambio un favore.
Oltre all’arrivo di Nani, suo assistito per molti anni ora curato da Pastorello, Mendes ha mediato anche l’arrivo di due giovani talenti del Braga (altro club fortemente influenzato dall'agente portoghese) che saranno inizialmente inseriti nelle giovanili biancocelesti: Pedro Neto e Bruno Jordão. Un’operazione economicamente vantaggiosissima per la Lazio nel breve periodo (Nani arriva in prestito con obbligo di riscatto per una cifra vicino ai 3 milioni) che ha trovato immediatamente il sostituto di Keita e in più due giovani su cui provare a fare plusvalenza nell’arco di un triennio.
Il campo però potrebbe essere un giudice diverso rispetto a quello dei conti. Nani, infatti, viene da due stagioni in chiaroscuro prima al Fenerbahce e poi al Valencia, pesantemente influenzate da un declino fisico accentuato da un grave infortunio muscolare che la scorsa stagione l’ha tenuto fuori quasi due mesi.
Nonostante ciò, il portoghese potrebbe comunque coniugarsi bene con il gioco di Inzaghi. Come detto, Nani ha perso la grande velocità di cui disponeva da giovane, ma rimane comunque un giocatore che si impegna molto senza palla, e che può giocare quindi sia da esterno (provando ad andare dietro la difesa avversaria con tagli esterno-interno) sia da seconda punta, creando spazi per la prima punta e finalizzando in area.
Va detto a questo proposito che la scorsa stagione, in un Valencia in pieno caos societario e tecnico, Nani si è impegnato ad aiutare la squadra più in veste di assist man che di finalizzatore vero e proprio. Nani ad oggi sembra dare il meglio di sé quando viene incontro al centrocampo, giocando nei mezzi spazi, aiutandosi con il suo ottimo controllo di palla e la sua grande visione di gioco.
In questo senso, Nani può tornare utile sia nel 3-4-2-1 attuale che in un eventuale 4-3-3. In quest’ultimo caso, essendo ambidestro, potrebbe agire su entrambe le fasce ma, con la presenza di Felipe Anderson, sarebbe naturalmente dirottato sulla fascia sinistra, come nel Valencia. Anche una possibile partnership con Immobile (magari in un 3-5-2) sembra sulla carta poter funzionare molto bene, visti i movimenti in profondità garantiti dall’italiano.
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Dal punto di vista realizzativo è lecito avere dei dubbi, ma Nani garantirà alla Lazio un buon apporto creativo, sia in termini di dribbling (la scorsa stagione ne ha provati 4 a partita, riuscendo in meno della metà) che di passaggi chiave (1.6 a partita la scorsa stagione).
Insomma, vista l’età e la scarsa malleabilità tattica, non esattamente l’acquisto ideale ma sicuramente utile, soprattutto in un momento del mercato in cui è difficile andare a prendere giocatori di primissima fascia. A fare patti col Diavolo di solito non si vince mai, ma qualcosa di buono, almeno nel breve periodo, lo si può sempre ricavare.
Höwedes non è un ripiego
di Daniele V. Morrone
[martedì 29, mattina]
Dopo anni di delusioni, lo Schalke 04 ha deciso di aprire un nuovo ciclo con il giovane allenatore italiano Domenico Tedesco (trentaduenne, ex-ingegnere della Mercedes, con una gavetta - seppur breve - nelle giovanili di Stoccarda e Hoffenheim, prima del passaggio al Erzgebirge Aue lo scorso anno, che poi gli è valso la chiamata dello Schalke). Alla squadra è in atto un processo di rinnovamento che, come tale, sta per forza di cose mettendo da parte alcuni giocatori. Uno di questi è Benedikt Höwedes, a cui è stata già tolta la fascia di capitano dopo sei stagioni.
Höwedes è un centrale completo che ha anche giocato da terzino destro (ad esempio ai Mondiali del 2014), nonostante la rigidità nei movimenti (diciamo che non è agilissimo anche se discretamente potente). Höwedes da terzino non garantisce ampiezza sull’esterno e non arriva quasi mai sul fondo, e per questo motivo funziona più come punto di supporto nella costruzione dell’azione (grazie alla sua precisione nel gioco corto) che da uomo a tutta fascia.
Da centrale, però, Höwedes garantisce una sensibilità tecnica che pochi altri difensori hanno. Il centrale tedesco è anche un profondo conoscitore dell’arte difensiva, essendo cresciuto in un campionato fisico e di transizioni. In particolare ha sviluppato un’indole per il gioco aggressivo e la difesa in avanti, ed è quindi portato naturalmente a cercare l’anticipo o ad accorciare. Il tutto, con grandi capacità di lettura.
Esempio:
Con i suoi 1.87m e 82kg, Höwedes ha un fisico perfetto per un centrale moderno, non imponente ma con spalle larghe e gambe potenti per reggere i duelli individuali e tenere la marcatura in area contro anche gli avversari più abili nei duelli aerei. Quello che veramente sorprende di Höwedes, quello che l’ha portato ad essere spesso dirottato sulla fascia, è la potenza nelle gambe. Höwedes ha un’ottima capacità di recupero, finendo più volte ad essere lui il centrale che garantisce la copertura della profondità, pur essendo un giocatore che vuole difendere in avanti. A questo proposito è stata leggendaria la sua marcatura su Giroud in occasione degli ultimi Europei.
La stessa potenza nelle gambe gli garantisce una grande forza nei duelli aerei, un fondamentale dove eccelle sia nello stacco che nella tecnica, e che lo rende molto pericoloso anche sui calci d’angolo, in funzione offensiva. Höwedes è un colpitore di testa che punta più sulla potenza che sulla precisione, è vero, ma nei duelli aerei può essere veramente devastante, soprattutto se gli si concede lo spazio per saltare in tre tempi.
Forse è ancora più sottovalutata la sua attitudine offensiva: la convinzione e l’intelligenza, cioè, con cui si spinge in avanti senza palla non accontentandosi dell’appoggio semplice. Höwedes ha un ottimo tempismo nel buttarsi tra le linee, dando un’ulteriore linea di passaggio ai propri compagni. È comune vederlo recuperare il pallone e poi partire in conduzione ben oltre il centrocampo così da far saltare le marcature e disordinare la squadra avversaria.
Qui, ad esempio, imposta l’azione con freddezza e poi, individuato un varco, si lancia in avanti finendo fino in area.
Quello che più deve aver convinto la Juventus a puntare su di lui è però il suo gioco con la palla. Höwedes è un giocatore molto sicuro nella gestione dell’uscita del pallone dalla difesa, bravo nelle letture, e freddo e preciso nell’esecuzione.
Nel passaggio corto è una certezza, mentre nel lungo, nonostante non abbia mai avuto il volume di lanci di Bonucci, parliamo comunque di un giocatore che la scorsa stagione ha completato 4 lanci a partita, un ordine di grandezza molto vicino a quello di Benatia, per intenderci.
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Una delle principali incognite di un acquisto simile riguarda la solidità fisica. Höwedes ha sempre avuto diversi problemi con gli infortuni e solo nell’ultima stagione ha superato le 30 partite in Bundesliga (l’ultima volta era stato addirittura nella stagione 2012-13). Un problema non di poco conto per un reparto con un urgente bisogno di rinnovarsi (Caldara arriverà solo l’anno prossimo) e che, senza Bonucci, deve completarsi numericamente.
Per il resto, però, non ci sono motivi per non ritenerlo un buon acquisto per la Juventus. Potrebbe garantire una sicurezza più grande di De Sciglio (che sembra momentaneamente bocciato da Allegri) e una fisicità di molto superiore a Lichsteiner. Da centrale, oltre alle doti in impostazione appena descritte, garantirebbe una copertura in marcatura che potrebbe dare sicurezza a tutto il reparto e, considerando anche che Rugani e Benatia non hanno cominciato la stagione al proprio meglio Allegri potrebbe pensarci. In ultima analisi, Allegri potrebbe anche tornare alla difesa a 3... In ogni caso Höwedes è nel pieno della propria maturità fisica e mentale, ed inoltre ha l’adattabilità giusta per soddisfare qualsiasi (quasi) richiesta di Allegri.
Coccodrilli - Carlos Bacca al Villarreal
di Francesco Lisanti
[lunedì 28, mattina]
Dell’ultima stagione di Bacca al Milan ricordo immediatamente due assist. Il primo realizzato nel derby di andata, quando ha rubato il tempo a Murillo, usato Suso come sponda per scappare al di là della linea difensiva interista, e poi servito nuovamente Suso sulla corsa, in area di rigore. Il secondo realizzato nel derby di ritorno, al proverbiale minuto 97, quando ha avuto la possibilità di saltare da solo al centro dell’area e di indirizzare la palla verso Zapata, perché Medel era scappato impaurito verso la linea di porta.
Certo, sono stati due assist decisivi, che mettono in mostra quegli strappi e quelle intuizioni che lo rendevano uno degli attaccanti più prolifici del campionato (il colombiano è sesto in Serie A per somma di gol segnati nelle ultime due stagioni, 31, nonché uno dei nove giocatori a raggiungere la doppia cifra in entrambe le annate). Eppure, due assist: non proprio quello che ci si aspettava un giocatore arrivato in Italia con la fama dell’attaccante spietato.
Essere ricordato per i passaggi prima che per i gol: è, per me, il segnale del suo declino, lo stesso che si presenta a quasi tutti gli attaccanti dopo i 30 anni. Gol che pure ci sono stati, e degni della sua fama di implacabile finalizzatore, ma è stato difficile apprezzarli, e non sentire il magone poco dopo di fronte ai segnali del suo tramonto.
Qui, ad esempio, aveva dimenticato come si passa il pallone.
Il paradosso dentro il quale Bacca ha umilmente ritagliato una carriera di alto livello, quello di attaccante non troppo alto, non troppo forte, non troppo veloce, non troppo elegante, non troppo preciso, eppure tremendamente efficace, è stato a lungo lo specchio della sua esperienza italiana.
Nei due anni in Italia non l’abbiamo visto calciare spesso, soltanto 2,2 tiri ogni 90 minuti, pochissimi se confrontati alle occasioni avute da quei 5 attaccanti che hanno segnato più di lui (Mertens 5, Higuaín 4,8, Dzeko 4,7, Belotti 3,2, Icardi 2,7). L’abbiamo però visto segnare molto, e non soltanto grazie ai rigori (6, il 20% del contributo complessivo). Le ragioni sono da rintracciare in parte nella produzione offensiva delle rispettive squadre, in parte nelle caratteristiche dei singoli: tutti gli attaccanti in questa lista, chi più chi meno, sono più bravi di Bacca a ricavarsi lo spazio per la conclusione.
Non l’abbiamo mai neanche visto particolarmente coinvolto nella distribuzione, pochi palloni toccati, pochi passaggi e neanche troppo precisi. Più spesso, l’abbiamo visto affannarsi per un cross fuori misura o per un lancio partito in ritardo, mandare al diavolo arbitri, avversari e compagni, recuperare indolente la posizione. Non è mai stata tutta colpa sua: parliamo di un attaccante alto 181 centimetri, con scarsissima elevazione, in grado di arrivare a contendere un duello aereo soltanto quando i difensori glielo permettono (quindi soltanto contro difensori molto molto lenti: qui Rossettini, qui il Pipo González).
Bacca sembrava aver perso anche la voglia di saltare.
Due anni fa ci chiedevamo se Bacca, al Milan, avrebbe mai trovato un contesto tattico congeniale, e a conti fatti non è andata così. Quando ha avuto la possibilità di dividere il fronte di attacco con un compagno, come Gameiro nel Siviglia, Teo Gutiérrez nella Sele, Luiz Adriano, Niang e persino Lapadula nel Milan, Bacca è stato sotto diversi aspetti un attaccante migliore. Sicuramente un attaccante più felice.
Affiancare un compagno a Bacca significa dare un senso ai suoi movimenti tra le linee, al suo gioco spalle alla porta mai banale, e significa sottrargli una fetta di attenzioni della difesa, ridurgli le responsabilità negli ultimi 50 metri di campo. Spesso ha invece dovuto affannarsi in una squadra con il baricentro basso e nessun riferimento vicino, e ha facilmente perso la voglia di farlo.
Anche scattare sul filo del fuorigioco era diventato un peso.
Nel Villarreal sarà impiegato stabilmente in un 4-4-2, e potrà tornare a indossare stabilmente l’amarillo, nel tentativo di ammortizzare la nostalgia di casa. Il suo cartellino è costato circa 18 milioni, il riconoscimento di un valore ancora presente, non scintillante, ma neppure sbiadito (era esattamente la cifra che serviva per evitare la minusvalenza).
L’ultimo, malinconico tiro di Bacca a San Siro
Il breve passaggio di Bacca ci ha confermato che pochi giocatori sono realmente in grado di esercitare un controllo totale sull’andamento di una partita. I fattori al di fuori del proprio controllo - un cross fuori misura, un lancio partito in ritardo, o un difensore particolarmente ispirato - spesso e volentieri marcano la differenza tra una giornata di gloria e una magra prestazione.
A Bacca, che ha vissuto entrambe, auguro di ricominciare con il Villarreal la rincorsa all’Europa League, il suo terreno di caccia preferito. Quest’anno, chissà, potrebbe incontrare subito il Milan.
Coccodrilli - Gary Medel al Besiktas
di Fabrizio Gabrielli
[giovedì 24, mattina]
Arrivato nel 2014 con le valigie di cartone dell’eroe popolare suburbano, intrise di incenso e lacrime per un Mondiale in cui aveva incarnato perfettamente l’archetipo del Cuore-E-Garra agonistica trascinando il suo Cile fino agli Ottavi del Mondiale, Gary Medel ha avuto lo sfortunato pregio di vincere molto, moltissimo, oltre il pensabile durante la sua militanza nerazzurra, ma - allo stesso tempo - di non averlo fatto con la maglia dell’Inter: due Copa América con una Roja che pure la Copa América non l’aveva vinta mai, e neppure mezzo trofeo con il Biscione, una macchia che pesa come un macigno su chiunque abbia vissuto l’ambiente interista dopo i fasti Ancien Régime del Triplete.
Un solo gol in tre anni, per quanto bello e perfettamente medeliano, e neppure la soddisfazione di una tautologia come questa rete in cilena da cileno (era il suo esordio con la Nazionale).
Lascia Milano con una foto triste più che malinconica per trasferirsi in Turchia, nel Besiktas, dove raggiunge Pepe, Negredo, una tifoseria dall’animo combattivo à la sudamericana: un contesto che secondo la vulgata dovrebbe calzargli a pennello, se accettassimo l’idea che Gary Medel sia davvero quel tipo di calciatore che i cliché ci restituiscono (e non è detto che non lo sia).
La sua storia personale lo consegna alla combattività che appartiene all’immaginario, oltre che alla storia, del Besiktas, la più antica polisportiva turca le cui prime sezioni, non a caso forse, furono quelle di lotta e pugilato. «Se non fossi diventato un calciatore», ha detto più volte, «ora sarei un narcotrafficante o un delinquente». Avvoltolato nel sottoproletariato di La Palmilla, Medel è cresciuto in quel tipo di bambagia acuminata in cui ti aggrediscono in gruppo o ti puntano le pistole alla tempia se non porti la tua squadra alla vittoria, o come si dice, se non muori (eufemisticamente) provandoci, a costo di farti saltare un dente.
José Sulantay, che è stato il suo tecnico nell’U20 nel 2007, ha raccontato di averlo visto giocare e di averlo frettolosamente giudicato, semplicemente, un «piccolo e coraggioso ragazzo»: in Canada, nel mondiale di categoria di quell’anno, gli avrebbe dimostrato di avere la tenacia disperata che solo chi è padre di due gemelli già grandicelli può avere. Un piccolo e coraggioso ragazzo che, come scriveva un poeta suo conterraneo, si sarebbe mangiato tutta la terra e bevuto tutto il mare.
Un altro suo motto è che nel calcio ci vogliono «cuore, testa, intelligenza e palle».
I tifosi dell’Inter hanno a lungo sperato che Gary Medel li ripagasse con un po’ di quella follia invasata che metteva nelle esultanze dei Clásicos tra Boca e River (nel 2010 segnò una doppietta, mise le mani in faccia a Gallardo e venne espulso tra l’ovazione della Bombonera), ma anche temuto che replicasse imprese tipo sfondare sedie, che poi fanno esplodere bottigliette, che poi colpiscono poliziotti a bordo campo (sempre che la parte più sconsiderata dell’espulsione nella Copa del Rey 2013 contro l’Atletico Madrid non sia stato il fallo con successiva imbruttita da terra a Diego Costa).
Quella spericolatezza kamikaze a cui si riferisce Bielsa quando dice che Medel «in ogni tackle che fa ci mette tutta la vita dentro».
I tre anni italiani sono invece stati la fotografia fuori fuoco di una versatilità mai davvero totalmente sfruttata, che si è tradotta in un’ambiguità di ruolo (più centrale difensivo come in Nazionale o mediano muscolare?), e, chissà, in una misinterpretazione.
Dopotutto Medel non è mai sceso nelle ultime tre stagioni sotto il 90% di accuratezza nei passaggi, ha vinto il 100% dei dribbling e il 50% degli uno contro uno.
I posizionamenti difensivi che ha mostrato all’Inter, però, sono stati solo a tratti brillanti come quelli con la Roja: il più delle volte, anzi, tutto al contrario hanno sviscerato una certa sanguinosità. A Medel capitava spesso di perdere la palla, quel tipo di spesso che coincide con le partite e le zone di campo meno indicate.
Anziché un aristocratico arrovellamento sulle proprie lacunosità, Medel ha sempre contrapposto ai suoi limiti l’ingenuità dell’irruenza incontrollabile e dell’aggressività, la tenacia che mettono i galli da combattimento quando l’avversario gli becca la cresta, e non ci vedono più dalla rabbia e contraccambiano scomposti.
A pochi giorni dal suo arrivo a Istanbul gli hanno proposto di girare uno spot: avrebbe dovuto fare una rovesciata lanciandosi da una scala su un materasso. Si è rifiutato di farlo, perché l’ha giudicato troppo pericoloso.
Forse la Turchia, e il Besiktas, sono davvero la riserva naturale perfetta per togliere il guinzaglio al Pitbull e lasciarlo scorrazzare libero di esprimersi, di mordere, di sprimacciare gli artigli come nella nuova foto che campeggia sul campo profilo dei suoi Social. Sempre che riescano a capirlo, allontanandosi - con un po’ di pensiero laterale - dalla gabbia dei luoghi comuni.
Almeno, più di quanto abbiamo saputo fare noi.
Cinque possibili destinazioni per Claudio Marchisio
di Marco D'Ottavi
[mercoledì 23, mattina]
Come un fulmine a ciel sereno, fulmine se siete tifosi della Juventus o dell’idea che esistano ancora le bandiere, è uscita la notizia secondo cui Claudio Marchisio non sarebbe più incedibile ma, anzi, la Juventus vuole usarlo come pedina di scambio. Secondo le voci più inquietanti (ma anche meno affidabili) sarebbe Marchisio stesso a voler cercare una squadra in cui gli venga garantito un maggior minutaggio.
Vero o non vero, il mercato ci ha insegnato che un calciatore veramente incedibile non esiste più. Dall’altra parte, però, è una notizia che se venisse confermata sarebbe enorme (specie nella stessa estate in cui se ne è andato Bonucci). Marchisio è il vero simbolo della Juventus di oggi: per natali, titoli e pedigree si porta dietro una simbologia troppo importante per essere scambiata con la facilità con cui questo accade negli ultimi giorni di mercato.
Voglio dire, Marchisio è alla Juventus da quando ha 7 anni.
Dopo un ottimo precampionato, Marchisio è partito dalla panchina nella Supercoppa, pochi giorni dopo è arrivato Matuidi e si parla anche dell’arrivo di un altro centrocampista. È innegabile che le quotazioni di Marchisio nelle gerarchie di squadra sono calate dal momento dell’infortunio ai legamenti precedente allo scorso Europeo, soprattutto se la Juventus continuerà a giocare con un centrocampo a 2.
Il “Principino” non è più un titolare inamovibile ormai dal secondo anno di Conte, da quando è stato necessario trovare un posto in campo prima del previsto a Pogba; ma mai la sua presenza era sembrata non necessaria, tanto meno si era mai parlato di una sua possibile cessione, chiesta da lui o ipotizzata dalla società, in modo così insistente.
Se la Juventus non è più sicura di voler mettere il suo figlio più fedele al centro del suo progetto tecnico, sicuramente ci sono altre squadre pronte a farlo. Quali?
Marchisio al Milan?
Verosimiglianza: 10%
Livello di dispiacere che causerebbe nei tifosi bianconeri: 10/10
Giocherebbe di più: insomma
Il nuovo Milan di Montella sembra in qualche modo voler ricalcare le orme della nuova Juventus di Conte. Dopo aver preso due esterni a tutta fascia, un playmaker basso in grado di dettare la manovra, un centrocampista dalla forza erculea e Bonucci - proprio Bonucci non uno simile - avrebbe molto senso affidarsi per caratteristiche ed esperienza a Claudio Marchisio (anche se la società rossonera ha smentito di essere interessata ad acquistare il centrocampista della Juventus).
In un centrocampo a 3, con dietro 4 o 5 difensori, Marchisio ci sta bene come il cacio sui maccheroni. Il “Principino” può giocare all’occorrenza davanti alla difesa (non ha le capacità di palleggio di Biglia, ma la sua abilità nel difendere lo spazio è davvero importante in un campionato come la Serie A) ma soprattutto come mezzala, ruolo dove per anni è stato uno dei migliori interpreti al mondo, potrebbe contribuire ad aumentare l’intensità e l’offensività del Milan.
Certo in quella posizione ci sono Calhanoglu e Bonaventura, a sinistra, per non parlare di Kessié a destra che al momento sembra insostituibile. Marchisio però ha una capacità di inserimento che né il turco né l’italiano hanno, capacità accantonata dall’arrivo di Allegri alla Juventus, ma che sarebbe utilissima al gioco di Montella.
Potrebbe questo accadere di nuovo a maglie invertite?
Marchisio al Chelsea?
Verosimiglianza: 9%
Livello di dispiacere che causerebbe nei tifosi bianconeri: 7/10
Giocherebbe di più: dipende da cosa passa per la testa di Conte
Antonio Conte sta provando a comprare suoi ex giocatori dal primo giorno in cui si è seduto sulla panchina del Chelsea: finora non ci è ancora riuscito, ma Marchisio farebbe al caso suo. Sostituito Matic con Bakayoko, il Chelsea continua ad avere problemi di dinamismo a centrocampo e il “Principino” aumenterebbe anche la capacità di gestione del pallone (senza Fabregas, contro il Tottenham c’era David Luiz davanti alla difesa per provare a impostare meno precipitosamente l’azione rispetto alla coppia Kanté-Bakayoko).
Marchisio ha già giocato con Conte, sa quello che vuole e come lo vuole. Potrebbe rendersi utile fin dal primo giorno ed aiutare i Blues a confermarsi sia in campionato che in Champions con la sua duttilità tattica. Marchisio poi rientra nella categoria tipicamente inglese dei centrocampisti box to box e sebbene abbia perso parte del dinamismo della prima parte della carriera, sarebbe davvero intrigante vederlo all’opera in Premier League.
Marchisio alla Roma
Verosimiglianza: 5%
Livello di dispiacere che causerebbe nei tifosi bianconeri: 8/10
Giocherebbe di più: assolutamente no
Non è un mistero che la Juventus abbia chiesto informazioni su Strootman, uno dei migliori centrocampisti del campionato italiano. Al momento sembra una trattativa impossibile, perché la Roma non sembra disposta a cederlo, ma un eventuale inserimento di Marchisio potrebbe in qualche modo sbloccarla? Probabilmente no, e va detto che non c’è neanche una voce al riguardo. È interessante però riflettere sull’adattabilità di un giocatore come Marchisio al 4-3-3 di Di Francesco. Il centrocampista italiano è un giocatore di “sistema”, capace di inserirsi nei meccanismi del tecnico abruzzese con la facilità di un salmone che impara a nuotare controcorrente.
La Roma potrebbe usare i soldi guadagnati nello scambio - che non sarebbe alla pari - per aumentare il budget per l’acquisto di un centrale e di un attaccante esterno mancino, ovvero i due profili di cui necessita abbastanza disperatamente. Sarebbe un win-win per tutti quelli che non hanno un cuore nel petto. Se poi la Roma in qualche modo riuscisse a mettere le mani su Marchisio senza perdere niente sarebbe ancora meglio, considerando che dovrà affrontare campionato e Champions League e che dietro a Strootman e Nainggolan ci sono sostituti di livello ma nessuno quanto lo sarebbe Marchisio. Certo, Marchisio non giocherebbe molto di più che con Allegri, probabilmente...
Los Angeles (Galaxy o FC)
Verosimiglianza: 4%
Livello di dispiacere che causerebbe nei tifosi bianconeri: 5/10
Giocherebbe di più: sì ma non è questo il punto
Oltre che bravo, bisogna ammetterlo, Marchisio ha anche una faccia bella, la faccia di un attore di Hollywood. A 31 anni potrebbe decidere di mettere da parte le sue velleità di brillare nel calcio europeo e andare a far parte di quella lista di connazionali che stanno infiammando la MSL (col suo amico Giovinco in testa). Los Angeles sarebbe la destinazione perfetta per lui e per la sua faccia, che sia nei glamour Galaxy dei fratelli Dos Santos oppure - ancora meglio - nella nuova franchigia che sta nascendo nella città degli angeli, i Los Angeles FC. Il Principino sarebbe l’alfiere perfetto di questa operazione di marketing che vuole da subito dire la sua nella MLS.
Quanto gli donerebbero il nero e l’oro?
Marchisio al Bayern Monaco?
Verosimiglianza: 3%
Livello di dispiacere che causerebbe nei tifosi bianconeri: 4/10
Giocherebbe di più: magari sì, dipende
Già un anno fa, quando di fatto Marchisio era incedibile, il Bayern di Monaco pare abbia provato a prenderlo, su esplicita richiesta di Carlo Ancelotti. Non che i tedeschi abbiano grossi problemi a centrocampo, ma sarebbe un profilo molto interessante in una zona del campo orfana di Xabi Alonso. Considerando la propensione agli infortuni di Thiago Alcantara, il centrocampista italiano potrebbe ritagliarsi il suo spazio in una squadra ambiziosa che punta a vincere tutto. Il passaggio non sarebbe neanche traumatico visto che, a detta di tutti, il Bayern Monaco è la Juventus di Germania (o forse è la Juventus ad essere il Bayern Monaco italiano dopotutto).
Un’esperienza in un campionato tatticamente in ascesa farebbe sicuramente piacere a Marchisio, il cui sangue sabaudo si sposa benissimo con quello mitteleuropeo. Potrebbe insegnare ai tedeschi come ci si veste e fare tutte queste cose per cui noi italiani ci sentiamo superiori ai tedeschi. Con il classico vestito bavarese per l’Oktober Fest, poi, Claudio Marchisio starebbe benissimo. Sarebbe un peccato però fotografarlo vicino a Ribery.
Gli ultimi giorni del mercato juventino
di Fabio Barcellona
[martedì 22, mattina]
Il mercato della Juventus non è ancora finito e continua a muoversi in maniera controintuitiva rispetto ai ragionamenti sulle teoriche esigenze dei bianconeri. Le voci più insistenti in questi ultimi giorni di trattative riguardano il possibile approdo a Torino di Leonardo Spinazzola, Keita Baldè e, nonostante l’arrivo di Blaise Matuidi, di un altro centrocampista. Per quest’ultimo ruolo gli ultimi rumor riguardano Kevin Strootman (anche se la trattativa appare proibitiva). Più sfumate invece le voci che interessano i ruoli di terzino destro e centrale, dove le partenze di Dani Alves e Bonucci lasciano un vuoto che la società non sembra intenzionata a colmare.
Spinazzola e le sostituzioni di Dani Alves e Bonucci
La richiesta all’Atalanta di liberare Spinazzola un anno prima della fine del suo prestito biennale è l’operazione con la spiegazione più leggibile. L’esterno sembrava solo uno dei tantissimi giocatori del settore giovanile mandati in prestito più per coltivare i rapporti e consolidare il potere con le squadre minori, che per un reale progetto tecnico sul calciatore. Invece, non più giovanissimo e arretrato di una ventina di metri dalla sua precedente posizione di ala, Spinazzola ha finito per disputare un’ottima stagione col Perugia, che gli è valsa la chiamata dell’Atalanta. A Bergamo è esploso come esterno del 3-4-3 di Gasperini, che ha esaltato le sue doti atletiche, capaci di combinare resistenza e velocità.
Sebbene come esterno di una difesa a 4 le sue capacità difensive siano ancora da testare in serie A, la Juve si ritrova quasi per caso tra le mani un potenziale buon terzino di 24 anni, impiegabile su entrambe le fasce (anche se preferisce la fascia sinistra) e anche in posizione più avanzata. L’idea dei bianconeri è probabilmente quella di sostituire Asamoah, che sembra interessare molto al Galatasaray, con un giocatore di cinque anni più giovane, uscendone con una plusvalenza. Spinazzola può essere il naturale sostituto di Alex Sandro, ma anche spostarsi sul lato opposto per il ruolo di sostituto di Dani Alves. La speranza è che aumentando la concorrenza per la posizione aumenti anche il rendimento dei giocatori.
Anche nel caso di Leonardo Bonucci la strategia della Juventus sembra quella di non provare a sostituire i partenti con giocatori di caratteristiche simili o di valore paragonabile, probabilmente per mancanza di opzioni raggiungibili sul mercato. La scelta sembra quella di sopperire alle cessioni eccellenti affidarsi ai giocatori in rosa e alle variazioni tattiche.
Perché un altro esterno?!
Più complesso è il discorso del possibile acquisto di Keita Balde. Sfumato (temporaneamente?) a seguito degli esiti delle visite mediche l’acquisto di Patrick Schick dalla Sampdoria (https://www.ultimouomo.com/hype-patrick-schick/ ), sembrava che la Juventus, dopo l’acquisto di Douglas Costa, avesse chiuso gli acquisti nel reparto offensivo con l’arrivo dalla Fiorentina di Federico Bernardeschi.
E invece le voci di un interesse per Keita Balde si sono fatte via via sempre più insistenti. Se Schick poteva essere considerato un sostituto di Higuain e Dybala ((https://www.ultimouomo.com/hype-patrick-schick/ ), Keita, pur potendo giocare da punta centrale, ha bisogno di spazi per potere meglio esprimere il suo potenziale (https://www.ultimouomo.com/chi-e-davvero-keita-balde/ ). In un club come la Juve, che spesso si trova ad attaccare in spazi stretti e contro difese chiuse, la collocazione più idonea per il senegalese sarebbe quindi sull’esterno, in una posizione già ampiamente coperta da Juan Cuadrado, Mario Mandzukic e Marco Pjaca, oltre che dai due nuovi acquisti.
Davvero tanti giocatori per poche posizioni, senza contare Paulo Dybala e Gonzalo Higuain. L’idea è che l'acquisto di Keita risponda alla strategia societaria di accaparrarsi i migliori giovani sul mercato interno dove i prezzi non sono ancora esplosi come in campo internazionale. Specie se la situazione contrattuale e i pessimi rapporti del giocatore con la propria società ampliano i margini per la cessione. Ad accompagnare le voci di un arrivo di Keita ci sono però quelle parallele di una partenza di Juan Cuadrado. Anche in questo caso la Juve proverebbe a ringiovanire la rosa inserendo un talento di 7 anni più giovane e versatile, anche se da rifinire tatticamente. Le attitudini difensive di Keita sono di molto inferiori a quelle di Cuadrado e sotto gli standard richiesti a un esterno del 4-2-3-1 bianconero; il suo adattamento a una fase offensiva prevalentemente posizionale richiederebbe di certo un po' di tempo.
Un altro centrocampista?
Tuttavia l’arrivo di Matuidi, apre ampi spazi per l’uso di in centrocampo a 3 che giustificherebbe la ricerca di un altro centrocampista dopo il francese, in un reparto che già conta 6 interpreti in rosa, più Mandragora in prestito al Crotone. Un centrocampo a 3, più folto e meglio scaglionato in campo, potrebbe ovviare ai problemi di costruzione dell’azione e in transizione difensiva visti nelle amichevoli e in Supercoppa. Di certo le voci su una possibile, clamorosa cessione di Marchisio non aiutano a fare chiarezza sulla strategia dei bianconeri per il centrocampo.
Come spesso affermato da Marotta, il mercato della Juventus è sempre un mix di programmazione e opportunità. In quest’ultimo caso, la possibilità di acquistare un buon giocatore a prezzi ritenuti convenienti dalla società è sempre presa in considerazione: il talento si compra e poi si trova il modo di farlo giocare sul campo.
Mai come quest’anno il solito lavoro da sarto di Allegri, bravissimo a cucire un abito tattico in grado di esaltare le connessioni dei propri talenti, sarà difficile e importante. Il talento a disposizione da centrocampo in avanti forse non è mai stato così interessante.
Perché l'Everton ha speso così tanto per Sigurdsson?
di Daniele V. Morrone
Comprare un giocatore di Premier League in questo momento, se si lavora per una squadra di Premier League, è pura follia: sicuramente si può trovare un giocatore dalle caratteristiche simili in un altro campionato europeo pagando molto di meno. Con questo presupposto, il discorso sulla valutazione di Sigurdsson, costato circa 50mln all’Everton, è stato uno dei dibattiti dell’estate già da molto prima che il trasferimento si concretizzasse. Il motivo di tale dibattito nasce dalla natura stessa della valutazione che diamo ad un giocatore che si trova a passare ad una squadra ambiziosa come l’Everton, in provenienza da una meno ambiziosa come lo Swansea.
Sappiamo con certezza chi è Sigurdsson a 27 anni: è un rifinitore che si muove libero nella trequarti dello Swansea per ripulire la manovra della squadra; l’azione base dello Swansea prevedeva una circolazione del pallone senza troppe pretese puntando verso l’esterno del campo nella speranza di un 1vs1 favorevole, fino al movimento incontro di Sigurdsson nella zona della palla pronto a ricevere spalle alla porta, riceverla e proteggerla, distribuirla, muoversi poi senza palla per riceverla ancora e dare l’ultimo passaggio o tirare in porta.
Senza di lui lo Swansea non praticamente non riusciva neanche ad arrivare in area.
Nelle ultime tre stagioni solo quattro giocatori hanno effettuato più assist dei suoi 26 (e sono tutti calciatori di élite: Cesc, Özil, Eriksen, de Bruyne). La scorsa stagione ha segnato 9 gol e servito 13 assist. Sigurdsson la scorsa stagione ha contribuito attivamente alla metà dei gol dello Swansea (solo altri due giocatori hanno avuto più peso e sono stati Defoe e Lukaku).
Adesso viene il difficile: l’eye test e le statistiche più generali ci dicono cosa fa Sigurdsson in campo, e ci dicono che lo fa più che decentemente, riuscendo il più delle volte anche ad aiutare la squadra e perdendo molti meno palloni di quanto si possa pensare. Se andiamo più a fondo nelle statistiche, però, vediamo che questo aspetto del suo gioco è “normale”, ad essere generosi. I nostri occhi vedono che Sigurdsson eccelle nel proteggere la palla, ma i numeri dicono che la distribuzione e la precisione non rientrano tra le migliori del campionato.
Per quanto si tratti di un giocatore con una tecnica eccellente, con un grosso Q.I. calcistico, altruista e in grado di muoversi lungo tutto il campo (pochi giocatori coprono tanto campo quanto lui), fisicamente solido; la domanda di fondo è se sia un giocatore adatto alle ambizioni dell’Everton o se la sua dimensione reale e ideale fosse quella interna a una squadra come lo Swansea.
Di sicuro è quello che devono aver pensato al Tottenham, quando hanno deciso di venderlo qualche anno fa, ed è quello che pensa una parte della comunità di analisti della Premier.
Questo è un grafico che riassume la stagione di Sigurdsson dal punto di vista statistico. Non è un grafico di un giocatore da prendere a 50 mln per fare il salto di qualità.
Il fatto è che Sigurdsson è uno specialista, un incredibile cesellatore, un manierista di prim’ordine in un preciso fondamentale tecnico dove ha pochi rivali in Europa. E cioè nei calci da fermo.
Nessuno ha dato tanti assist da palla da fermo quanto lui lo scorso anno (8). Considerando i gol da punizione e rigore, più della metà del suo apporto in termini realizzativi è arrivato da palla ferma. Punizione diretta, punizione per uno schema, calcio d’angolo.
In questo fondamentale Sigurdsson è realmente élite.
È più chiaro adesso quale sia il problema nel valutare Sigurdsson. L’islandese da anni è un’anomalia per chi utilizza le statistiche per aiutare l’analisi calcistica perché è un giocatore di élite nei calci da fermo - da sempre punto positivo per via del vantaggio che danno in termini realizzativi se eseguiti bene - ma come normalissimo in molti altri aspetti del suo gioco con e senza palla. Capire quindi cosa aggiunga in più rispetto ad un altro giocatore nello stesso ruolo della Premier League migliore con la palla (prendiamo Joe Allen, ad esempio) è veramente difficile.
Non è un caso però se la persona che ha valutato così tanto la sua eccellenza è quel Ronald Koeman che sull’eccellenza nei calci piazzati ci ha costruito sopra una carriera d’altissimo livello.
Ci vuole uno specialista per riconoscere un altro specialista e va detto che la Premier è una riserva naturale di giocatori dalle qualità molto asimettriche: Fellaini con la sua capacità di mettere giù qualsiasi lancio lungo, Kanté che copre tutto il campo con la sua corsa e capacità di tackle, il mostro di forza fisica e velocità in campo aperta che è Lukaku, i vari specialisti nei colpi di testa Carroll, Vokes, Crouch.
Ci sono state squadre costruite proprio a partire da questo, da una serie di specialisti che messi insieme riescono a dare il proprio contributo in determinati momenti della gara (basta pensare allo Stoke storico di Delap e le sue rimesse laterali).
Quindi, vista la scelta dell’Everton di spendere su Sigurdsson (forse i soldi del prossimo partente Barkley) i casi sono due: o Koeman ha scommesso sul fatto che la comunità degli analisti si sbaglino nel valutare il giocatore, o per lui il valore aggiunto dell’eccellenza di Sigurdsson è tale da portare la squadra a mangiare ancora un po’ del gap che li separa dalle top 6. Considerato quanto contano, in termini di occasioni create, i calci da fermo, magari Koeman ha pensato che avere in squadra il migliore del campionato possa valere più o meno qualunque prezzo. Forse così Koeman spera di ridurre ancora il gap che lo separa dalle “grandi”.
Di sicuro per giustificare il proprio posto in squadra rispetto ad un altro giocatore acquistabile sul mercato con la stessa cifra, Sigurdsson dovrà garantire come minimo lo stesso livello di occasioni create dello Swansea. E già questo non sarà semplice.
5 scatti rivelatori della voglia di Dembelé di andare al Barça
di Tommaso Naccari
[venerdì 18, mattina]
Cose che tutti sanno: Ousmane Dembelé ha 20 anni, gioca nel Borussia Dortmund, è uno dei giocatori più buggati a FIFA — credo che sia motivo di orgoglio esserlo quando si hanno 20 anni — ed è una delle promesse del futuro del calcio mondiale. Per cui, messa così, sembra davvero impossibile che Dembelé possa essere triste.
“Triste” è l’aggettivo che più usato nelle ultime ore per parlare di Dembelé, che pare abbia realizzato di non voler più stare in Germania. Per manifestare il suo malcontento, oltre a non presentarsi alle ultime sessioni di allenamento, il giocatore avrebbe boicottato la foto di squadra con una serie di smorfie che rendessero chiaro il suo stato d’animo.
Ho scelto i fotogrammi in cui si colgono tutte le sfumature interne di Dembelé, dopo aver realizzato che la partenza di Neymar è un’occasione troppo ghiotta per continuare a sprecare la giovinezza a Dortmund.
Il momento in cui si immagina con la maglia blaugrana
Dembelé è probabilmente stato tra i primi ad arrivare all’appuntamento per gli scatti ufficiali. Qui è perso nei suoi pensieri mentre aspetta che arrivino tutti, e si immagina con la maglia a strisce blaugrana mentre scia tra gli avversari sulla fascia sinistra, duetta con Iniesta, poi con Messi, poi mette cross telecomandati per Suarez che la spinge dentro a un metro dalla riga. È davvero troppo. È quasi come immaginarsi un porno in classe.
Il momento in cui realizza che non sarà così facile andarsene
Subito dopo aver fantasticato, Dembelé realizza che la sua squadra farà di tutto per trattenerlo e/o alzare il prezzo oltre ogni ragionevolezza. L’unico del quadretto davvero felice sembra Reus, tutto attorno capi chini e sorrisi poco convinti. L’odio nello sguardo di Dembelé è contagioso e ferisce chi gli sta intorno. Non solo non può andarsene, ma deve partecipare alla farsa della foto di squadra. Costretto a un angolo in castigo.
Il momento in cui inizia a cercare una soluzione
Questo è il momento in cui le rotelle di Dembelé iniziano a ragionare. Come far capire a chi ti costringe in una relazione che sarebbe meglio per entrambi se finisse? Prima che qualcuno si faccia male?
Il momento in cui vede la luce
Dembelé abbozza un sorriso distante. I compagni lo prendono in giro ma lui è col cervello da un’altra parte, ha capito come andarsene.
Il momento in cui si sente furbo
L’intuizione: non presentarsi all’allenamento. Non ci voleva molto a capirlo, ma dopo la Sentenza Bosman il destino di un calciatore è nelle proprie mani e non in quello delle società. Le catene sono state spezzate, nessuno può costringerlo a giocare dove non vuole. La faccia di Dembelé trasuda soddisfazione e anche chi gli sta intorno capisce che qualcosa in lui è cambiato: se prima lo sguardo di chi sedeva alla sua destra era divertito, ora è un misto tra ammirazione e sorpresa. Farà perdere le sue tracce, parlerà solo tramite i propri avvocati, dirà a tutti che aveva un Gentleman agreement col BVB per poter passare a un club del livello del Barcellona.
Il braccio di ferro continua. Il Borussia ha sospeso Dembelé e continua una trattativa a oltranza con il Barcellona, avanzando pretese sempre più folli, rifiutando un’offerta da 100 milioni e chiedendone 150.
Dembelé intanto fa i bagagli, sicuro del fatto suo. Perché nessuna prigione può rinchiuderti quando sei libero dentro.
Che tipo di giocatore è diventato Mangala?
di Daniele Manusia
[giovedì 17, mattina]
Avrà anche ragione chi dice che la fortuna non esiste, ma di sicuro ci sono difensori a cui servirebbe che la palla gli finisca addosso un po’ più spesso di quanto succede in realtà, che li colpisca su una gamba anziché passargli sotto le gambe, che un avversario vada a sbattergli contro in piena corsa tentando di dribblarlo, anziché aggirarlo lasciandolo sul posto come se qualcuno gli avesse annodato i lacci delle scarpe tra loro. Ci sono difensori che meglio di quello che stanno facendo non possono fare, che hanno qualità fisiche e tecniche sufficienti, con un’intelligenza calcistica non inferiore a terzini o trequartisti con una reputazione migliore della loro, che però - in una determinata partita, o in una serie di partite più o meno lunga - hanno la capacità negativa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Eliaquim Mangala, da almeno un paio di stagioni, è uno di questi difensori.
Questo è Mangala che si avventa su un pallone come un toro che ha visto porpora ed ha la “sfortuna” di finire vittima della capacità di improvvisare di Kevin Prince Boateng.
Faccio questa premessa perché a volte ci dimentichiamo quanto il filo che separa il fallimento dal successo - o quanto meno la dignitosa sopravvivenza - sia sottile. Nel calcio come in tutto il resto.
Mangala è stato acquistato dal Manchester City al termine di due stagioni brillanti in quel Porto da cui sono usciti Falcao, James Rodriguez, Joao Moutinho, Jackson Martinez, Otamendi, Alex Sandro, Danilo, Fernando. È arrivato in Premier League nell’estate 2014 come uno dei difensori più costosi della storia del campionato (a seconda delle fonti e dei dettagli contabilizzati la cifra si aggira tra i trenta e i quaranta milioni di sterline), nel Manchester City di Manuel Pellegrini campione in carica.
Da allora, però, il suo rendimento e il suo status sociale sono crollati inequivocabilmente. Il City ha continuato ad acquistare difensori costosissimi per provare a tappare il buco (prima Otamendi, poi Stones) e Mangala ha passato la scorsa stagione in prestito nel Valencia quasi retrocesso. Adesso, secondo le ultime voci, l’Inter lo vorrebbe in prestito secco mentre il City vorrebbe parlare di qualcosa di più “definitivo”. Si dice sia il difensore voluto da Spalletti per rimpiazzare Murillo e giocarsi il posto da titolare con Miranda, ma i tifosi sembrano tutto tranne che entusiasti per un possibile arrivo del difensore francese.
Gli ottimisti si aggrappano al fatto che Mangala ha ancora 26 anni e in teoria dovrebbe entrare nel proprio picco atletico e mentale proprio nelle prossime stagioni. Che ci sia, quindi, ancora tempo per un riscatto. E che a Milano, di conseguenza, possa tornare il Mangala del Porto…
In recupero era veloce e determinato, spesso si trovava a coprire una metà campo intera.
Da una parte ci sono i difetti – evidenti, vistosi, impossibili da non notare - di Eliaquim Mangala. Un pugno nell’occhio di chi lo guarda cercando conferme al pensiero che possa tornare al meglio di sé. Dall’altra ci sono le sue potenzialità, quello che si pensa possa fare di buono in una squadra disposta a credere in lui, come l’Inter.
Partiamo dai difetti. Anche ai tempi del Porto, Mangala non era il difensore migliore al mondo negli uno contro uno. Se la cava se difende la profondità, temporeggiando con il corpo in diagonale, accompagnando l’attaccante fin dentro la propria trequarti, aspettando che gli calci addosso o che compia un errore. Ma negli anni ha peggiorato la tendenza a difendere con il corpo parallelo alle linee orizzontali del campo, esponendo tutta la sua lentezza nei riflessi, negli spostamenti laterali e nei primi passi. Oggi come oggi, Mangala in campo aperto sembra un difensore piuttosto facile da saltare.
Sia sul destro, da giocatori di qualità eccelsa come Modric:
Ammonito.
Sia sul sinistro, il suo piede:
Una volta saltato con le gambe piantate nel terreno come un paio di paletti è impossibile che recuperi la posizione. Se difendere l’uno contro uno è la cosa che preferite nei difensori, la caratteristica che reputate la più importante, Mangala non fa per voi.
Spesso Mangala difende con la consapevolezza che la propria stazza pone una sfida agli attaccanti che lo puntano. Li costringe ad essere creativi, a trovare una soluzione a un problema prettamente “fisico”. Il problema è che ad alto livello i giocatori offensivi sono pagati per trovare soluzioni del genere, per abbattere muri più o meno immaginari. E Mangala è tutto tranne che un “muro”, aggettivo che credo di poter definire come il più onorevole tra quelli che si possono usare per descrivere i difensori (sì, sono di quelli per cui l’abilità nell’uno contro uno è un requisito fondamentale).
Esserci e non esserci.
Passiamo ai pregi di Mangala. Innanzitutto, la lentezza nei movimenti è compensata da due cose: dalla lunghezza delle leve, con cui ogni tanto arriva comunque sulla palla, e dalla velocità sull’allungo e da una notevole resistenza allo sforzo. Il che significa che Mangala può essere molto utile a una squadra che difende abbastanza in alto nel campo, come quelle allenate da Spalletti.
Un sistema di marcature preventive ne esalterebbe le qualità fisiche e l’aggressività, perché, come si dice, Mangala può fare a sportellate con i centravanti più forti ed energici in circolazione se resta a contatto con l’avversario. Può essere tanto irruento e impreciso negli interventi quanto genuinamente vigoroso se l’attaccante perde contatto con la palla o lo sviluppo dell’azione è leggibile.
Teoricamente ha anche un buon passaggio e un buon calcio lungo, ma troppe volte lo abbiamo visto sbagliare anche le cose più semplici. Anche in questo caso Mangala sembra pagare una certa difficoltà nel coordinarsi e nel pensare la giocata velocemente, più che dei limiti puramente tecnici. Diciamo che è affidabile quando non viene messo sotto pressione.
Per le caratteristiche descritte fin qui Mangala è adattabile anche come centrale di sinistra in una difesa a 3, oltre che come centrale sinistro in una coppia.
L’Inter vista nelle amichevoli estive ha bisogno di difensori aggressivi che accorcino alle spalle dei centrocampisti in pressione e che, quando il filtro Borja-Vecino, Borja-Gagliardini (o chi per loro) viene passato sia in grado di prendersi molti metri quadrati di responsabilità (Skriniar in questo senso sta prendendo le scelte giuste). Fisicamente Mangala non ha problemi ad assolvere compiti del genere, anche se sembra leggermente meno esplosivo di qualche stagione fa; i veri dubbi riguardano la sua capacità di scegliere l’opzione migliore tra quelle a disposizione, per non mettersi da solo nelle condizioni peggiori possibili.
Se non ci fossero dubbi al momento del suo arrivo ci sarebbe qualcosa di strano e starà a Mangala dissiparli partita dopo partita, cercando di farsi trovare al posto giusto al momento giusto. Nessuno gli chiede di diventare il centrale migliore del campionato, e al momento sembra anche una richiesta poco realistica, ma basterà non farsi trovare al posto sbagliato nel momento sbagliato per fare una figura più discreta e ripagare la fiducia che Spalletti e l’Inter stanno mostrando in lui. L’investimento economico non sembra esporre nessuno (se arriva con la formula del prestito secco) ma quello calcistico non è da sottovalutare.
Il ritorno perfetto di De Roon all'Atalanta
di Emanuele Atturo
[mercoledì 16, mattina]
Marten De Roon è tornato all’Atalanta 1 anno e un 1 mese dopo il suo addio. Era stato ceduto al Middlesbrough per 10 milioni di euro più 3 di bonus, è tornato indietro per 13,5 milioni più 1,5 di bonus. Nonostante avesse giocato appena una stagione a Bergamo, il suo trasferimento è stato celebrato con l’enfasi emotiva che si riserva a un figlio che ritorna dal fronte. Su Twitter De Roon ha scritto “Só turnát a la mé cà”, in bergamasco, poi ha girato un video in cui entra nel centro sportivo della squadra ed è contentissimo di mangiare la pasta e bere il caffè, “il vero caffè”. È sembrato quasi troppo quando in un altro video ha rivangato il passato - che in fondo è solo un anno fa - dentro lo spogliatoio dell’Atalanta.
Ma anche in questi video, con un’emotività un po’ sopra le righe, De Roon è apparso per quello che è: un ragazzo più simpatico della media dell’umanità calcistica. Che fino a qualche anno fa aveva questa bio di twitter brutalmente auto-ironica e che di recente si è detto scioccato dal suo conto in banca. Una normalità rinfrescante per un mondo del calcio in tutti vogliono sforzarsi di sembrare imprenditori di sé stessi.
Non è difficile capire, quindi, perché De Roon è stato riabbracciato con questo calore. L’olandese era andato via un anno fa per monetizzare al massimo la sua grande stagione, e il fatto che sia tornato un anno dopo alle stesse cifre, anzi leggermente superiori, la dice lunga sulle ambizioni dell’Atalanta. Un club che accetta e persegue la logica del player trading ma che sembra anche attenta a non abbassare troppo il livello complessivo della rosa.
L’acquisto di De Roon risponde a una logica chiara come il sole: portare intensità a un centrocampo che negli ultimi mesi ha perso Gagliardini e Kessié. Ho raccolto 5 gif che fanno capire quanto l’olandese dovrebbe rivelarsi perfetto per il sistema di Gasperini, ma che allo stesso tempo ci dicono cosa non sarebbe giusto aspettarsi da lui.
Intercetto e ripartenza
L’Atalanta responsabilizza molto i suoi uomini in fase di non possesso. Le marcature a uomo a tutto campo richiedono una concentrazione mentale estrema per tutti i 90 minuti, ed è importante che i calciatori siano bravi nelle loro letture difensive. Qui De Roon legge benissimo la linea di passaggio, intercetta e riparte in contropiede. Ha una piccola esitazione in conduzione, che mostra anche ciò che non potrà dare all’Atalanta, ovvero le corse palla al piede in cui eccelleva Kessié.
Altro intercetto e ripartenza
Corre di nuovo verso l’avversario con l’assoluta certezza di levargli la palla, e se lo mangia come Pacman. Poi di nuovo la sua scelta col pallone non ha grande qualità.
Colpo di testa in inserimento
Con la grossa mole di lavoro fisico spalle alla porta di Petagna (o Cornelius), e anche grazie alla dominio sulle catene laterali nella costruzione del gioco, nell’Atalanta di Gasperini gli inserimenti dei centrocampisti senza palla sono oro colato. Un aspetto tecnico in cui, in realtà, non eccellevano né Kessié né Gagliardini, e in cui De Roon è invece molto forte. Ha ottimi tempi di inserimento e, come in ogni altro fondamentale del suo gioco, li fa con una grande intensità agonistica, che gli fa vincere duelli anche su avversari in vantaggio. Lo scorso anno in Championship ha segnato 4 gol: 3 in più della sua ultima stagione in Italia. Vi basta per metterci due fiche al Fantacalcio?
De Roon contro due avversari
Ma la cosa che riesce meglio a De Roon rimane sempre togliere la palla agli avversari. Le sue statistiche in questo campo sono di assoluta élite: 4.2 tackle e 1.5 intercetti per 90 minuti lo scorso anno nel Middlesbrough, e 3.5 e 3.8 nella sua unica stagione italiana, in un contesto in cui la sua fisicità è ancora più evidente. L’anno prossimo, grazie ai ritmi compassati della Serie A e al sistema di gioco dell’Atalanta, le sue statistiche probabilmente assomiglieranno più al secondo dato che al primo. L’inquadratura ravvicinata, da documentario di National Geographic, ci permette di apprezzare la foga agonistica con cui sbrana due avversari. De Roon sarà il comandante del pressing di Gasperini nella nuova stagione.
De Roon si mangia Henderson
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Jordan Henderson se la prende troppo comoda, e De Roon - 1,85 per 76 kg - lo bullizza. Poi dà un filtrante interessante, che il centravanti non riesce a sfruttare. Siete pronti a vedere i play della Serie A divorati dal pressing di De Roon?
L’olandese, insomma, è uno specialista di alcune delle caratteristiche fondanti del sistema di gioco di Gian Piero Gasperini ed è davvero difficile immaginare che il suo ritorno non possa funzionare. È paradossale a pensarci, ma De Roon torna dopo un anno in un’Atalanta molto più calzante per le sue caratteristiche, forse la squadra che più di tutte potrebbe valorizzarne l’incredibile intensità fisica. È anche vero, però, che la “Dea” lo scorso anno aveva, con Kessié e Gagliardini, giocatori tecnicamente più completi, a loro agio nel ribaltare le fasi difensive in offensive. Un aspetto in cui De Roon è senz’altro più grezzo e per cui l’Atalanta dovrà guardare altrove.
San Pietroburgo è sempre più argentina
di Alberto Farinone
[venerdì 11, mattina]
Fin dal suo approdo a San Pietroburgo, a Roberto Mancini sono stati conferiti ampi poteri decisionali sul mercato e la sua intenzione sembra essere quella di creare un gruppo straniero ma omogeneo, coeso all’interno dello spogliatoio, in grado di aiutarsi a vicenda ad adattarsi allo stile di vita e al campionato russo. Non una strategia nuova, per la verità, nei paesi dell’ex URSS, basti pensare a due tra le squadre più vincenti nella storia del calcio dell’est: il CSKA di Gazzaev e lo Shakhtar di Lucescu, che puntavano forte su un blocco molto folto di giocatori brasiliani.
Il tecnico di Jesi, sfruttando anche le conoscenze di alcuni suoi collaboratori appassionati di calcio sudamericano, ha deciso invece di modellare uno Zenit con una forte impronta argentina: un’operazione inedita per una squadra che, fino a un mese fa, aveva avuto tra le sue fila appena due argentini, cioè "el Chori" Domínguez, Ansaldi e Garay. Così, nel giro di poche settimane, lo Zenit ha ufficializzato Driussi, talentuoso attaccante di 21 anni ex River Plate, ha acquistato Paredes dalla Roma, ha rinforzato la propria difesa prelevando Mammana dal Lione, e infine ha messo sotto contratto Kranevitter, mediano arrivato in Europa sull'onda di un grande hype ma reduce da una deludente esperienza in Spagna con Atlético Madrid e Siviglia.
Non male l'impatto di Driussi con il campionato russo...
L'afflusso di giocatori argentini, però, non dovrebbe fermarsi qui. Lo Zenit sembra essere molto vicino dall’ingaggiare anche Rigoni, esterno offensivo dell’Independiente. Inoltre, i media argentini si dicono sicuri che lo Zenit abbia già bloccato altri due giovanissimi talenti locali: Ascacibar dell’Estudiantes e Pavón del Boca Juniors. Per un gruppo argentino che si forma, poi, ce n'è uno brasiliano che sparisce. Maurício e Hernani hanno già fatto le valigie, mentre Giuliano, impiegato in questo inizio di stagione meno del previsto, sembra sul punto di unirsi al Fenerbahce.
C’è chi ironizza sul fatto che Mancini si sia fatto prendere la mano nell'acquistare giocatori argentini, ma i risultati finora gli stanno dando ragione: lo Zenit è a punteggio pieno in campionato dopo quattro giornate e ha anche travolto i campioni in carica dello Spartak Mosca con un perentorio 5-1. A fare la differenza, però, sono stati soprattutto giocatori di passaporto russo, come i ritrovati Kokorin e Shatov, e i nuovi acquisti Erokhin e Kuzyaev. In mezzo, nonostante sia associato durante ogni sessione di mercato ad una squadra italiana, c'è Domenico Criscito, che nel suo ruolo di capitano avrà il difficile compito di fungere da raccordo tra il blocco russo e quello argentino all'interno dello spogliatoio. Chissà, alla fine questo strano mix potrebbe anche funzionare.
Sneijder al Nizza!
di Francesco Lisanti
[giovedì 10, pomeriggio]
Anche nella sua versione ormai trentatreenne, Wesley Sneijder rimane uno straordinario trequartista. Un giocatore in grado di spostarsi ovunque lungo il campo con quel caratteristico passo cadenzato, di ipnotizzare i difensori costretti a inseguirlo, e di disordinare gli schieramenti avversari tra scarichi, contro-movimenti e verticalizzazioni improvvise.
Sneijder ha sempre speso buone parole nei confronti del campionato turco, dove deve essersi divertito molto
La scorsa è stata un’altra ottima stagione per Sneijder, che ha ritoccato il suo personale record di assist in maglia cimbom, ben 16 in tutte le competizioni, e ha segnato 5 gol, tutti molto simili tra loro: segnati calciando da fuori area, con il piede destro, disegnando traiettorie tra lo stupefacente e l’incomprensibile. Palloni molto alti che improvvisamente si abbassavano, punizioni che sembravano destinate all’esterno dei pali e invece in qualche modo ci rientravano, colpi senza rincorsa, eppure così forti da negare ai portieri il tempo di reazione.
In area di rigore, invece, non riesce a inserirsi con frequenza e pericolosità come ai tempi dell’Inter. Piuttosto staziona intorno al mezzo spazio sinistro, la zona del campo che preferisce, dalla quale può monitorare i movimenti dei compagni e decidere se combinare nel breve, lanciare lungo sul lato opposto, o cercare subito la profondità. Quest’anno ha registrato 45 passaggi e 2.5 tiri ogni 90 minuti, medie che potrebbero ritoccarsi leggermente al ribasso in un campionato più competitivo come quello francese.
Nell’arco di pochi mesi, Favre ha stravolto una squadra votata al contrattacco come il Nizza di Puel e ha formato un gruppo di giovani tecnici e ambiziosi all’interno di un 3-5-2 molto flessibile. Il Nizza prova a gestire il pallone con calma nella propria metà campo, per poi velocizzare l’azione a un tocco nella metà campo offensiva: a questo scopo potrà essere molto importante un rifinitore come Sneijder, con una spiccata sensibilità per la verticalizzazione, uno che quando riceve spalle alla porta dà sempre l’idea di sapere già in quale corridoio far scorrere il pallone.
L’ultima versione di Sneijder, ancora in grado di mettere il pallone dove vuole.
Il tecnico del Nizza si è augurato che Sneijder possa contribuire a formare una mentalità vincente e accompagnare l’evoluzione dei giovani, e che possa recuperare al più presto una condizione atletica ottimale, ma è ovvio che sarà il campo a mostrarci se Sneijder possa essere davvero utile alla squadra francese. Forse verrà schierato nel ruolo di mezzala sinistra, a condizione che la condizione atletica si dimostri compatibile con le richieste, oppure, più probabilmente, un po’ più avanti, alle spalle dell’attaccante, da trequartista.
Anche se l’età che avanza gli toglie brillantezza fisica ogni anno che passa, non ci sono molti giocatori in grado di sostenere il volume di gioco che Sneijder produce nell’ultimo terzo di campo, e nello stesso tempo di conservare medie di precisione passaggi intorno al 90%.
Nella doppia sfida del preliminare di Champions, il centrocampo del Napoli avrà l’obbligo di fargli pesare gli spazi stretti del calcio ultra-moderno da cui Sneijder tentava di fuggire accettando le lusinghe del Galatasaray. Se poi concederà un calcio di punizione da posizione pericolosa, la speranza è che la traiettoria cada al di fuori di quello spazio tra lo stupefacente e l’incomprensibile, che appartiene tutto al piede destro di Wesley Sneijder.
Il senso di Benassi alla Fiorentina
di Alfredo Giacobbe
[giovedì 10, mattina]
Nella giornata di ieri è stato ufficializzato il trasferimento di Marco Benassi dal Torino alla Fiorentina. Un’operazione che non si aspettava nessuno, di quelle che i lettori accaniti di retroscena finiscono inevitabilmente per amare.
L’unica spia che avrebbe potuto segnalare, se non una vera e propria cessione, quantomeno una discesa nelle preferenze dell’allenatore, è stato l’utilizzo anomalo nelle ultime settimane. Nelle prime amichevoli prestagionali Benassi è stato utilizzato per lo più nel trio di trequartisti alle spalle di Belotti, con Acquah e Baselli che lo avevano superato per i due posti da mediano a centrocampo. Lo stesso Mihajlovic ha poi dichiarato nella conferenza stampa di fine ritiro che il passaggio dal 4-3-3 al 4-2-3-1 avrebbe finito proprio per penalizzare Benassi.
Eppure, nonostante Benassi sembra essere più a suo agio in un centrocampo a tre, dalle prime amichevoli sembrerebbe che anche Pioli sia orientato ad organizzare il suo sistema intorno al 4-2-3-1. In cosa potrebbe tornare utile quindi alla Fiorentina?
Benassi potrebbe giocare nel duo di mediani davanti alla difesa, aggiungendo dinamismo all’attuale assortimento costituito da Sanchez e Veretout. Oppure Pioli potrebbe addirittura rigenerarlo come trequartista incursore alla Perrotta dietro l’unica punta. Al di là del ruolo, comunque, è l’atteggiamento di Benassi, quel suo istinto all’anticipo e a difendere attaccando gli avversari in avanti, che potrebbe essere gradito a Pioli.
Certo, con la palla Benassi non è un giocatore perfetto. Se da un lato non ha un primo controllo né una sensibilità nel piede destro da primo della classe, dall’altro dimostra attraverso le sue scelte un’ottima comprensione del gioco. È capace di servire il movimento dei compagni, sia a corto che a lungo raggio, e il numero di occasioni create per i compagni sono salite stagione dopo stagione, così com’è migliorata la sua precisione nei passaggi.
Con i suoi movimenti interno-esterno, inoltre, il nuovo centrocampista della Fiorentina si associa bene con il terzino e l’ala per la formazione dei triangoli sull’esterno.
Il suo pezzo forte, però, resta il tiro di destro dalla distanza: la scorsa stagione Benassi ha tirato 2 volte ogni 90 minuti, dividendo equamente i suoi tentativi tra l’interno e l’esterno dell’area di rigore.
Senza la palla Benassi, nonostante il dinamismo, difetta a volte per la troppa irruenza: 1,4 falli ogni 90 minuti e il 70% degli interventi a contrasto andati a vuoto restituiscono l’immagine di un calciatore che non sempre indovina i tempi d’uscita sul portatore di palla. Benassi, come detto, è un giocatore aggressivo, spendibile nelle fasi di pressione alta nella metà campo avversaria.
La Fiorentina, comunque, acquisisce un profilo di calciatore che in rosa non aveva e che potrebbe trovare con Pioli una nuova dimensione. Quest’anno Benassi compie 23 anni: potrebbe essere il momento perfetto per iniziare il definitivo processo di maturazione.
Mahrez è davvero ciò di cui ha bisogno la Roma?
di Dario Saltari
[mercoledì 9, mattina]
Non è un segreto che la Roma stia cercando un modo per sostituire Salah, la cui assenza è stata solo parzialmente coperta dall’arrivo di Cengiz Ünder. La comunicazione del club giallorosso sul tema quest’anno è stata talmente trasparente che Monchi ha finito per dare alla stampa una descrizione tecnica abbastanza precisa del proprio obiettivo: «un mancino», «un esterno che si accentri» oppure «un destro con naturale tendenza ad accentrarsi». Il DS spagnolo, d’altra parte, ha confermato anche che il primo nome sulla sua lista è quello di Riyad Mahrez - un mancino che tende ad accentrarsi con il pallone, non a caso: «Stiamo facendo di tutto per prenderlo» è arrivato a dichiarare Monchi nella conferenza di ieri.
Il nome di Mahrez non è stato accolto con un coro di assenso unanime da parte di tifosi e stampa, principalmente perché le esose richieste economiche del Leicester vengono messe a contrasto con la sua ultima stagione non certo indimenticabile.
Si può però essere severi con l’ultimo anno di Mahrez solo se questo viene messo a confronto con il 2015/16 straordinario del Leicester: una stagione in cui con i suoi 18 gol e 10 assist aveva vinto la Premier League, il premio di miglior giocatore del campionato inglese, quello di calciatore africano dell’anno e il settimo posto nella classifica generale del Pallone d’Oro.
L’algerino era stato, insieme a Vardy, il giocatore più importante dell’assurdo miracolo compiuto dalla squadra di Ranieri, e proprio per questo forse il suo calo è stato notato più degli altri, in una stagione collettivamente negativa (sempre se messa a confronto con quella precedente e non nell’ottica di una naturale normalizzazione).
Un calo, in primo luogo statistico, c’è stato (un dato fra gli altri: i dribbling riusciti sono passati dai 3.88 per 90 minuti del 2015/16 ai 2.48 per 90 minuti del 2016/17). Ma sono numeri che andrebbero comunque inseriti in una stagione da 10 gol e 7 assist in cui Mahrez, che prima del Leicester giocava al Le Havre, in Serie B francese, si è ritrovato ad affrontare nello stesso anno la Champions League (per la prima volta) e l’impegno gravosissimo della Coppa d’Africa.
Quello del salto di qualità mentale per diventare un giocatore con un peso anche ad altissimo livello è stato un tema che ha diviso Ranieri e Mahrez durante la stagione. Il tecnico romano lo ha tenuto in panchina un paio di volte in partite importanti e poi, a fine anno, gli ha esplicitamente chiesto di dimenticare il suo passato di successi. «Per la prima volta nella sua carriera Riyad ha vinto tutto ciò che voleva vincere», ha dichiarato Ranieri alla fine di dicembre «È stato il giocatore dell’anno in Premier ma non deve sentirsi appagato. Ora deve migliorare: visto quello che ha raggiunto l’anno scorso adesso ha altre responsabilità».
Quella della continuità mentale ad alti livelli, comunque, non è l’unica incognita che si porterebbe dietro Mahrez. Da quanto mostrato nel precampionato e da quanto fatto intendere sia da Di Francesco che da Monchi, la Roma quest’anno cercherà di essere una squadra dalla struttura posizionale definita, con l’ambizione di dominare il possesso. In questa architettura tattica, le ali dovrebbero ricevere nei mezzi spazi con l’ampiezza garantita dai terzini e dai tagli interno-esterno delle mezzali.
È un sistema di gioco totalmente nuovo per Mahrez, che non ha nascosto il proprio apprezzamento per il gioco “all’inglese”, quello a cui è stato sempre abituato, e che potrebbe esporne alcuni dei difetti.
Innanzitutto il gioco spalle alla porta. Mahrez non ha una grande consapevolezza di come utilizzare il proprio corpo per proteggere il pallone e sembra spesso temere i contrasti alle spalle. Quando riceve spalle alla porta tra le linee di solito preferisce scelte conservative di prima all’indietro, oppure forzare giocate complesse, provando a superare l’avversario con il primo controllo, perdendo spesso il pallone.
L’algerino preferisce di gran lunga ricevere sull’esterno, con il corpo già diretto verso la porta, e solo successivamente accentrarsi con il pallone al piede, puntando i poveri avversari con le sue estenuanti serie di finte e controfinte.
Questo è l’aspetto più luminescente del gioco di Mahrez, che nel rompere situazioni statiche, nel disordinare difese basse e chiuse, è una delle migliori ali in circolazione nel panorama europeo.
L’algerino, inoltre, dà alla propria squadra la possibilità di attirare una grande quantità di avversari su un lato per poi colpire il lato debole o creare superiorità centralmente. Un aspetto, tra l’altro, che ben si adatta alle idee di Di Francesco, che anche a Sassuolo usava Berardi come leva per attaccare il lato opposto.
Rispetto all’ala del Sassuolo, però, Mahrez è un giocatore più istintivo e in difficoltà a limitare la propria libertà creativa per il bene di un piano collettivo. L’algerino può iniziare un taglio a sinistra col pallone e finirlo a destra, il tutto con una certa indolenza nel seguire gli avversari e riprendere la propria posizione in fase di non possesso.
È difficile capire oggi come un allenatore rigido e meccanico come Di Francesco possa maneggiare questo aspetto, che alla fine è ciò che rende il gioco di Mahrez così efficace, e anche come potrebbe convivere con un altro magnete di palloni come Perotti, che dovrebbe occupare specularmente la fascia destra.
Mahrez sarebbe l’ennesimo giocatore dalle grandi capacità creative e con uno spiccato amore per il pallone acquistato da Monchi. Gran parte delle fortune della prossima stagione della Roma passerà da quanto riusciranno queste qualità a compenetrare nelle idee tattiche di Di Francesco.
Zinchenko sarebbe adatto al gioco di Sarri?
di Daniele V. Morrone
[martedì 8, mattina]
Con tutte le difficoltà delle squadre non ancora certe della partecipazione alla prossima Champions League, il Napoli si sta muovendo comunque sul mercato per provare ad allungare le alternative in panchina. Se Giaccherini partisse (le ultime voci parlano in realtà di una conferma da parte di Sarri) andrà cercato un nuovo innesto sul fronte offensivo. E tra i possibili “vice-Insigne” il favorito potrebbe essere Oleksandr Zinchenko del Manchester City. Un giocatore di grande polivalenza, che ha già ricoperto diversi ruoli in attacco.
Zinchenko è un giocatore di quelli che basta vedere una volta come toccano il pallone per capirne l’indubbio talento, ma che a vent’anni non ha ancora trovato il contesto giusto per esprimersi con continuità.
Figlio di calciatore, nonostante il talento Zinchenko è entrato nel mondo del calcio professionistico iniziando con una bocciatura: concluso il ciclo delle giovanili dello Shakhtar, l’allenatore Lucescu decide di non offrirgli un contratto lasciandolo libero a 17 anni, nonostante fosse una stella della Nazionale giovanile ucraina. Dovendo partire da zero, Zinchenko ha scelto il campionato russo, con la sicurezza di poter giocare comunque titolare. È stato premiato dopo pochi mesi di titolarità nell’Ufa con la convocazione in Nazionale. Una buona stagione lo ha portato alla convocazione agli Europei con la Nazionale maggiore e in Francia è risultato uno dei migliori nel disastroso percorso dell’Ucraina, giocando le prime due partite da subentrato per poi partire titolare nell’ultima contro la Polonia.
A 19 anni è stato acquistato dal Manchester City, ha fatto la preparazione con Guardiola (che ne esalta l’intelligenza e le qualità tecniche) ed è stato mandato in prestito in Olanda ai campioni in carica del PSV per giocare con continuità. Ma ancora una volta, l’allenatore, Cocu, non lo ha ritenuto pronto, condannandolo a molta panchina. Zinchenko ha giocato 12 partite in campionato, 4 in Champions League e 7 con la seconda squadra, in una stagione che lui stesso ha definito deludente.
Il talento e la giovane età però fanno pensare che questo sia proprio il momento adatto per prenderlo. Zinchenko è un rifinitore mancino che nella sua breve carriera ha giocato in ogni posizione della trequarti, dalla mezzala (dove lo vede Guardiola), all’esterno (dove lo vedeva Cocu) fino alla trequarti centrale (in Nazionale).
I suoi punti di forza sono la tecnica pura e la visione di gioco. Per quanto riguarda la tecnica: il suo mancino ha una sensibilità ben sopra la media, può toccare la palla con tutta la superficie del piede, utilizzando a piacimento il collo come l’esterno, sia per proteggere il pallone che per dribblare in conduzione, che per passare.
Il suo mancino, abbinato alla visione di gioco di cui dispone, lo rendono un naturale esecutore di ultimi passaggi. Da qualsiasi parte del campo se non è sotto pressione può trovare un uomo che taglia in area e dargli il pallone sul piede buono. Zinchenko è un giocatore estremamente associativo e ha la propensione naturale a tessere trame con i compagni vicini, ma è quando riesce a entrare in connessione con le punte che la sua sensibilità viene esaltata.
Nonostante la follia informativa durante il calciomercato renda difficile razionalizzare le varie voci, si capirebbe dal tipo di giocatore che è Zinchenko il motivo dell’eventuale scelta del ds Giuntoli. Si tratta di un giocatore che può prendere il posto di Insigne senza dover modificare dal punto di vista tattico il triangolo di sinistra con Ghoulam e Hamsik, il centro creativo della squadra.
Nonostante sia mancino, Zinchenko garantirebbe un perfetto triangolo creativo e potrebbe, con la sua visione di gioco, accompagnare ancora meglio i tagli di Hamsik o i movimenti in avanti di Mertens. Ha anche le potenzialità poi per essere un ottimo crossatore.
Anche perché la tranquillità nel controllo del pallone e la pulizia tecnica possono far pensare a un regista offensivo compassato, quando in realtà Zinchenko è estremamente aggressivo senza palla e dotato di un'insospettabile velocità in conduzione. Dal punto di vista fisico e atletico è in grado di reggere ogni ritmo di gioco e può tranquillamente partecipare a un pressing organizzato. Con spazio poi è in grado di mangiarsi il campo senza problemi.
Insomma, Zinchenko al Napoli sarebbe un’aggiunta estremamente interessante, per quanto non di immediata lettura visto l'acquisto di Ounas, un altro mancino che gioca a destra. In una stagione lunga però, pur senza insidiare le gerarchie già esistenti, Zinchenko potrebbe prendersi qualche spazio importante anche grazie alla sua polivalenza. Da esterno sinistro lo scorso anno ha giocato appena 3 partite, in cui però ha servito 4 assist. In quel ruolo avrebbe il problema della conclusione in porta, un punto debole già visto al PSV partendo da destra, che dall'altro lato forse peggiorerebbe (tira malissimo in movimento, mentre ha un ottimo piede nei calci da fermo). L’ultimo gol in situazione dinamica risale al maggio 2016 con la Nazionale in situazione di 1 vs 1 col portiere. Per il resto tutti i tiri della stagione sia con il PSV che con la seconda squadra sono finiti o fuori o in bocca al portiere.
Una situazione stranissima vista la sensibilità del piede e la dimostrazione di come effettivamente sia un giocatore su cui si deve ancora lavorare. Se c’è però un allenatore che può sfruttare al meglio le sue qualità quello è Sarri e il gioco del Napoli sembra perfetto per lui
L'operazione Neymar ha ucciso il Fair Play Finanziario?
di Marco de Santis
[Lunedì 7, mattina]
Il “caso Neymar” ha fatto tornare di moda le feroci critiche sul Fair Play Finanziario. In particolare lascia perplessi il pressapochismo di alcuni addetti ai lavori, con lo scopo magari di cavalcare un’onda emotiva senza fare chiarezza. Si è detto in questi giorni che l’acquisto di Neymar da parte del Paris Saint-Germain sarebbe stata la pietra tombale del FPF per le seguenti ragioni: cifra d’acquisto troppo alta incompatibile coi parametri UEFA, metodo truffaldino messo in atto dalla dirigenza qatariota per aggirare la clausola, ennesima dimostrazione che PSG e Manchester City fanno quello che vogliono e al massimo vengono multati. Vediamo quanto c’è di vero in questi giudizi.
È possibile spendere tutti quei soldi?
Il FPF non mette alcun limite massimo alla cifra spendibile per un singolo giocatore. Pone invece dei paletti piuttosto rigidi sulla perdita massima di bilancio che una squadra può subire nell’arco di un triennio. Quindi, come giustamente l’Uefa ha sottolineato con un comunicato ufficiale, non ha alcun senso richiedere un intervento UEFA in questo momento, che dovrà invece intervenire alla fine della stagione 2017/18, per vedere se il Paris Saint-Germain avrà chiuso il triennio 2015/18 all’interno del passivo richiesto (cosa che probabilmente riuscirà a fare come abbiamo spiegato recentemente qui).
L’obiezione relativa al prezzo - se non viene svolta solo su un piano morale, in quel caso è più che legittima ma non ha niente a che vedere con la UEFA o il FPF che in ogni caso favorisce chi ha un fatturato più alto e quindi è fatto per rendere la competizione moralmente più “giusta” - è tanto più assurda se si pensa che la cifra spesa per Neymar (222 milioni il costo del cartellino, 104 la spesa annuale a bilancio contando anche l’ingaggio per cinque anni) non è così lontana dalle spese fatte in questa sessione di mercato da parte del Milan (per ora 188 milioni nei costi dei cartellini e 98 il peso sul bilancio annuale, ma manca ancora almeno un attaccante) ed è persino inferiore rispetto a quanto ha speso il Manchester City (251 milioni per i cartellini, 113 per il bilancio annuale, ma anche una politica di plusvalenze – giunte a oggi a 60 milioni - e risparmi di ingaggi dei giocatori ceduti o in scadenza di contratto che potrebbe persino far migliorare il bilancio dei Citizens rispetto alla scorsa stagione). Da questo punto di vista, lo sdegno risulta totalmente infondato.
La UEFA si fa prendere in giro?
Per almeno un paio di settimane è girata voce che il Paris Saint-Germain non avrebbe investito un euro per l’acquisto di Neymar, il quale avrebbe dovuto pagare di tasca sua la clausola rescissioria al Barcellona sfruttando una sponsorizzazione di 300 milioni da parte del Qatar che lo ha scelto come testimonial dei mondiali del 2022. Che Neymar aumenterà i suoi introiti personali grazie a questo ruolo non ci sono dubbi, ma questa teoria - molto gettonata e presa per vera un po’ da tutti coloro i quali non sapevano che il PSG viene da tre bilanci virtuosi e si può permettere questo acquisto anche senza violare il FPF – è stata clamorosamente smentita dal presidente dei parigini Al-Khelaifi, che alla conferenza stampa di presentazione ha sottolineato che è stato il PSG a pagare la clausola senza alcuna mossa di dubbia provenienza.
Quella che si è rivelata una “fake news” si basava fra l’altro su due inesattezze: la prima è che se anche si fosse verificata una situazione del genere il regolamento del FPF avrebbe permesso alla UEFA di intervenire, calcolando a posteriori sul bilancio 2017/18 del club il “fair value” dell’acquisto di Neymar, che non avrebbe potuto che essere 222 milioni, rendendo di fatto inutile il “sotterfugio”.
La seconda è che in molti hanno omesso che in realtà tutte le clausole rescissorie vengono di fatto pagate dai calciatori stessi, ma con i soldi della società acquirente che è poi tenuta per trasparenza a mettere la cifra d’acquisto a bilancio come se fosse un trasferimento tradizionale. Meccanismo che si ripeterà anche per l’operazione riguardante il PSG e Neymar.
PSG e City possono fare quello che vogliono grazie alle sponsorizzazioni?
Questa accusa al FPF è parzialmente vera, ma vanno fatte delle precisazioni. Innanzitutto il Manchester City non è mai stato punito per sponsorizzazioni gonfiate: Etihad, la compagnia aerea che campeggia sulle maglie della squadra di Guardiola, incassa meno di quanto prendono Manchester United e Chelsea dai loro rispettivi sponsor (Chevrolet e Yokohama Rubber). Non è vero, quindi, che il Manchester City sia finanziato in maniera scorretta da parte della proprietà, almeno da un punto di vista finanziario (i ricavi commerciali del City superano di poco il 40% sul totale del fatturato mentre i “cugini” dello United sfondano il 50%).
Gli inglesi erano stati costretti a concludere un “Settlement Agreement” con la UEFA perché avevano i bilanci in forte passivo, posizione che tra l’altro è stata sanata in questi anni non semplicemente pagando una multa, come un’altra fantasiosa teoria sostiene, ma risanando effettivamente il bilancio con aumenti reali dei ricavi e operazioni in uscita che giustificassero le elevate spese in entrata.
Discorso diverso per il PSG, che è stato effettivamente punito e sottoposto a “Settlement Agreement” per la sponsorizzazione gonfiata da parte del Qatar (200 milioni all’anno) e la cui portata è stata dimezzata dall’organismo terzo che, secondo il regolamento del FPF, è chiamato in causa dalla UEFA per stabile il “fair value” dei contratti fra parti correlate. Che 100 milioni all’anno siano un valore corretto per il principale sponsor del PSG è l’unico punto sul quale l’impalcatura regolamentare scricchiola, ma ancora una volta non corrisponde del tutto a verità che il fatturato (ormai superiore a 500 milioni l’anno) dei francesi sia dovuto principalmente all’apporto delle sponsorizzazioni governative del Qatar.
Va inoltre sottolineato che sia francesi che inglesi hanno soddisfatto tutte le richieste dei rispettivi “Settlement Agreement” e si trovano attualmente in una situazione identica rispetto a tutte le altre squadre che non hanno problemi con il FPF. Ciò vuol dire che eventuali irregolarità nei loro futuri bilanci comporteranno l’apertura di un nuovo procedimento ed eventualmente nuove sanzioni, ma che in questa sessione di mercato non devono sottostare a obblighi simili a quelli imposti alle squadre ancora sotto “Settlement Agreement” (come, per esempio, Inter e Roma, che invece sono ancora alle prese con la risoluzione dei propri accordi transattivi).
Può essere Kean il vice Higuaín?
di Marco D'Ottavi
[Venerdì 4, pomeriggio]
Uno dei problemi evidenziati nella scorsa stagione della Juventus, se si può parlare di vero e proprio problema, è stata l’assenza di un vice Higuaín. Dirottato con successo Mandzukic sulla fascia sinistra, la contemporanea assenza di un vice Mandzukic (anche per i vari infortuni di Pjaca) ha costretto il croato a giocare quasi sempre in quel ruolo con l’argentino che si è trovato di fatto a essere l’unica punta centrale, finendo per essere il giocatore con più minuti giocati in stagione.
Anche per questo la Juventus si era mossa rapidamente sul mercato assicurandosi Patrick Schick, che poteva ricoprire anche il ruolo di prima punta. Saltato (momentaneamente?) il trasferimento di Schick è arrivato Bernardeschi, un giocatore duttile, ma che non sappiamo se Allegri vorrà provare come prima punta (ha giocato qualche volta in quella posizione, anche poche settimane fa nell’Europeo Under-21, ma sarebbe comunque una prima punta atipica). Il suo arrivo, però, sommato a quello di Douglas Costa, aumenta la batteria di esterni e libera, in un certo senso, Mandzukic, che potrà tornare a guadagnare minuti come centravanti. Anche se il croato, paradossalmente, è stato utilissimo come esterno più che come punta centrale….
Insomma, nell’incertezza naturale di inizio agosto si è fatto avanti, durante il tour americano, anche il giovanissimo Moise Kean, che ha ripagato Allegri con pochi minuti, ma di qualità. Tanto è bastato per far balenare nei tifosi un’idea: e se fosse Kean il vice Higuaín?
Chissà che ne pensa Allegri...
Un gol in Serie A già l’ha messo in cascina.
Nel poco spazio avuto a disposizione con i “grandi”, Kean ha dimostrato di poter giocare. La sua qualità migliore sembra essere una forza non comune nelle gambe, che di solito aumenta con l’età e con il lavoro.
Entrato nel secondo tempo contro il PSG - sempre ricordando che si tratta di una amichevole - Kean ha messo più volte in difficoltà la difesa francese lottando su ogni pallone e vincendo molti duelli corpo a corpo.
In questa circostanza Kean scherza Guedes, un giocatore la cui fase migliore non è certo la difesa, ma la differenza di passo è impressionante. La struttura fisica di Kean - un baricentro basso e… come dire... un posteriore grosso - gli permette di difendere il pallone in conduzione; inoltre ha una velocità in progressione sorprendente, e palla al piede è molto difficile da fermare.
In occasione del rigore guadagnato, sempre contro il PSG, Kean ha dimostrato anche di avere i movimenti dell’attaccante di razza. Prima finta di proteggere il pallone con il corpo, poi lo lascia scorrere ingannando il difensore alle sue spalle. Sul recupero dell’altro centrale tiene il contatto con disinvoltura e lo costringe a tentare una pericolosa scivolata in area per fermarlo, che infatti si tramuta in un fallo da rigore.
Queste qualità lo renderebbero un giocatore perfetto da usare a partita in corso, quando le difese sono più stanche e la sua capacità di risalire il campo potrebbe diventare un fattore importante.
Kean non avrebbe nessuna velleità di giocare titolare, coesistendo con Higuaín senza creare problemi nello spogliatoio. Dalle decisioni che verranno prese in questo periodo dipende il tipo di giocatore che diventerà Kean: le sue caratteristiche gli conferiscono una predisposizione naturale al ruolo di esterno offensivo e non è neanche da escludere che sarà quello il suo “vero” ruolo. Allegri, intanto, potrebbe risolvere due problemi con un giocatore solo.
Ovviamente Kean è un ragazzo di soli 17 anni, che fino alla scorsa stagione giocava con la Primavera, dove il suo dominio fisico era così netto da non offrirgli sfide reali, ed è difficile ipotizzare un suo utilizzo in Serie A senza nessun tipo di problematica.
Ad esempio, negli spazi chiusi del campionato italiano Kean potrebbe avere molte difficoltà: è un giocatore che tiene ancora la testa bassa e tende ad affidarsi quasi esclusivamente alla sua capacità di saltare l’uomo. E poi non è possibile sapere come reagirebbe alla pressione di dover giocare per la Juventus, ma doverlo fare sul serio, per molti minuti, magari in caso di infortuni.
Gli lascerebbero fare queste cose in Serie A?
Quello che sappiamo è che la Juventus ha respinto diverse offerte, sia di acquisto che di prestito. Certo, se la Juve dovesse arrivare a un giocatore offensivo tipo Keita Balde, di cui si parla nelle ultime ore, una sua cessione in prestito diventerebbe altamente probabile.
Difficile immaginare quale sia la soluzione giusta tra il prestito e la permanenza in prima squadra, molto dipenderà da quanti minuti effettivamente giocherà. Considerando che anche Dybala può eventualmente giocare punta centrale, Allegri tutto sommato può correre il rischio di tenerlo. Per Kean, l’importante è lasciare la Primavera ed entrare in pianta stabile nel calcio che conta. Se si impara di più allenandosi con i campioni, oppure prendendosi minuti e responsabilità in una squadra di categoria inferiore, è una questione per cui non esiste una risposta certa.
Le scelte di mercato della SPAL in 4 categorie
di Francesco Lisanti
[Venerdì 4, mattina]
Dopo 49 anni la squadra di Ferrara è tornata in Serie A e, a poco più di due settimane dall’esordio (esordio a Roma contro la Lazio) ci sembra giusto dare un’occhiata alle strategie di mercato degli spallini. Anzitutto va detto che come tutte le neopromosse, anche la SPAL ha perso qualche pedina che aveva preso momentaneamente in prestito ad altre squadre più in alto nella piramide alimentare del calcio italiano - Bonifazi è tornato a Torino, Castagnetti a Empoli, Zigoni al Milan, Del Grosso all’Atalanta - ma si è trattato di perdite contenute. Il blocco della promozione è stato confermato pressoché per intero, ad eccezione del capitano Giani che è stato svincolato in un impulso anti-nostalgico (ed è stato poi tesserato dallo Spezia).
E, sempre come è consuetudine per le neopromosse, anche la SPAL sta cercando attraverso il mercato una ricetta per la salvezza, la combinazione di esperienza e potenziale che possa assorbire al meglio l’impatto dovuto al salto di categoria. Il direttore sportivo Vagnati, artefice del miracolo sportivo ferrarese, ha scelto di puntare su un mix di differenti tipologie di trattative e ha cercato di privilegiare la flessibilità nel medio-lungo termine. Per semplicità, ho diviso in 4 categorie le scelte della SPAL in questo mercato.
Fedeli a se stessi
La conferma più attesa è arrivata soltanto qualche giorno fa, il prestito secco con l’Udinese è stato rinnovato e Alex Meret sarà ancora il portiere della SPAL nella prossima stagione, e noi potremo godercelo da titolare alla prova con il palcoscenico della Serie A. (La SPAL aveva anche bisogno di un portiere di riserva e dal Torino ha preso in prestito con obbligo di riscatto Alfred Gomis. Gomis è stato titolare in Serie B nelle ultime quattro stagioni, ora ha pensato di meritarsi un po’ di riposo e contenderà il posto a Meret senza crederci più di tanto).
Poi sono stati ufficializzati diversi rinnovi contrattuali per confermare, per quanto possibile, i protagonisti della doppia promozione. Prima Luca Mora, barbutissimo idolo dei tifosi e laureando in filosofia, poi il sempiverde Antenucci, fondamentale nella cavalcata promozione e favorito per un posto davanti, quindi il titolare a destra Manuel Lazzari, che può vantare di giocare nella SPAL da prima che la SPAL esistesse: era un tesserato della Giacomense, di cui la nuova proprietà della SPAL ha rilevato il titolo sportivo. Adesso è arrivato in Serie A, e invita i giovani a non mollare nelle difficoltà.
Il primo gol con la SPAL di Lazzari, segnato sui campi di Lega Pro, è un gran bel gol.
Non si butta via niente
Nella passata stagione il Pescara ha provato a riciclare Aquilani, Gilardino, Campagnaro, Bovo, Coda, Stendardo e non ne ha guadagnato quel prezioso supporto a cui allude Vagnati quando dice: «Abbiamo tanti ragazzi in rosa, quindi crediamo che per il loro aiuto sia giusto inserire nella rosa giocatori che abbiano già fatto la categoria e che diano un aiuto anche psicologico».
Per ora la SPAL ha presentato Felipe, Oikonomou e Paloschi: gli ultimi due vengono da una stagione molto negativa e stanno giocando un precampionato poco convincente, ma dovrebbero partire titolari in difesa e attacco. Tutti gli altri veterani si augurano che questo esperimento vada a buon fine, o sarebbe un altro duro colpo inferto alla credibilità della categoria. Poi chissà, magari l’anno prossimo non ci sarà nessuna neopromossa disposta a puntare su, mettiamo, Paletta.
Nel gol subito contro il Perugia, tutti i difensori perdono il contatto con l’uomo.
Scommettere ragionevolmente
«È un momento storico per la nostra società, fino a questa stagione abbiamo avuto sempre e solo italiani in rosa. Adesso, però, abbiamo deciso di sconfinare per trovare opportunità favorevoli al nostro progetto. Spesso all’estero si nascondono giocatori di livello superiore, ma è compito nostro scovarli, ancor meglio ragionando in ottica futura». Vagnati ha ritenuto necessaria questa introduzione per presentare con la massima cautela al pubblico ferrarese i primi due acquisti stranieri della breve storia della SPAL (unica parziale eccezione, nel 2014 ci ha giocato in prestito un anno il brasiliano Togni).
Il finlandese Vaisanen e Pa Konate, svedese di origini gambiane e guineane, sono stati pescati dal campionato svedese, dove giocavano con regolarità. Hanno esordito entrambi contro il Perugia e hanno mostrato buoni lampi: certo avranno bisogno di adattamento, di imparare la lingua e rispondere alle pressioni ambientali, ma sul piano della maturità possono competere da subito per un posto da titolare (sono stati veterani delle rispettive Nazionali U-21).
Vaisanen è una vera scommessa, difensore slanciato, abituato alla difesa a tre, con il destro morbidissimo e parecchi problemi di mobilità. Konate è un atleta clamoroso e ha un buon sinistro per crossare, incontrerà certamente meno difficoltà a inserirsi nel nostro campionato, specie nel 3-5-2.
Vaisanen si accorge del vuoto a centrocampo, si propone e lancia un compagno in porta.
La stampa locale in questi giorni ha definito molto probabile l’acquisto di Albian Ajeti del San Gallo, fratello minore di Arlind, che invece è appena passato al Crotone. Ajeti non è un attaccante baciato dal talento, ma ha un’aggressività e un senso dell’anticipo non banali per un ventenne, che in area di rigore fanno la differenza. Ogni tanto si destreggia con qualche giocata spalle alla porta, che per un centravanti è sempre un bel vedere. Potrebbe rivelarsi l’ultima scommessa per completare il pacchetto d’attacco.
Prendere in prestito
L’ultima tipologia di calciatori che ha inseguito la SPAL è quella dei giovani calciatori italiani da prendere con la formula del prestito. Mattiello rappresenterà un’alternativa sulle fasce, ma per il momento è un’incognita: nel marzo e ottobre 2015 ha riportato due fratture terribili alla gamba destra, con relativi traumi distorsivi alla caviglia, e da allora non l’abbiamo più visto tra i professionisti. È l’unico giocatore in prestito per cui la SPAL non è riuscita a inserire un diritto di riscatto, quindi forse la Juventus ha ancora fiducia in lui.
Il valore di mercato di Federico Viviani, fin qui famoso al grande pubblico per essere stato pupillo di Luis Enrique e cosplayer di De Rossi, è ai minimi storici dopo che il Bologna ha preferito non pagare al Verona i 4,5 milioni della clausola di riscatto. È arrivato a Ferrara un po’ appesantito, ma al momento non ha concorrenti nella sua posizione naturale, quella di mediano davanti alla difesa, e con i calci piazzati qualche gol dovrebbe riuscire a regalarlo.
Un piede destro così torna sempre utile alla causa salvezza.
Il triangolo di centrocampo potrebbe essere idealmente completato da Alberto Grassi e Luca Rizzo. Grassi si è lesionato un menisco nel momento migliore della sua carriera e da allora non ha mai recuperato la fiducia di Sarri, ha avuto qualche opportunità con Gasperini e Di Biagio, ma è diventato un centrocampista dalla scarsa creatività, che fa fatica sotto pressione e risulta più utile nei tagli senza palla. Ha comunque i mezzi atletici e tecnici per fare la differenza in questo contesto.
Rizzo potrebbe essere uno dei centrocampisti più interessanti del campionato se non avesse trascorso più di 150 giorni in infermeria nelle ultime due stagioni, nelle quali ha sofferto almeno sette infortuni diversi.
Rizzo recupera un pallone vagante e con un tunnel fa espellere Felipe Melo.
Se starà bene, formerà con Grassi una coppia di interni bravi ad aggredire in avanti e sufficientemente tecnica per guidare la transizione, altrimenti sarà difficile trovare alternative in mediana fisicamente pronte per la categoria (ma prepariamoci a qualche magic moment di Schiattarella).
Coccodrilli - Dani Alves al Paris Saint-Germain
di Daniele Manusia
[Giovedì 3, pomeriggio]
Dani Alves è entrato e uscito dalla vita calcistica italiana come una comparsa che ruba le scene più importanti di un film, come un personaggio secondario di una serie che proprio sul più bello, quando gli sceneggiatori gli hanno dato una bella linea narrativa, litiga con la produzione perché nel camerino non gli hanno fatto trovare le olive disossate e non rinnova per la seconda stagione.
E dato che è da poco cominciata la penultima stagione di "Games of Thrones" - a cui il calcio del futuro assomiglierà sempre di più per la velocità con cui i personaggi/giocatori cambiano di schieramento e la brutalità con vengono fatti uscire di scena, mi permetto un paragone. Se Dani Alves fosse un personaggio di GOT non sarebbe il compianto, ma non molto sveglio Ned Stark, quanto piuttosto l’eccentrico e mai abbastanza stimato, Syrio Forel, maestro di spade di Arya Stark di cui non vediamo la morte, ma che lasciamo mentre combatte contro tre soldati fornito solo di una spada di legno.
Dani, in realtà, è vivissimo e ha già vinto un trofeo con la sua nuova squadra giusto pochi giorni fa. Ha segnato il gol del pareggio su punizione (vedi tweet sopra) e servito l’assist per il definitivo 2-1 di Rabiot, di testa, che è valso al PSG la Supercoppa di Francia contro il Monaco.
Un esempio di come l’anarchia di Dani Alves non sia fuori posto nel PSG di Emery e quello che tecnicamente possiamo definire “casino associativo”.
E dire che lo avevamo votato (noi della redazione de l'Ultimo Uomo e voi lettori che vi siete esposti tramite sondaggio) come il giocatore più simpatico della Serie A. Chissà in quanti hanno cambiato idea dopo il trasferimento, condito da trollate più o meno volute e dolorose per chi fino a poco tempo prima gli aveva voluto bene.
Ma Dani in fondo è sempre Dani. Quando dice che Dybala, prima o poi, una volta arrivato al limite di quello che può fare in Italia, dovrebbe cambiare contesto, sta giocando con la sensibilità dei tifosi o semplicemente dicendo quello che pensa? Lui dice di non essere perfetto, ma che il suo cuore è puro, che è un “good crazy”, cioè, credo, un pazzo buono. E forse ha ragione lui, in un mondo così corrotto e complottista solo i pazzi possono permettersi di essere sinceri.
Niente è più sincero di un tunnel in area di rigore.
Su The Players’ Tribune a inizio giugno aveva scritto che molte persone non lo avevano capito, ma quale Paese più dell’Italia poteva capire la sua eccentricità? Chi meglio di noi poteva apprezzare l’arroganza del suo talento e chiudere un occhio sul suo declino fisico?
Dopo il trofeo estivo ICC (International Champions Cup) giocato da terzino, Emery lo ha schierato nel tridente di attacco contro il Monaco in Supercoppa, ma quale allenatore avrebbe il coraggio di riaggiustare tutto il modulo per alzarlo e dargli maggiori responsabilità creative, come ha fatto Allegri?
Quante probabilità ci sono che nel PSG trovi un contesto equilibrato come quello che c’era alla Juve, in cui la libertà di Dani Alves era valorizzata dal resto della squadra?
Sembrava amore e invece era una sveltina.
Probabilmente Dani Alves continuerà a fare quel che vuole sul lato destro del campo, dalla propria area di rigore a quella avversaria, più che un “falso terzino” una specie di trequartista a tutto campo. Ritroverà Neymar, probabilmente, e si assocerà con frequenza con Verratti e Cavani.
Chissà, però, se vivrà ancora un momento “alto” come la doppia semifinale giocata contro il Monaco lo scorso anno. Se sarà ancora così centrale in una partita così importante. Se sarà qualcosa di più di una tigre albina nella collezione di animali esotici dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani.
Ricordiamolo così. Anche perché difficilmente ripeterà un gesto così bello, geniale e decisivo.
“Sono sicuro che sentite la mia mancanza” ha scritto su Instagram. Ma chissà che non sarà Dani Alves a sentire la nostra. O almeno quella del sistema bianconero, all’interno del quale persino la sua pazzia buona trovava un senso.
Torna Gastón, torna
di Fabrizio Gabrielli
[Giovedì 3, mattina]
Nel contesto che ha caratterizzato il mercato delle squadre di fascia media della prossima Serie A - che stanno puntando su gente in cerca di riscatto, tipo Cerci al Verona, Lapadula al Genoa, Paloschi alla Spal, Ranocchia all’Inter… no, Ranocchia non è un buon esempio - il ritorno di Gastón Ramírez in Italia a distanza di cinque anni da quando ha lasciato Bologna per la Premier League con le stimmate del crack destinato a fare sfaceli, ha qualcosa in più del semplice ritorno di fiamma.
Il 2012 è quell’anno in cui il giovane uruguayano era plausibilmente un potenziale obiettivo di mercato del Liverpool.
La Premier League, nell’ultimo lustro, ha giovato a Gastón in maniera proporzionale a quanto Gastón abbia giovato alla Premier League. Vale a dire, ben poco.
Non abbiamo assistito alla sua esplosione, complici anche una serie ingenerosa di infortuni: il Ramírez che ci restituisce l’Inghilterra, in maniera simile a quanto è successo con Cerci in Spagna, è un calciatore ridimensionato, riappacificato con la sua dimensione più pura, che è quella di un giocatore pieno di fantasia e trick, ma tutt’altro che capace di spezzare le partite, orientarne il corso, essere determinante.
Dribblomania portami via.
Eppure se tornasse in Italia non sarebbe una brutta notizia, anzi. Nello specifico si parla della Sampdoria di Giampaolo, e ci sono almeno tre buoni motivi per cui Gastón Ramírez potrebbe far felici i tifosi blucerchiati.
Sopperire all’emorragia di talento
Ceduto Muriel, con uno Schick che vai a capire se rimane - e se poi resta, in che condizioni - il tasso tecnico della fase offensiva doriana rischia di sprofondare nel più desolante pragmatismo. Gastón, pur partendo da una posizione diversa, è uno dei pochi in rosa a poter cercare di rinverdire i fasti, o almeno lo stile, del colombiano: come Muriel usa il corpo e la corsa con una dinamicità ubriacante capace di creare strappi alle transizioni. E poi è molto aggressivo nella sua metà campo, dove recupera famelico la palla per innescare ripartenze fulminee, impreziosite da una spolverata di leziosità.
Guardate questo gol segnato con il Middlesbrough e cercate di non fare sempre gli scettici.
Stimolare la concorrenza sulla trequarti
Un mondo in cui Ricky Álvarez parte come titolare per mancanza di concorrenti non è il migliore dei mondi possibili in cui vivere. Gastón rischia di essere - per l’argentino, ma anche per Praet - ciò che è stato Bruno Fernandes la scorsa stagione: il concorrente che si intrufola nel tuo appartamento, diventa amico del cuore dei tuoi coinquilini e ti rilega a un ruolo marginale.
Meno elegante e preciso, ma più imprevedibile di Ricky, nel rombo di Giampaolo Ramírez può essere impiegato nella trequarti dietro a un riferimento centrale, o anche come terza punta in un tridente, se l’allenatore blucerchiato volesse cambiare modulo, magari sulla fascia opposta rispetto a Caprari, con il compito di tagliare verso l’interno per disegnare deliziosi filtranti.
Certo, in questo modo Ricky Álvarez rischia di non passeggiare sul red carpet del Pallone d’Oro neppure questa stagione...
Mitigare la nostalgia per Bruno Fernandes
Gastón è sicuramente più confusionario e scattoso rispetto all’euclidea compostezza di Bruno Fernandes. Dribblomane, dotato di grande tecnica e padronanza del pallone, al pari del portoghese, Ramírez sa come si fa a creare superiorità tra le linee avversarie.
Con attaccanti reattivi e portati ad allargarsi sugli esterni, come forse giocheranno Schick e Quagliarella... o Quagliarella e Caprari, o Schick e Caprari... l’innesto di Gastón nella nuova Sampdoria somiglia per Giampaolo a uno di quei sogni che viaggiano sulle onde della memoria, uno di quei sogni in cui sei ancora con la tua ex ragazza e lei è più dolce di come te la ricordavi. Non sarà moltissimo, non è proprio come rifarsi una vita con una nuova donna cambiando Paese e lavoro, diventando improvvisamente un uomo nuovo... ma, tornando a Gastón Ramírez, non è detto che per la Sampdoria non possa essere già abbastanza per godersi un’altra stagione come quella passata, che se si escludono le 4 sconfitte iniziale e i 4 punti nelle ultime otto partite, è stata anche interessante.
Emre Mor sostituirebbe Bernarndeschi?
di Federico Aquè
[Mercoledì 2, pomeriggio]
In un’estate scandita da un profondo rinnovamento, la cessione di Federico Bernardeschi alla Juventus, per il valore tecnico e simbolico, resta la più pesante di tutte per la Fiorentina. Bernardeschi ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile nel sistema della “Viola”, che coerentemente con la strategia intrapresa in queste settimane non sta pensando di sostituirlo con un giocatore affermato, ma con un talento giovane e con ampi margini di miglioramento: Emre Mor.
Convincere il Borussia Dortmund a cederlo non sarà facile, comunque. I tedeschi, a quanto pare, hanno già rifiutato un’offerta della Roma superiore alla valutazione fatta dalla Fiorentina (si parla di 12/13 milioni di euro). Ma in un’estate in cui le aspettative viola sembrano ridimensionarsi l’acquisto di Mor sarebbe un segnale in direzione opposta. Il turco non colmerebbe del tutto il vuoto lasciato da Bernardeschi, ma ha le caratteristiche giuste per riavvicinare i tifosi alla squadra e rappresentare, potenzialmente, una delle sorprese del prossimo campionato.
Mor è un esterno d’attacco mancino che preferisce ricevere a destra per entrare dentro il campo col piede forte esattamente come Bernardeschi, ha solo 20 anni e una carriera ancora tutta da costruire. Da quando ha esordito ha collezionato poco meno di 1700 minuti, la maggior parte dei quali al Nordsjaelland, club col quale ha debuttato da professionista prima di essere ceduto al Borussia Dortmund. Un anno fa il BVB lo ha pagato una cifra vicina ai 10 milioni di euro, ma Mor non è riuscito a imporsi: appena 19 presenze complessive, di cui soltanto 6 da titolare.
Nonostante le origini turche, Mor è nato e cresciuto in Danimarca, ha scalato le selezioni giovanili della Nazionale danese fino all’Under-19 prima di scegliere di rappresentare la Nazionale turca. In Turchia Mor è già molto considerato: è stato convocato per gli Europei dello scorso anno e può vantare 12 presenze, le stesse collezionate nella passata stagione in Bundesliga.
Mor ha caratteristiche tecniche e fisiche piuttosto diverse da Bernardeschi: è più agile e leggero (è alto 1,69 m e pesa una sessantina di chili), ma è ancora distante dal livello di efficacia raggiunto dall’ex numero 10 viola, per influenza nel gioco e capacità di incidere sulla partita. Ha però qualità eccezionali, tre in particolare, con le quali potrebbe riuscire a far dimenticare Bernardeschi ai tifosi viola.
1. Il controllo della palla
Mor ha un primo tocco dolcissimo, che unito al baricentro basso gli permette di girarsi verso la porta o saltare il diretto avversario in una sola mossa. La sensibilità del suo piede sinistro gli permette di ripulire i palloni “sporchi” e anche in velocità il suo controllo non perde efficacia, anzi. Mor tiene sempre il pallone attaccato al piede, una qualità particolarmente preziosa quando riceve tra le linee ed è costretto a muoversi in spazi congestionati. Togliergli la palla, anche raddoppiandolo, è veramente difficile.
2. Il dribbling
Nell’uno contro uno Mor ha un repertorio di finte e trick ampio e fantasioso, che rappresenta la parte più visibile del suo modo di giocare. Il suo stile è ancora molto incentrato sulla sfida con il diretto avversario, per ruolo – nel BVB ha giocato soprattutto da esterno, sia a destra che a sinistra, in un sistema che ricercava di frequente il dribbling dei propri giocatori di fascia per definire la manovra, mentre nel Nordsjaelland veniva schierato da falso 9 – e indole: pur essendo un dato poco indicativo, visti i pochi minuti concessi da Tuchel (appena 476), Mor ha tenuto una media di 5,3 dribbling riusciti per 90 minuti nella scorsa Bundesliga. Un dato che supera di oltre due volte quello di Bernardeschi.
Mor eccelle nelle qualità più difficili da contrastare per un difensore: è brevilineo, rapido, agile, ha un controllo straordinario e la capacità di cambiare velocità e direzione nei momenti più inaspettati. Insomma, trovarselo davanti per un difensore può essere una brutta esperienza.
3. L’accelerazione
A differenza di Bernardeschi, che ha un passo più lungo e costante, Mor ha un passo breve e discontinuo. Se la conduzione di Bernardeschi è elegante e armoniosa, quella di Mor procede a strappi, il che vuol dire che riesce a prendere velocità fin dai primi metri e a cambiare passo con maggiore facilità.
Detto questo, Mor è complessivamente a un livello inferiore rispetto a Bernardeschi, e non potrebbe essere altrimenti, vista l’età e la scarsa esperienza accumulata finora. La pericolosità del suo sinistro quando calcia non è paragonabile a quella dell’ex numero 10 viola, la sua visione di gioco e la sua intensità vanno ancora sviluppate. La gestione delle forze in un sistema molto esigente come quello di Tuchel ha rappresentato un problema – ha giocato per intero una sola partita, contro l’Union Berlin in Coppa di Germania – e potrebbe rappresentarlo anche nel sistema di Pioli, che ai suoi esterni chiede molto, dal punto di vista fisico, tecnico e tattico. La migliore notizia per l’allenatore viola sarebbe la possibilità di lavorare su un materiale di grande qualità per modellarlo secondo le proprie idee.
L’attitudine al gioco di squadra di Mor è infatti ancora quasi tutta da formare: l’attrazione per la palla tende a fargli perdere tempi di gioco, nonostante abbia mostrato sprazzi creativi tutt’altro che banali. E anche i suoi movimenti senza palla vanno decisamente ampliati: Mor si è limitato finora a semplici tagli esterno-interno (e viceversa), per ricevere nelle migliori condizioni possibili e dare continuità al possesso adeguandosi ai movimenti dei compagni sulla fascia; ama ricevere il pallone sui piedi ed entrare dentro il campo a prescindere che parta da destra o da sinistra e dovrà imparare ad attaccare con maggiore frequenza l’area di rigore, sia arrivando da dietro che stringendo dal lato debole per tagliare sul secondo palo – movimenti che già Tuchel ha provato a fargli sviluppare. Ma a prescindere dai suoi limiti, sarebbe divertente seguirne l'evoluzione in un campionato tattico come la Serie A.
Qualche idea per Antonio Cassano
di Marco D'Ottavi
[mercoledì 2, mattina]
Dopo un tira e molla appiccicoso come il caldo di questi giorni, Antonio Cassano ha deciso che vuole continuare a giocare, semplicemente non vuole continuare con il Verona con cui “non è scattata la scintilla”, come detto dal giocatore in un’intervista per La Stampa. Il suo nuovo status di svincolato riapre la domanda su dove andrà Cassano, il pinocchio Cassano, una domanda che ci facciamo ormai da gennaio, quando si lasciò con la Sampdoria, e a cui dare una risposta è diventato sempre più difficile.
L’Entella pare in vantaggio in una presunta corsa a Cassano, avendo il privilegio di trovarsi vicino la casa di famiglia del giocatore, ma come abbiamo capito, con il barese mai dire mai e se non ha funzionato a Verona, perché dovrebbe farlo in un altro posto normale tipo Entella? Proprio per via di questa sua inaffidabilità, per decidere di puntare su Cassano ci vuole una buona dose di follia (o disperazione).
Chi potrebbe scegliere volutamente di mettersi nelle mani di un giocatore di sicuro talento, ma dall’indole tanto ballerina e strattonata?
Al-Nasr
Probabilità: 5%
Ci piacerebbe vedercelo: 50%
Scelta poco à la Cassano, ma va detto che la squadra di Dubai non ha nulla da perdere giocando più o meno per distrarre degli sceicchi mentre Neymar è in vacanza. A Dubai potrebbero tentarlo in diversi modi: con i soldi, e buttali via; con l’allenatore, Cesare Prandelli, uno dei pochi a essersi trovato sempre bene con Cassano (quasi sempre, diciamo, escluso il Mondiale del 2014 in cui l’ha fatto entrare solo due volte dalla panchina) ed è già un mezzo miracolo; con il mare: non saranno le coste liguri, ma alla fine il mare è tutto bello; con il caldo, ovvero una perfetta scusa per non correre; e infine con una città piena di jet privati con il quale tornare a casa la sera.
Cassano all’Al-Nasr potrebbe fare quello che vuole quando vuole e comunque essere il giocatore più decisivo del campionato, mentre noi potremmo scordarci di lui fino a un pomeriggio di aprile in cui pigramente scriveremo su YouTube “Cassano Al-Nasr” e ci godremo 6:39 minuti di calcio opulente e bellissimo.
Comprarsi la società Andrea Doria e farsi la sua squadra
Probabilità: 0%
Ci piacerebbe vedercelo: 80%
La Società Ginnastica Andrea Doria è una storica associazione sportiva genovese. La sua sezione calcio aprì nel 1900 e sopravvisse con alterne fortune fino al 1959. Da una sua costola nacque la Sampdoria come si intuisce dal finale - doria. Oggi ha una sezione di nuoto, pallanuoto, arti marziali, savate e tennis, ma niente ne rilancerebbe lo spirito come una squadra di calcio completamente in mano a Cassano.
Il barese potrebbe decidere l’allenatore, il modulo, quando correre e quando no, se stare in panchina oppure in campo. Tornare a pranzo a casa e godersi la famiglia, accompagnare i figli a scuola. Potrebbe chiamare alcuni amici ex calciatori come Totti, Vieri, Vucinic e tanti altri. L’Andrea Doria diventerebbe un’attrazione, fino al giorno in cui Cassano si stuferà di nuovo e la Gazzetta potrà titolare: “È affondata l’Andrea Doria”.
In riferimento alla famosa nave militare Andrea Doria. Questa:
Roma
Probabilità: 49%
Ci piacerebbe vedercelo: 51%
Dopo l’addio di Totti i tifosi della Roma hanno tantissimo amore da dare. Se Mahrez dovesse per qualche motivo saltare, la Roma potrebbe affidare la zona destra del campo a Cassano. Cassano è uno dei pochi a potersi avvicinare all’ex capitano della Roma per capacità di suscitare emozione toccando un pallone, anche se per tutto il resto porterebbe diverse questioni tattiche, tecniche - umane - irrisolvibili. In definitiva sarebbe una follia, ma alla fine, dai, peggio di Iturbe?
Inoltre da Trigoria a Fiumicino è un attimo e da Fiumicino il volo per Genova dura solo un’ora e cinque minuti. Ci metterebbe meno a tornare a casa dalla famiglia che ad andare in centro con i mezzi pubblici.
Genova Beach Soccer
Probabilità: 75%
Ci piacerebbe vedercelo: 100%
Cassano e il beach soccer starebbero bene insieme come il Martini col gin, le ostriche con lo champagne, la birra con la pizza, insomma avete capito. La squadra del Genova Beach Soccer avrebbe tutto di guadagnato nell’affidarsi a Cassano. Lo stipendio lo potrebbe pagare la Federazione Italiana Giuoco Calcio, che indirettamente gestisce pure il beach soccer, oppure facciamo una colletta su Kickstarter e via.
Affidarsi a Raiola per finire al Manchester United di Mourinho
Probabilità: -50%
Ci piacerebbe vedercelo: 90%
Cassano ha detto con orgoglio di non avere un procuratore, come se la sua carriera si stesse sviluppando in maniera così fluida e precisa da non averne bisogno. Con Raiola, Cassano non dovrebbe fare altro che aspettare di finire, per qualche motivo, al Manchester United.
Tornare a Genova sarebbe problematico, ma potrebbe usare la scusa classica dei calciatori per trasferirsi in Inghilterra di voler far imparare l’inglese ai figli.
Atletico Nervi
Probabilità: 80%
Ci piacerebbe vedercelo: 99%
Cassano abita a Nervi, un quartiere residenziale di Genova. Considerando un’esperienza al Genoa con Juric troppo difficile atleticamente e una nuova parentesi alla Sampdoria altamente improbabile (e quindi forse possibile), il barese se non vuole allontanarsi troppo dal suo quartiere può farsi ingaggiare dall’Atletico Nervi.
Lo sponsor è il ristorante pizzeria Planet, i colori della maglia rossi e neri come quelli che indossava al Milan, il campo è da calcio a 7 o 8 - non si capisce bene - quindi si corre meno che a 11, e per andare ad allenarsi non dovrebbe prendere neanche la macchina risparmiando un bel po’.
Barcellona
Probabilità: n.d.
Ci piacerebbe vedercelo: 200%
Ciao Neymar, benvenuto Cassano. Coi 222 milioni ci si comprano 5-6 centrocampisti che possano reggere il doppio trequartista Messi-Cassano dietro a Suárez e via con l’indipendenza dalla Spagna nel giro di qualche mese.
Atletico Cassano
Probabilità: 7%
Ci piacerebbe vedercelo: 66,6%
Non avrebbe davvero motivo di andare all’Atletico Cassano - che è una squadra di calcio a 5 pugliese - ma voi non andreste a giocare in una squadra con il vostro nome?
Fiorentina
Probabilità: 88,3%
Ci piacerebbe vedercelo: 33,3% (- infinito% per i tifosi della Fiorentina)
La situazione societaria della Fiorentina è talmente vaga al momento che puntare su Cassano potrebbe essere un’idea non così disperata. Lo metti lì a fare da chioccia a Zekhnini e Veretout, gli fai giocare l’ultima mezz’ora e vedi come i tifosi si scordano di Bernardeschi, Borja Valero, Vecino e Kalinic. Soprattutto perché non possono fare altro che scordarseli in fretta.
Firenze e Genova sono a 2 ore e 50 minuti di macchina di distanza, però bella strada, passi in mezzo alla Garfagnana è quasi un piacere farsi sei ore di macchina al giorno.
Caicedo è la riserva ideale nella rosa della Lazio
di Francesco Lisanti
[Martedì 1, pomeriggio]
Felipe Caicedo è nato a Guayaquil, Ecuador, coordinate: 2°11′S 79°53′W, situata sulla destra di uno dei fiumi più importanti del Sud America, il Guayas, collegata all’Oceano Pacifico tramite un braccio di mare chiamato l’Estero Salado; ma in realtà Felipe Caicedo è un classico attaccante della provincia italiana.
Assecondando il canonico girovagare della specie, Felipe Caicedo ha girato a lungo l’Europa dopo aver lasciato l’Ecuador a 17 anni: lo ha scovato il Basilea, poi è passato per il Manchester City, poi si è fatto un po’ di Portogallo, molta Russia, molta Spagna, adesso finalmente l’Italia. Ma Felipe Caicedo è un attaccante di provincia soprattutto per quelle caratteristiche inconfondibili che definiscono la tipologia: le spalle larghe e le cosce grosse, il passo pesante e il tiro potente.
Manifesto di Caicedo: prova a controllare il pallone e se lo fa rimbalzare in faccia, poi si gira, vince un rimpallo e arriva in porta, dove appoggia tra le gambe del portiere.
Il generale scetticismo che ha accompagnato il suo arrivo a Formello è legato allo status di extracomunitario, che impedirà alla Lazio di inseguire profili più affascinanti come Azmoun; ma anche allo scarno curriculum con cui si presenta in Italia: nell’ultima annata, pur positiva per l’Espanyol, ha segnato solo due gol negli oltre 1200 minuti a disposizione.
Tuttavia, facendo la tara con i minuti giocati, considerando che spesso è subentrato a partita in corso, possiamo dire che tutto sommato Caicedo ha un buon rapporto con la porta avversaria.
Nelle ultime quattro stagioni, tra Lokomotiv Mosca e Espanyol, ha mantenuto la discreta media realizzativa di 0.3 gol ogni 90 minuti, un dato mediocre, ma accettabile per un giocatore della panchina. Che li abbia ricavati a partire da 1.5 tiri tentati, di cui 0.7 terminati nello specchio della porta, è un dato addirittura portatore di speranza.
Caicedo fa una fatica tremenda a costruirsi delle conclusioni pulite e a giocare d’anticipo contro i difensori più rapidi e agili di lui, ma riesce incredibilmente a centrare la porta praticamente nella metà delle occasioni a disposizione, e a convertirle in rete con una buona regolarità. Trasforma in gol il 20% dei tiri tentati, la stessa media mantenuta nell’ultimo campionato da Belotti, Higuaín, Mertens, Icardi. Il punto è che riesce ad arrivare al tiro molto, molto più raramente. E quella è una parte consistente del lavoro di un centravanti.
Potrà raccontare ai nipoti di aver segnato tre gol al Barcellona. Qui fa tutto Asensio, ma Caicedo ha la forza per accompagnarlo e la freddezza per bucare ter Stegen.
Quando il pallone cade sul piatto di Caicedo sembra sia rimbalzato su un muro di mattoni, probabilmente anche il rumore che si produce nell’impatto lo ricorda vagamente. Così prova a impossessarsene con altri mezzi: tenta poco più di 2 contrasti ogni 90 minuti, e li vince quasi tutti, e commette lo sproposito di 3.8 falli, che lo incoronano giocatore più falloso della Liga, di un soffio (o un calcione) su Simone Zaza.
È uno di quei giocatori a cui può capitare di subentrare dalla panchina talmente carico da farsi espellere per doppia ammonizione dopo dieci minuti («Eres un irresponsable», gli rimprovera Quique Sánchez Flores).
Per il resto, il suo impatto su un campo da calcio si riduce sostanzialmente a: correre quando si aprono gli spazi e buttarsi sui palloni contesi. Nell’Espanyol ha rappresentato un’ottima spalla per esaltare giocatori rapidi e tecnici come Asensio e Lucas Vázquez, seminando il panico nelle difese costrette a correre all’indietro (in quest’azione con l’Ecuador accompagna uno strappo di Valencia, e mentre attacca l’area di rigore fa sembrare Roncaglia un pupazzo di cartapesta).
Alle cifre a cui è stato annunciato (4 milioni per il cartellino, 1.5 per l’ingaggio), Caicedo appare un’intuizione potenzialmente felice. È facile immaginarlo correre al fianco di Immobile, o in funzione di Felipe Anderson (e di chiunque arriverà a sostituire Keita, se Keita partirà). Sarà la riserva ideale nella rosa della Lazio, e soprattutto nel sistema di Filippo Inzaghi, che ha eliminato i centravanti statici come Djordjevic e ha fatto esplodere la verticalità del suo attacco.
Difficilmente, invece, farà la fortuna dei suoi fantallenatori, a meno che non riesca a sciogliere questo dubbio amletico: inizierà a tirare di più e considerata l’efficienza inizierà a segnare di più; oppure iniziare a segnare di meno in rapporto ai tiri diminuendo la propria efficienza? In ogni caso, prendetelo solo per completare il roster, e non è detto che qualche punticino non ve lo regali.
Juan Foyth: il nuovo difensore dai piedi delicati del PSG
di Fabrizio Gabrielli
[Martedì 1, mattina]
Se non sappiamo poi molto (oltre i facili sensazionalismi delle compilation su YouTube) su Juan Marcos Foyth, l’imberbe centrale dell’Estudiantes in procinto di approdare alla corte qatariota del PSG dopo gli interessamenti di Tottenham e Roma, è perché non è che ci sia troppo da sapere. Dopotutto ha esordito in Primera soltanto quest’anno, a marzo, lanciato tra i titolari da Vivas senza neppure un passaggio in panchina con la prima squadra.
Lui si è fatto trovare pronto. Ma non avreste fatto lo stesso se il vostro DT fosse stato Vivas?
Un paio di settimane dopo, Foyth ha firmato il primo contratto da professionista (con scadenza nel 2019) seguendo le tempistiche classiche con le quali si blinda un prospetto interessante con l’idea di farne un tesoretto in pantaloncini e calzettoni. Ora “La Brujita” Verón ha fissato il prezzo: 10 milioni e mezzo. Alla domanda se c’è qualcuno che può permettersi di spendere una cifra del genere per un giocatore giunto al punto di maturazione cui è giunto Foyth, probabilmente tra le due o tre risposte plausibili c’è il club parigino.
Ma, per quanto non sia una cifra da capogiro, li vale quei soldi Foyth?
Una vaga somiglianza con Wojciech Szczesny, un fisico slanciato, ma esile come si può essere slanciati ed esili a 19 anni, un piede sinistro così educato da meritare una laurea ad honorem in Lanci Lunghi alla Universidad Nacional de La Plata, e un piede debole che comunque usa con ambizione. Può bastare?
Le letture difensive non sempre sono perfette: qua a inizio azione ha il braccio alzato perché ha appena sbagliato un appoggio facile. Il recupero, però, è davvero stiloso.
Oltre a pianificare una Linea Maginot difensiva capace di ridimensionare ogni attacco di Ligue 1 (e probabilmente d’Europa) per i prossimi 10 anni - due dei tre centrali già agli ordini di Emery hanno meno di 25 anni, e si chiamano Marquinhos e Kimpembe - con Foyth si aggiunge al roster parigino un profilo per certi versi nuovo: un centrale più bravo a impostare che a difendere, un centrale puro capace di condurre palla con la testa alta, di creare gioco a partire dalla linea più arretrata, di eseguire compiti che Emery ha sempre preferito delegare a centrocampisti educati all’arretramento sulla linea difensiva.
E Foyth è proprio dal centrocampo che proviene, come da tradizione per i centrali difensivi argentini bravi coi piedi. Foyth, a dirla tutta, ha iniziato da enganche, con la passione per Kaká. Poi è stato retrocesso a cinco e di lì, grazie all’intuizione del suo tecnico in Séptima, a centrale difensivo.
Reminiscenze del suo idolo: pausa e accelerazioni. Peccato per l’ultimo passaggio. Comunque era la sua partita d’esordio, contro il Patronato. Giocherà tutti i 90 minuti.
Il DT dell’Under-20, Úbeda, ha puntato su di lui per il Sudamericano di gennaio e i recenti Mondiali perché è anche bravo nei posizionamenti difensivi e nel controllo della profondità contro avversari che giocano in verticale a velocità verticose (qua contro la Guinea riesce a resistere all’incombenza di un avversario più veloce), anche se a volte dimostra un’irruenza eccessiva che lo porta all’errore, ancora tutta da smussare.
Foyth non ha l’elasticità e l’aggressività di Marquinhos, né l’agilità e la reattività di Kimpembe: gli manca un po’ di massa muscolare e di certo non ha né la leadership del brasiliano né lo swag del francese di origini congolesi.
Difficilmente, nel PSG, troverà spazio da subito, ed è quasi impossibile immaginarlo negli appuntamenti davvero importanti della stagione (senza un incrocio di squalifiche e infortuni da emergenza). Però Foyth ha tutte le caratteristiche del materiale grezzo facilmente plasmabile, oltre che l’innegabile pregio di potersi far guidare nell’apprendistato europeo da un maestro come Thiago Silva e da uno che sembra aver già intrapreso la strada che porta dallo stato di fenomeno a quello di maestro: Marquinhos. Entrambi i centrali titolari, inoltre, sono stati capaci di attraversare l’Atlantico giovanissimi, con l’aura dell’incognita, e affermarsi in breve tempo.
Peccato soltanto che il rischio tangibile, sia quello di vedere un altro talento argentino, dopo Lo Celso, asfissiare sulle tribune del Parco dei Principi nel pieno della sua fioritura, intabarrato nel cellophane come un giocattolo da collezione nella sua confezione originale, con la paura che il solo esporlo all’aria e alla luce potrebbe irrimediabilmente rovinarlo.
Quante speranze in Zekhnini?
di Giuliano Adaglio
[Lunedì 31, pomeriggio]
Quasi un anno e mezzo fa, in un pezzo sui giocatori da seguire in Scandinavia, avevamo indicato Zekhnini come uno degli elementi più promettenti del campionato norvegese, assieme all’allora compagno di squadra Sondre Rossbach e Mohamed Elyounoussi, attuale attaccante del Basilea. Da quel giorno ha fatto un ulteriore salto di qualità, guadagnandosi la chiamata della Fiorentina; il club viola, da sempre attento ai mercati alternativi – specie da quando è tornato Pantaleo Corvino – lo ha strappato alla concorrenza facendogli firmare un contratto quinquennale.
Il suo approdo in Italia è stato salutato con entusiasmo in patria, anche perché non sono molti i norvegesi che hanno calcato con successo i campi della Serie A. Appena retrocesso il palermitano Aleesami – che con Zekhnini condivide le origini marocchine – l’ultimo ad aver avuto un certo impatto è stato il romanista John Arne Riise, mentre ben pochi si ricordano della meteora barese Erik Huseklepp, rientrato in patria dopo un’altrettanto fugace esperienza in Inghilterra.
In un articolo apparso recentemente sul Verdens Gang, il tabloid più letto di Norvegia, Zekhnini parla dei suoi primi giorni in maglia viola con entusiasmo, pur sottolineando qualche difficoltà di adattamento, specie da un punto di vista linguistico.
Potenziale da esprimere: molto. Probabilità che tale potenziale venga espresso: ne abbiamo visti troppi perdersi per sbilanciarci.
Per lui, che ha solo 19 anni e ha sempre giocato in un contesto ovattato come quello dell’Odd – squadra della sua città natale –, il salto in Serie A rischia di essere problematico: le differenze culturali, tattiche e di ritmo sono evidenti, e Pioli dovrà essere bravo a inserire gradualmente il giocatore evitando di bruciarlo. Non si contano, infatti, i giocatori passati da Firenze negli ultimi anni senza aver lasciato traccia: dall’argentino Toledo, al croato Rebic (ancora in rosa), senza dimenticare il polacco Wolski e il danese Zohore. D’altro canto, la situazione attuale dei viola, di fatto un cantiere aperto, potrebbe rappresentare un’opportunità per Zekhnini, che già nelle prime uscite con la nuova maglia ha fatto intravedere le proprie potenzialità.
Dopo un gol in amichevole al Trento si è presentato in conferenza stampa sfoggiando una certa sicurezza e dicendo di ispirarsi a Salah, Cuadrado e Dybala. A differenza dei suoi modelli, però, Zekhnini è un’ala più pura, che predilige agire sulla fascia sinistra per accentrarsi al tiro con il piede preferito, il destro. I video-raccolta-di-giocate lasciano il tempo che trovano, specie quando si parla di un elemento creativo come il norvegese, ma possono dare l’idea di quello che può diventare se inserito in un contesto in grado di esaltare le sue capacità.
Porta bene palla, è veloce e va volentieri in verticale. Non è del tutto da escludere un futuro più vicino alla porta…
Per rendere al meglio Zekhnini dev’essere messo in condizione di puntare l’uomo in uno contro uno, senza essere ingabbiato in contesti tattici troppo complessi: i suoi movimenti sono ancora piuttosto istintivi, così come frequenti i momenti in cui si estranea dal gioco collettivo.
Il fatto che non abbia ancora esordito in Nazionale maggiore, a differenza di altri giovani classe ’98 come Ødegaard o Sander Berge, non deve ingannare: la stoffa c’è. Pioli e il suo staff dovranno però lavorare parecchio, anche sul piano fisico, per trasformare questo ragazzo che ama giocare con i calzettoni sopra il ginocchio alla Henry in un giocatore vero.
Il complicato mercato dell'Atlético Madrid
di Emiliano Battazzi
[Lunedì 31, mattina]
Il maestro dell’escapologia Harry Houdini arrivò forse al massimo della sua spettacolarità con la cella della tortura cinese dell’acqua, da lui chiamata più efficacemente Houdini Upside Down (per ragioni di copyright): una volta legato, si faceva calare a testa in giù in una cabina d’acqua chiusa a chiave, da cui riusciva regolarmente a uscire.
Tra le tante doti di Simeone e le tante personalità in cui le ha declinate, dal demiurgo al capopopolo, dall’analista allo sciamano, nessuno sa ancora se è in possesso anche della capacità di liberarsi dalle costrizioni di un escapologo. La sua cassa piena d’acqua è il blocco degli acquisti imposto dalla FIFA come sanzione per i trasferimenti irregolari di giocatori minorenni, e in effetti la tortura è cinese come il socio di minoranza dei Colchoneros, Wanda Group, da cui il nome del nuovo stadio Wanda Metropolitano, da questa stagione nuova casa dell’Atlético.
Stadio nuovo, giocatori vecchi: sappiamo che Simeone rende al meglio in situazioni di estrema difficoltà, ma questa volta il livello è talmente alto che ha bisogno di un aiuto significativo. Per questo motivo ad Andrea Berta, ormai da quattro anni a Madrid, sono stati dati ancora più poteri: da Direttore Tecnico è diventato Direttore Sportivo, con Caminero relegato a coordinatore della prima squadra.
Nel mercato rojiblanco una cosa però si può fare, e da quella si è iniziato: vendere. Simeone si è liberato di quei giocatori che non rientravano nei suoi piani, figure secondarie (da Cerci a Mensah, da Manquillo a Diogo Jota), e probabilmente anche altri verranno venduti o mandati a giocare altrove (maggiori indiziati Siqueira, Vietto, Kranevitter, Santos Borré). In questo modo, la rosa è stata sfoltita e irreggimentata: come se il "Cholo" stesse scegliendo i migliori tra i suoi soldati per una missione speciale.
Il problema è che l’estate è iniziata con un’altra vendita, ben più importante, quella di Theo Hernández, il miglior terzino sinistro della Liga della scorsa stagione (dopo i mostri sacri, ovviamente): 19 anni, un passato nelle giovanili dell’Atleti sin dai 10 anni, un futuro che sembra roseo, ma che sarà al Real Madrid, che ha sostanzialmente sfruttato la bassa clausola di rescissione (24 milioni).
Dall’altra parte, l’Atlético è riuscito almeno a evitare la partenza di Griezmann, che aveva esplicitamente espresso il suo desiderio di andarsene. Dopo la conferma del TAS al blocco agli acquisti, il francese però non se l’è sentita di abbandonare la nave nel momento di difficoltà maggiore: ha così deciso di rinnovare fino al 2022, mantenendo però inalterata la clausola di rescissione pari a 100 milioni (in sostanza, ha rimandato di un anno la partenza).
Su quest’atto di “amore” però non si può costruire una squadra, e il DS Berta prova sostanzialmente a sfruttare la teoria dei wormhole per effettuare dei viaggi nel tempo: comprare adesso come se fosse già gennaio (quando terminerà il blocco ai trasferimenti).
Per ora, l’unico acquisto per il futuro è Vitolo, per cui è stata pagata la clausola di rescissione al Siviglia, e che è stato subito girato in prestito al Las Palmas per sei mesi (scatenando le ire degli andalusi, che hanno denunciato entrambi i club per questo stratagemma).
Se un giocatore andava comprato, quello era proprio Vitolo: esperto, carismatico, polivalente, un profilo in pieno stile Simeone per ridare linfa al centrocampo. Vitolo è in grado di giocare su entrambe le fasce di un 4-4-2, oppure ala di un 4-3-3, ma si trova bene anche nei mezzi spazi e in posizione centrale.
Il suo arrivo probabilmente permetterà a Koke di tornare al centro del campo e aumenterà ancora, se possibile, l’intensità del centrocampo colchonero: per Simeone è in sostanza un back to basics, allo spirito originario della sua epopea da allenatore dell’Atleti.
E proprio in quest’ottica, l’altra operazione per il futuro su cui Berta sta lavorando è il ritorno di Diego Costa dal Chelsea (che da 50 giorni è in vacanza, e ovviamente sarebbe parcheggiato per sei mesi in un’altra squadra), il centravanti che Simeone continua a rimpiangere per le garanzie di attacco alla profondità, fisicità e impegno che in pochi al mondo possono garantire come lui. È troppo difficile competere al massimo livello con il solo Fernando Torres come punta centrale e con Gameiro che non è ancora riuscito a convincere pienamente il "Cholo".
La squadra che si vuole preparare per gennaio, dunque, è brutta, sporca e cattiva: il classico 4-4-2 con le linee che si muovono all’unisono, giocatori pronti a spingere i propri limiti fino all’estremo, se non oltre.
Non è detto che questa difficile operazione di escapologia dal vincolo FIFA alla fine riesca bene. Il ripensamento di Griezmann è indicativo sul rischio di scarse motivazioni di un gruppo unito ma un po’ logoro. Il pericolo per Simeone è che, invece di una fuga stile Houdini, il suo Atleti in sei mesi finisca come l’esperimento della prigione di Stanford, con l’allenatore argentino trasformato in un sadico tiranno e i suoi giocatori rivoltosi.
Ancora una volta, a Simeone tocca il compito di compiere un’impresa: tutto sommato, nient’altro che la normalità di questi suoi anni in rojiblanco.
7 credibili coppie di terzini per l’Inter
di Francesco Lisanti
[Venerdì 28, pomeriggio]
L’Inter ha delle storiche lacune nella rosa, che i tifosi immaginavano potessero colmarsi con l’arrivo di un allenatore autorevole come Spalletti e di un dirigente navigato come Sabatini, e che non sono ancora riuscite a trovare risposta nel mercato.
Purtroppo nessuno dei tredici terzini avvicendatisi negli ultimi tre anni sulle fasce nerazzurre è riuscito a lasciare un grande ricordo di sé, e anche quest’estate siamo tornati al punto in cui la nostalgia prende il sopravvento sulla disperazione e i lontani ricordi di Erkin e Montoya sembrano raccontare un passato migliore.
Posto che finora l’Inter si è sempre sistemata con la difesa a quattro, con chi giocherà Spalletti?
1. Valietti e Sala
Credibilità: 1%
Ipotetico valore di mercato: un milione
I terzini apparsi più in forma nel precampionato interista sono stati Federico Valietti e Marco Sala, due classe ‘99, appena maggiorenni. Probabilmente entrambi tra cinque anni calcheranno i campi della Serie B con le maglie di Brescia e Cremonese, ma per il momento rappresentano le opzioni di maggiore qualità a disposizione di Spalletti. Sala è mancino e purtroppo ha lasciato presto il ritiro per problemi muscolari, Valietti invece è destro e ha proseguito il viaggio in Cina con la prima squadra - nella ICC sta giocando i secondi tempi.
Sala ha fatto in tempo a bruciare la fascia del Wattens e a regalare un assist a Pinamonti.
2. D’Ambrosio e Nagatomo
Credibilità: 70%
Ipotetico valore di mercato: in picchiata
I titolari però sono ancora loro: D’Ambrosio a destra e Nagatomo a sinistra. Oppure D’Ambrosio a sinistra e Nagatomo a destra, perché chi vuoi che se ne accorga. Ansaldi si è appena intravisto, anche quest’anno passerà molto tempo in infermeria, ma potrà intrattenerci con altri quiz di geografia: con il sud-est asiatico non se l’è cavata un granché.
3. Sakai e Hatsuse
Credibilità: 5%
Ipotetico valore di mercato: 6 milioni
Uno dei peccati mai perdonati alla dirigenza interista, per quanto impossibile da riscontrare nella realtà, è l’aver insistito con Nagatomo nel tentativo di raccogliere simpatie e interesse sui mercati orientali. Dopo sei anni di militanza, la vera rivoluzione sarebbe raddoppiare la posta, assicurandosi sulla destra Hiroki Sakai, il terzino titolare nella Nazionale (l’altro è Nagatomo), e sulla sinistra Ryo Hatsuse, il miglior prospetto giapponese nel ruolo.
Hatsuse può giocare anche sulla fascia destra, per rientrare sul sinistro e pennellare cross.
4. Stafylidis e Durmisi
Credibilità: 10%
Ipotetico valore di mercato: 20 milioni
Un’alternativa sempre valida è spiare sul banco di Monchi, che secondo le indiscrezioni di mercato, prima di arrivare a Kolarov, ha inseguito Stafylidis dell’Augsburg e Durmisi del Betis: chiunque essi siano di certo varranno almeno una plusvalenza. Le statistiche dicono che Durmisi è stato il terzino con più passaggi chiave della Liga (lo stesso campionato di Marcelo!), Stafylidis tra i migliori per contrasti e intercetti. Monchi ci avrà dato un’occhiata.
5. Sagna e Tabanou
Credibilità: 20%
Ipotetico valore di mercato: 0,00 €
Ma quanti terzini ha adesso il Manchester City? In realtà soltanto quei tre che ha appena comprato per cifre roboanti, perché tutti gli esuberi si trovavano in scadenza di contratto e sono stati svincolati (o ceduti a cifre contenute). Rovistando tra i parametri zero si trovano ancora macerie di Guardiola, come Sagna, ed esterni riadattati come Tabanou, per contenere lo spreco di cross sbilenchi dalla trequarti.
Tabanou non ha ancora trovato squadra perché incute molto timore.
6. Murillo e Kondogbia
Credibilità: 30%
Ipotetico valore di mercato: in ascesa
Si deve pur sempre tener conto che l’Inter sarà una squadra di Spalletti, un allenatore che non crede nella fissità dei ruoli e riesce a restituire continuamente nuove motivazioni ai suoi giocatori, se necessario stravolgendo la loro carriera. Murillo terzino destro è stato uno dei suoi primi esperimenti, provato dal primo minuto della prima partita, e ha già dato qualche frutto. La suggestione Kondogbia potrebbe arrivargli più avanti, quando a centrocampo serviranno giocatori che sappiano trattare la palla. È mancino, corsa e sostanza ci sono: perché no?
7. Dalbert e Aurier
Credibilità: 50%
Ipotetico valore di mercato: 50 milioni
Risposta: perché potrebbero arrivare giocatori più esperti e più forti, da schierare nella loro posizione naturale. Da qui al 31 agosto, sarà l’augurio di tutti i tifosi interisti.
Supermercato PSG
di Dario Saltari
[Venerdì 28, mattina]
Tra le tante cose che non hanno funzionato nella disastrosa stagione del PSG una delle principali è stata il rapporto tra Emery e la squadra. Il tecnico basco ha adottato una terapia d’urto nel tentativo di creare un proprio gruppo, nonostante magari la composizione stellare della rosa suggerisse maggiore diplomazia, escludendo fin dai primi mesi gli elementi che per qualche motivo non rientravano nei suoi piani. Forse era anche una strategia per motivare i giocatori, ma non si può dire che fino a oggi abbia funzionato più di tanto.
L’effetto più visibile in queste settimane di calciomercato è che nella casa del PSG vive un gruppo di giocatori che non ha altro pensiero se non quello di cambiare aria. Di solito in questi casi le squadre tendono comunque a far giocare questi elementi nel precampionato, per bluffare un minimo sulle loro intenzioni di vendere e anche per non svalutarli troppo. Emery, invece, se n’è fregato e li ha lasciati a casa.
Cosa è successo con Grzegorz Krychowiak????
Probabilità cessione: 95%
Appetibilità: 90%
Krychowiak è forse il primo caso in cui l’allenatore che ti porta con sé in una nuova squadra poi ti esclude dal gruppo. Qualche giorno fa Emery ha riassunto bene la schizofrenia che ha contraddistinto il suo rapporto con il polacco al PSG: «Quando si arriva al PSG, i giocatori devono essere capaci di superare uno step supplementare per adattarsi al gioco di squadra. In questo senso, qui a Parigi non è la stessa cosa rispetto ad altri posti; quindi è meglio che si trovi un'altra squadra, il cui gioco potrà dargli vantaggi».
Krychowiak è perfetto per squadre dirette e verticali, che non tengono troppo il pallone e che fanno anche della riconquista del possesso una delle proprie fonti di gioco. Dato che se ne parla molto per il mercato italiano, vale forse la pena ragionare sul contesto tattico a lui ideale, e per le sue caratteristiche potrebbe sembrarci più adatto all’Inter che alla Juventus, le due squadre a cui viene accostato più spesso anche se sembrano aver virato entrambe su altri obiettivi (Vecino per la prima, Matuidi per la seconda). Anche la Roma di Di Francesco sarebbe potuta essere una buona destinazione, tatticamente parlando, ma Monchi ha acquistato Gonalons. Viste le richieste economiche del PSG, che la scorsa estate spese quasi 35 milioni di euro, visto anche l’ingaggio non banale, forse il suo futuro non sarà in Italia…
Cosa fare di Ben Arfa?
Probabilità cessione: 85%
Appetibilità: 65%
Con Ben Arfa, invece, le cose sono state molto più chiare. Emery ha iniziato a escluderlo dalle convocazioni fin da settembre accusandolo di scarso impegno in allenamento e di egoismo in partita, e Ben Arfa ha subìto al punto la situazione che ha finito per citare Martin Luther King: «Un’ingiustizia commessa da qualche parte è una minaccia per la giustizia del mondo intero». Forse un po’ eccessivo, ma comunque più di classe del suo agente, che ha messo “diritto sociale” e “Repubblica delle banane” nella stessa frase.
Prima di approdare al PSG, comunque, Ben Arfa aveva dimostrato al Nizza di poter fare la differenza contro qualunque avversario, sciando tra i difensori a una velocità senza senso. L’ala francese ha ancora 30 anni e non subisce infortuni gravi da qualche anno: una stagione o più di magia può ancora concederla a un allenatore e a una piazza che non si formalizzino troppo sui suoi capricci.
Sempre ragionando in chiave italiana: magari il Milan potrebbe farci un pensierino, per mettere la ciliegina su quella torta di hype che è il suo calciomercato, e avere un’alternativa sull’esterno destro con più fascino di Suso. Al limite anche la Roma potrebbe mettere le sue fiches su di lui, per una scommessa ancora più rischiosa di Mahrez.
Serge Aurier
Probabilità cessione: 70%
Appetibilità: 75%
Emery con Aurier non ci ha litigato, anzi per lui ha speso anche buone parole. Il terzino ivoriano più che altro paga ancora il suo passato difficile con Blanc e gli imbarazzi suscitati al PSG. In ogni caso, quest’anno ha perso il posto da titolare a favore di Meunier, più attento nelle marcature preventive, e anche la speranza di rivederlo mai, adesso che il club parigino ha preso anche Dani Alves. Per lui, che ha 24 anni e rimane uno dei terzini destri più interessanti in circolazione, la cessione è quindi un viatico imprescindibile se vuole riprendere la sua scalata del calcio europeo.
Aurier è un terzino molto potente e discretamente tecnico, con una progressione che brucia l’erba. Non è molto creativo e difensivamente non è ancora solidissimo, è vero, ma rimarrebbe comunque un acquisto di primo livello per qualunque squadra di Serie A, a partire da quelle alla ricerca di terzino destro. In questo senso, Inter e Juventus (che però ha finito gli slot per gli extracomunitari con Bentancur, e a quanto pare Aurier non ha passaporto francese) sarebbero le due squadre ad averne maggiore bisogno. E forse anche le sole che potrebbero sostenere il costo del cartellino e dell’ingaggio. Chissà se vorranno assumersi il rischio.
"Chicharito" Hernández torna in Inghilterra
di Flavio Fusi
[Giovedì 27, pomeriggio]
«Un paio di anni fa "Chicharito" decise di andare via dallo United, non so se a decidere fu lui o la società. Sarebbe sempre il benvenuto in una mia squadra, non ha bisogno di molti minuti in campo per segnare, avrei voluto vederlo qui. Ma abbiamo deciso di puntare sui giovani e con Lukaku e Rashford non abbiamo bisogno di lui».
Con queste parole José Mourinho ha commentato l’approdo del "Chicharito" Hernández al West Ham, attaccante di cui ha profonda stima, visto che già in passato si era espresso positivamente nei suoi confronti, dicendo che se fosse stato per lui non lo avrebbe mai ceduto (né lui, né Welbeck, né tantomeno Di María). Il tecnico portoghese non potrà allenarlo nella prossima stagione, ma avrà la possibilità di incontrarlo tra una quindicina di giorni, visto che la prima giornata di Premier League propone proprio Manchester United – West Ham.
Nello scorso campionato la squadra di Bilic si è fermata a quota 47 gol e i due centravanti rimasti in rosa, ovvero Andy Carrol e Diafra Sakho, hanno segnato solo 8 reti complessive (rispettivamente 7 e una). Non si può dire, quindi, che il West Ham abbia avuto fortuna con gli attaccanti.
"Chicharito" sarà addirittura la 33.esima punta ad aver giocato con gli “Hammers” dal gennaio del 2010 (in venti non hanno segnato più di 3 gol per il club), ma è difficile pensare a un fallimento dell’ex centravanti del Bayer Leverkusen.
Il modo di intendere il calcio del messicano sembra la soluzione ideale ai problemi di sterilità del suo nuovo club. Un attaccante lontano anni luce dall’archetipo fisico del centravanti di Premier League, ma che possiede la preziosissima dote di farsi trovare al posto giusto al momento giusto. Forse nessuno ha descritto meglio del "Chicharito" il modo di giocare del "Chicharito" stesso.
«Questo sport si gioca in testa, non solo sul terreno di gioco. Se il tuo avversario è più intelligente, puoi essere più veloce e più forte, ma probabilmente non lo batterai. Lui sarà sempre un passo avanti mentalmente. Sui cross qualche volta mi muovo uno o due secondi prima che arrivi la palla perché provo a indovinare dove arriverà. È una questione di intuito. A volte la palla arriva... a volte no. Ma quella intuizione spesso è giusta».
In Premier League l’ex “cult-hero” dei tifosi dello United, costato qualcosa come 16 milioni di sterline, ha una media da 0,65 gol senza rigori per 90 minuti, pari a quella di Kane e Suárez e migliore rispetto a quella di Dzeko e Diego Costa. In due anni di Bundesliga ha segnato 28 gol, dimostrando di poter essere titolare e non solo un preziosissimo attaccante di scorta a cui basta una manciata di minuti in campo per poterla buttare dentro.
Insomma l’investimento sembra di quelli sicuri e i tifosi degli “Hammers” sono contentissimi del colpo, tanto che su Twitter @block141whufc gli ha persino dedicato una canzone sulle note de “La Bamba”.
Perché la Lazio ha messo sotto contratto Di Gennaro
di Emanuele Atturo
[Giovedì 27, mattina]
Il calciomercato della Lazio ha sempre un andamento misterioso. I suoi movimenti non si riescono a leggere usando i codici tradizionali dei trasferimenti d’agosto: ogni cessione assume uno statuto incerto e una lentezza pre-moderna. Ogni acquisto arriva sempre a fari spenti, salvo dimostrarsi la maggior parte delle volte migliore di quanto poteva sembrare in un primo momento.
In questa sagra dell’anti-glamour è arrivato una settimana fa - a parametro zero e nel silenzio più o meno generale - Davide Di Gennaro, centrocampista moro dal naso lungo e dalla bellezza salina che avrebbe funzionato nelle commedie romantiche italiane degli anni ’90. Anche tecnicamente Di Gennaro sembra provenire da un’altra epoca. Nato come trequartista, la sua mobilità ridotta lo ha portato ad abbassarsi davanti alla difesa, sulla strada percorsa da altri fantasisti contemporanei dal fisico poco atletico.
Dopo la cessione di Biglia la Lazio aveva l’esigenza di rimpiazzare le le sue letture difensive e la sua capacità di costruire gioco. Era difficile però trovare sul mercato un profilo così completo, così ha pensato di prendere due giocatori la cui somma di caratteristiche potrebbe potenzialmente coprire la partenza dell’argentino. Se il lavoro senza palla sarà affidato a Lucas Leiva, la creatività nella costruzione del gioco sarà probabilmente compito di Di Gennaro.
Nelle sue due stagioni a Cagliari Di Gennaro ha alzato il proprio livello di gioco fin quasi all’altezza delle aspettative che aveva creato da giovane, quando militava nelle giovanili del Milan e si pensava potesse avere un futuro da trequartista in prima squadra.
Un gol di Di Gennaro a San Siro mentre era in prestito alla Reggina. Tornerà un anno dopo, vinto dal Milan alle buste, per collezionare zero presenze.
Se era più prevedibile la sua grande stagione in Serie B - un campionato che aveva imparato a navigare, quando il Cagliari lo ha preso proprio con l’obiettivo di salire in A - meno scontato era il suo impatto sulla Serie A. Un torneo di cui avrebbe potuto soffrire l’intensità e i ritmi troppo elevati per il suo fisico da tennista amatoriale.
Perplessità in realtà non cancellate del tutto dal suo scorso anno. Di Gennaro ha iniziato la stagione da titolare, collezionando ottime prestazioni, risultando fondamentale per l’uscita del pallone della difesa e per dare idee a una linea mediana povera di qualità. Nel corso della stagione però, con i problemi difensivi del Cagliari che diventavano sempre più cronici, Rastelli lo ha sacrificato per avere maggiore copertura. Complice una condizione fisica non sempre ottimale, Di Gennaro riusciva a contribuire solo attraverso un buon senso dell’anticipo, ma faticando a coprire delle distanze di squadra sempre troppo ampie per la propria mobilità ridotta.
Nelle sue giornate migliori, però, Di Gennaro ha mostrato sprazzi di un talento col pallone sopra la media, che lo rende un giocatore originale e di culto per chi è affezionato ai centrocampisti sensibili e anacronistici. Nel giusto contesto tattico, però, Di Gennaro potrebbe diventare qualcosa di più di un animale esotico da maglia di lanetta. Nella struttura di Inzaghi, piuttosto fluida, ma che probabilmente continuerà a ricorrere a un blocco difensivo piuttosto basso e a delle transizioni veloci, Lucas Leiva dovrebbe occuparsi di gestire il possesso in maniera più lineare e conservativa. In questo modo Di Gennaro dovrebbe toccare meno palloni ed essere lasciato libero di esprimere il proprio istinto verticale. Nascendo come trequartista, non possiede dei tempi di costruzione da play puro, ma è più portato a guardare oltre la linea difensiva. Lo scorso anno ha messo insieme numeri da passatore di qualità: 2,3 passaggi chiave ogni 90 minuti, metà dei quali lunghi, più 5 assist, alcuni da calcio piazzato, dove risulta pericoloso sia in modo diretto che indiretto.
È giusto fantasticare su palle di questo tipo rincorse da un berserk dello spazio come Immobile.
Lasciato libero di sganciarsi anche in avanti, Di Gennaro è capace di aggiungere qualità in fase di attacco posizionale, dove la Lazio è risultata spesso arida di idee. Specie nell’ultimo passaggio, un fondamentale in cui Di Gennaro mostra una certa creatività, anche se spesso non accompagnata da tempi ed esecuzioni precise.
Sulla trequarti però Di Gennaro trova il suo territorio preferito ed è molto bravo a muoversi senza palla e a smarcarsi. Possiede la corsa leggera tipica dei "10" degli anni ’70 e un primo controllo orientato quasi sempre preciso. La soluzione del tiro da fuori è un’altra arma importante, anche se viene usata forse meno spesso di quanto potrebbe. Meno di un tiro da fuori ogni 90 minuti sembra poco per uno che lascia partire la gamba in modo così pulito.
Al momento nelle gerarchie Di Gennaro parte dietro il trio di centrocampo Milinkovic-Leiva-Parolo, ma con tre competizioni è facile immaginare che troverà molto spazio nelle rotazioni. Soprattutto perché offre ai biancocelesti caratteristiche uniche in rosa, che in alcune partite e frangenti tattici potrebbero risultare preziose.
Se già lo scorso anno l’adattamento di un centrocampista così fragile ai ritmi della Serie A rappresentava un tema interessante, lo sarà ancora di più quest’anno, in un contesto di livello più alto. Se anche non dovesse funzionare, saremo pronti ad accontentarci di qualche cross morbido come la panna o di qualche stop che farà trionfare lo stile.
Che tipo di giocatore è Nélson Semedo
di Giuliano Adaglio
[Mercoledì 26, pomeriggio]
Qualche giorno fa il Barcellona ha ufficializzato Nélson Semedo, acquistato dal Benfica per circa 30 milioni di euro, per rinforzare l'esterno destro. Di lui parlavamo nella nostra Top XI della Primeira Liga, in un estratto che riportiamo di seguito.
"Nonostante l’ottimo rendimento di Bruno Gaspar – l’esterno del Vitoria Guimarães recentemente acquistato dalla Fiorentina – e quello del venezuelano del Nacional (ma di proprietà del Porto) Victor Garcia, la stagione di Nélson Semedo è al di sopra di ogni sospetto: 1 gol e 6 assist in 31 partite, ma soprattutto un appoggio costante alla manovra della squadra, che dal suo lato – grazie anche all’ottimo lavoro dell’argentino Salvio, un altro dei grandi protagonisti del titolo del Benfica – ha quasi sempre distrutto gli avversari.
Ventitré anni, nato e cresciuto a Lisbona, Nélson Semedo potrebbe essere il prossimo crack di mercato del Benfica visto che Barcellona e Manchester United lo stanno cercando. Il giocatore ha tutto per imporsi in una grande squadra (assumendo che il Benfica non lo sia): è rapido, ha una grande facilità di corsa – è primo nel ruolo per dribbling tentati (3) e riusciti (1,6) a partita – e sa proporsi con costanza al cross, che effettua con buona precisione. In fase difensiva deve ancora limare qualche dettaglio (3,3 contrasti tentati a partita, 9° nel ruolo, ma è il migliore per dribbling subiti, solo 0,3 a partita), così come nella conduzione della palla, non sempre efficace. A poco più di 23 anni rappresenta un patrimonio anche per la nazionale portoghese, dove si giocherà il posto nei prossimi anni con Cedric e con un altro prodotto del settore giovanile del Benfica, João Cancelo".
Veretout dovrà crescere per giocare con Pioli
di Dario Saltari
[Mercoledì 26, mattina]
Due anni fa inserivamo Jordan Veretout nella Top XI stagionale della Ligue 1 (senza considerare i giocatori di PSG, Lione, Monaco e Marsiglia), descrivendolo come un esemplare di tuttocampista non del tutto riuscito. Due stagioni dopo, con in mezzo un’esperienza fallimentare in Premier League, Veretout non ha completato il suo sviluppo - ma è del ’93, ha ancora 24 anni - tornando al Saint-Etienne sorprendentemente appesantito, quasi invecchiato nonostante i nuovi capelli ossigenati.
La passata stagione Veretout ha giocato prevalentemente da mediano in un centrocampo a due, ma è sembrato molto più concentrato sul suo gioco col pallone rispetto al passato, senza quell’aggressività nell’attaccare l’uomo e lo spazio che sembrava potesse contraddistinguere la sua carriera.
D’altra parte ha un’ottima tecnica con entrambi i piedi che abbina ad una visione di gioco sicuramente sopra la media (ha una media di passaggi chiave alta, 1.50 per 90 minuti, e ha realizzato 5 assist in totale).
Veretout si fida molto anche del suo tiro, che tenta spesso da fuori area (0.79 per 90 minuti la scorsa stagione) sia col destro che col sinistro, a volte con risultati esteticamente molto appaganti.
Ma è senza il pallone che è diventato incredibilmente più passivo rispetto a quello che ci si potesse ragionevolmente aspettare qualche tempo fa. Veretout è diventato molto statico in ricezione, quando non scende tra i due centrali per impostare dal basso.
Certo, è ancora molto volenteroso nel rincorrere gli avversari, anche all’indietro, ma sembra aver perso l’elasticità per poter leggere l’azione, difendere in avanti e tentare l’anticipo (quest’anno ha realizzato solo 1.38 intercetti per 90 minuti, un dato che lo avvicina a Thiago Motta).
Questo è forse l’aspetto più problematico del suo gioco se si prova ad immaginarlo nella Fiorentina di Pioli, un allenatore che ama giocare molto in verticale anche senza il pallone e difendersi aggredendo l’avversario. Per adattarsi alle idee del suo nuovo allenatore, Veretout dovrà essere meno ansioso di dimostrare le sue qualità con il pallone tra i piedi, aumentando il volume del proprio gioco e abbassando l’ambizione media, ma soprattutto dovrà muoversi di più senza palla, sia per ricevere tra le linee sia per aggredire il possesso avversario.
Veretout è ancora molto giovane e non ha mai avuto infortuni gravi. Per rilanciarlo forse basterà fare leva sulle sue motivazioni, lavorare sulla sua crescita mentale prima ancora che fisica (anzi, lì forse servirebbe una decrescita…) e dargli quelle responsabilità tecniche che lui sembra volere e che nella Fiorentina di oggi non sarebbero in molti a potersi prendere al posto suo. Dovrà essere bravo Pioli a riuscirci, ma anche Veretout dovrà dimostrarsi all’altezza della situazione.
Coccodrilli - Massimo Maccarone al Brisbane Roar
di Marco d'Ottavi
[Martedì 25, pomeriggio]
Addio Massimo Maccarone.
Big Mac.
Ci mancherai,
non tantissimo a dire il vero, ma un po’ sì.
Ti abbiamo voluto bene come ad uno zio
che non è veramente uno zio, ma l’hai sempre chiamato così
e ora lo vedi due o tre volte l’anno
e in quelle occasioni è sempre gentile, super simpatico, ti regala pure un gol a San Siro
con una mina da trenta metri.
Ti abbiamo rispettato Macca,
- che grazie a Wikipedia ora so essere un tuo brutto soprannome-
ogni anno in Serie A è stato un anno buono
o almeno non cattivo:
a Parma, a Siena, a Palermo, a Genova sponda blucerchiata
infine ad Empoli, tuo grande amore.
Ogni stagione una manciata di gol: 6, 9, 13, 10 e così via.
Mai troppi, ma mai neanche pochi, chissà perché.
Forse non volevi strafare, mi sei sembrato sempre un tipo riservato.
Ti abbiamo fatto l’asta al Fantacalcio ogni anno
e tu ogni volta ci hai fatto vincere almeno una partita,
due partite,
l’anno con Giampaolo mi sa che hai fatto vincere pure qualche campionato,
e pensa che gioia vincere un Fantacalcio coi gol tuoi.
Che poi, Max, posso chiamarti Max?
come facevi a segnare?
Non eri forte di testa, non eri forte di piede,
non eri velocissimo, né un rapace,
eppure.
I tuoi tagli erano sempre fatti bene,
sapevi approfittare di ogni difensore distratto
che magari pensava alla ragazza sola in casa.
Ti porti dietro un bottino di 79 gol in serie A,
più altri sparsi tra Serie B,
dove eri un Re
e Premier League,
dove non è andata benissimo.
Puoi raccontare ai nipoti anche di due presenze in Nazionale,
ancor prima di arrivare nella massima serie,
forse un record parecchio strano,
ma l’unica cosa strana di te,
che alla fine eri una prima punta normale,
senza cazzi o mazzi.
Ci siamo sempre chiesti, Big Mac,
perché tutti hanno avuto un’occasione e tu no, zero,
a meno che non vuoi considerare il Middlesbrough un’occasione,
che non so neanche come si scrive e ho dovuto cercare su Google,
e anche tu devi se vuoi scrivere agli amici che hai giocato nel Middlesbrough.
Ma forse le occasioni non arrivano per quelli come te,
attaccanti normali, che san fare tutto
o forse niente.
Dovresti spiegarci - poi - perché te ne vai con una lettera,
anche tu,
figlio di un calcio che non c’è più.
Non dovresti scrivere lettere, ma rimanere,
bere altre birre dopo un gol,
fare coppia con attaccanti più scarsi di te,
Pucciarelli, Mchedlidze, Thiam, Marilungo.
Diventare sempre più saggio, magro,
la barba brizzolata.
Eppure non ci disperiamo, Massimo,
perché alla fine tutto ha un senso,
anche il tuo addio alla serie A.
Un senso bello rotondo come la tua testa, che li hai persi presto i capelli eh?
Sei stato un nome ricorrente nelle domeniche annoiate,
in cui persino il tabellino dell’Empoli era una cosa,
ma ora è tempo di andare ai Brisbane Roar
che una squadra con l’onomatopea è già qualcosa.
Perché sì, non l’avremmo detto, te ne vai in Australia,
non a cercar moglie illibata,
ma a divertirti, finalmente.
E allora non prendere la sfida seriamente, che il posto è bello.
Affittati un camper e vai a vedere la barriera corallina,
Sidney, i canguri.
Fatti un giro intorno all’Ayers Rock, ma senza pensare all’Empoli
che lo sappiamo che hai dato tutto.
Ma prima di andartene, Maccarone,
ricordati che t’abbiamo voluto un po’ di bene,
per quel che contava nella tua eterna lotta
per la salvezza.
Mendy è la parola fine sull’esperimento falsi terzini
di Dario Saltari
[Martedì 25, mattina]
Siamo al 25 luglio e il Manchester City ha già speso più di 240 milioni di euro sul mercato, considerando solo il prezzo dei cartellini. Di questi, più della metà per acquistare terzini, il ruolo che il club inglese ha voluto rinnovare di più: fuori Kolarov, Clichy e Zabaleta (da cui ha ricavato complessivamente 5 milioni di euro); dentro Walker, Danilo e Mendy (spesa totale: 138,5 milioni di euro). Con grande sforzo finanziario, insomma, il Manchester City ha cambiato totalmente i propri connotati sull’esterno basso, passando da tre giocatori molto associativi, tecnici ed esperti, a tre giocatori dalla fisicità straripante ma dal gioco piuttosto meccanico.
Mendy e Walker, che al momento sembrano i probabili titolari nell’undici titolare di Guardiola, forniranno ai “citizens” una coppia di centometristi impossibile da superare in velocità che migliorerà sensibilmente la solidità difensiva in fase di transizione negativa e nei duelli aerei - due dei principali talloni d’Achille del Manchester City di quest’anno.
Ma con Mendy, un giocatore a volte troppo istintivo nelle letture difensive, i “citizens” miglioreranno soprattutto in proiezione offensiva. Il terzino francese è un altro ottimo crossatore ma soprattutto un incubo per i terzini avversari che devono difendere l’ampiezza dal suo lato. Quest’anno, con Jardim, ha sviluppato un gioco molto spregiudicato che lo portava ad alzarsi sopra la linea del pallone contemporaneamente ad altri cinque giocatori.
Per non parlare del suo ruolo in transizione, con una conduzione palla che non faceva crescere più l’erba dietro di sé.
Mendy, come Walker dall’altra parte, dovrà vedersi dalla concorrenza di Danilo, che nasce come terzino destro ma che nella sua carriera ha occasionalmente giocato anche a sinistra. Il brasiliano sa trattare meglio la palla, e sa usare anche discretamente il suo piede debole soprattutto per crossare, ma non ha letture migliori di Mendy, né col pallone né senza. Danilo non è un regista occulto, insomma, e non sembra che lo possa diventare in tempi brevi. Guardiola potrebbe preferirlo solo per non attaccare allo stesso modo con entrambi i terzini, con Danilo che potrebbe rientrare sul piede forte per puntare l’area o cambiare gioco per aggredire il lato debole.
In ogni caso, quindi, i nuovi acquisti segnano probabilmente anche il fallimento definitivo dell’esperimento falsi terzini al City, che comunque aveva già iniziato a dare segni di cattiva salute nella seconda metà della scorsa stagione. È ovviamente presto per fare previsioni sulla prossima stagione, ma è difficile pensare che Guardiola si privi della conduzione palla di questi due giocatori per cercare di lavorare sulla loro tecnica non di primissimo livello e sulla creatività appena abbozzata. Molto probabilmente, quindi, dall’anno prossimo il City occuperà i corridoi verticali in maniera più tradizionale, lasciando quelli esterni ai terzini e quelli intermedi alle ali.
Non che questa sia di per sé una cattiva notizia. Guardiola ha una capacità di adattarsi al contesto spesso sottovalutata dai suoi critici e il Manchester City avrebbe comunque dovuto rinnovare il suo parco terzini per questioni anagrafiche. Alla fine si è assicurato tre tra i migliori terzini che c’erano sulla piazza e non è certo colpa sua se è sempre più difficile trovare terzini in grado di fare le mezzali con la stessa qualità, come Alaba e Lahm.
Coccodrilli - Gonzalo Rodríguez al San Lorenzo
di Fabrizio Gabrielli
[Lunedì 24, pomeriggio]
Polvere siamo e polvere torneremo. Ed è a far parte del pulviscolo che s’innalza dagli spalti del Pedro Bidegain quando si solleva, a domeniche alterne, il Ciclone che è tornato Gonzalo “El Mariscal” Rodríguez dopo un lustro di Serie A, Fiorentina, Firenze: più di duecento partite, venticinque gol, sei assist. Ma soprattutto cinque anni spesi nel tentativo, al fin riuscito, di dar vita alla crasi più efficace tra l’eleganza rinascimentale e il pragmatismo dell’asador costretto a barcamenarsi con la legna contata. Hallelujah.
Lo abbiamo accolto imberbe, spettinato dal vento della vita, negli occhi la malinconia tanguera dei reietti, dei derubati, dei vilipesi: dopo otto anni di Liga era retrocesso, com’era successo? Non sapeva neppure più chi fosse, aveva bisogno di una rinascita.
Da un controllo più approfondito del necessario, che mi ha fatto arrivare a chattare per interposta persona con il magazziniere della Fiorentina, si evince che quella usata per la presentazione nel 2012 sia l’unica maglia mai stampata con il nome Rodríguez al posto del più familiare Gonzalo.
Era approdato in Europa con l’abito buono delle promesse che figurati se non vengono mantenute, paracadutato nella bambagia accogliente di un Villarreal che sembrava una colonia argentina. C’erano Battaglia, “el Vasco” Arrabuarrena, c’era Riquelme. Era il 2004 e vinse subito il suo primo trofeo, anche se era l’Intertoto, segnando un gol nella finale d’andata. Quindi era questa l’Europa? Un posto dove potevi insaccare di testa e fare la linguaccia?
Forte negli inserimenti - come nella miglior tradizione dei centrali difensivi argentini -, mai domo nelle chiusure ma con in più una certa aura distinta nel possesso, un’abilità innata nei calci da fermo e un insano amore per la giocata euclidea, anche se a braccetto con il brivido: la Fiorentina, spendendo solo 7 milioni di euro, si era aggiudicata uno dei centrali che si sarebbe messo più in mostra nell’ultimo quinquennio di Serie A.
Aveva già deciso di mollare il Vecchio Continente, dopo la retrocessione del Submarino Amarillo, nel 2012: aveva venduto casa e automobile, con qualcuno s’era già dato appuntamento a Esquina Homero Manzi, l’epicentro pulsante del barrio Boedo.
Poi arrivò la Fiorentina.
Quando lo disse al padre, hincha del San Lorenzo, «vedi pà che no, non torno», questo - uno di quei tifosi che vestono i colori della squadra amata anche al pranzo della domenica - gli aveva risposto «e adesso dove lo andiamo a cercare un altro centrale, che stiamo senza?».
In Italia Gonzalo è diventato un calciatore capace di risultare fondamentale per la sua squadra, ha affinato la fase di conduzione e uscita dalla difesa palla al piede, ha fatto valere le sue doti tecniche e si è guadagnato i galloni del caudillo: ha difeso i colori viola trovando il tempo, intanto, di difendere anche quelli del San Lorenzo. Era destino, si vede.
Adios, Gonzalo: per superare il trauma del distacco, come si dice, lanceremo il cuore oltre l’ostacolo, come facevi tu con il pallone durante una transizione offensiva, saltellando sul piede d’appoggio. Ci mancheranno i tuoi lanci arcobaleno lunghi di più di 40 metri (ma quanti ne hai collezionati, Gonzalo? Solo nel primo anno italiano ne ho contati 24, ma come ci riuscivi, Gonzalo?).
Dovremo imparare a sopravvivere alle tue chiusure perentorie, da gaucho che afferra al lazo le bestie amiche nella Pampa, alla maniera in cui ti immolavi, incorruttibile come un esperto giocatore di truco, per ridurre alla monocromaticità il mondo variopinto degli attaccanti.
Ci hai insegnato le gioie nascoste di un Sud lontano, ce lo hai riavvicinato come fa il camallo con il gozzo riannodandolo alla bitta: grazie per averci insegnato l’esultanza della cañita voladora, non lo dimenticheremo mai.
Ora che sei nella tua Terra, e non dovrai più preoccuparti se l’erboristeria sotto casa avrà o non avrà la yerba mate che preferisci per te e per chi ti è più caro, non dimenticarti di noi. Anche se non tutti siamo stati tifosi della Fiorentina, in qualche modo ti abbiamo voluto bene, e ti ricorderemo per sempre così, in concerto sul patio di una villa rinascimentale.
O mentre fai le corna dopo uno di quei gol così decisamente Gonzalo Rodríguez.
Ciao, Gonzalo. Alle tre del mattino, a vederti giocare contro il Gimnasia y Esgrima, ci saremo sempre.
Il senso di Kolarov alla Roma
di Daniele Manusia
[Lunedì 24, mattina]
Anche se il clima intorno alla Roma e a Monchi è condizionato soprattutto dalle cessioni eccellenti di Rüdiger, Salah e Paredes, quello di Kolarov è il settimo acquisto in questa sessione di mercato. Non bisogna compiere grandi sforzi di memoria per ricordare quella settimana in cui la Roma, sconfitta da Lione, Napoli e Lazio, ha mostrato di avere bisogno di allungare la propria rosa cercando di non abbassare la qualità media.
L’acquisto di Kolarov, come quello di Gonalons e quello di Hector Moreno, si spiegano anzitutto così. Kolarov sarà titolare anche al ritorno di Emerson Palmieri? Serve solo per pochi mesi? Farà il centrale di sinistra nella difesa a 4? La prima cosa da dire di fronte a un acquisto del genere è che una squadra di calcio non è solo gli 11 titolari, ma un gruppo di alto livello in grado di colmare eventuali assenze e, nella migliore delle ipotesi, competere internamente per un posto in campo.
L’acquisto di Aleksandar Kolarov è stato interpretato in maniera conflittuale dal pubblico romanista anche per ragioni strettamente emotive. Ma al di là dei codici con cui ogni tifoso interpreta la realtà della propria squadra (dopo quante stagioni la macchia della rivalità è indelebile? Per quale tipo di giocatore si è disposti a fare eccezioni? Per un fenomeno? Per nessuno?) è difficile non vedere immediatamente il senso calcistico del suo acquisto. Anzi, semmai, si può notare la resistenza di Monchi alle pressioni, che sicuramente qualcuno gli avrà anticipato mentre stava portando avanti la trattativa.
Kolarov sarà anche stato laziale, non sarà più nel pieno dei suoi anni e sicuramente non è neanche il sostituto di Salah, ma è un giocatore di indubbio valore. Quest’anno Guardiola sembra intenzionato a investire molto sulle fasce e forse anche il rientro di Kompany (che la scorsa stagione tra un infortunio e l’altro ha giocato pochissimo prima di aprile) al centro della difesa hanno spinto il serbo ad accettare una nuova offerta, ma la scorsa stagione - a 31 anni - è stato il quinto giocatore del Manchester City ad aver giocato più minuti.
Basta poco per descrivere le qualità di Kolarov. A cominciare dalla capacità di calcio con il sinistro (anche su punizione): quei tagli di campo in diagonale abbastanza potenti da far percorrere molti metri in avanti alla squadra senza essere intercettati dalla difesa, ma anche chirurgici in quanto a precisione.
Ve ne lascio tre in rapida sequenza, letteralmente uno meglio dell’altro.
Il primo lancio galleggia come un frisbee per la lunghezza di una metà campo. Kolarov è terzino, regista e sceneggiatore: nel senso che con un lancio ha scritto la successiva scena del duello tra Sterling e Mendy (vince Mendy).
Il secondo lancio è più veloce, verticale e profondo. Atterra sul piede di Sané come una pallina da golf sul green.
Lancio box-to-box: Kolarov da un’area di rigore arriva al limite dell’area opposta. Complice anche la velocità di Sterling (e forse l’indecisione del difensore), ma tanto vale dirlo chiaramente: il lancio di Kolarov ha decisamente più senso se dalla parte opposta del campo c’è un giocatore eccezionale nell’uno contro uno. E se, come si legge, Monchi sta cercando un giocatore di questo tipo, allora, bingo no?
Nella partita contro il Sunderland da cui è estratto quest’ultimo lancio, come in molte partite lo scorso anno, Kolarov ha giocato come centrale di sinistra in una difesa a 4. L’età di Kolarov si nota soprattutto nelle corse all’indietro e il singolo momento di gioco in cui va maggiormente in difficoltà è quando deve recuperare su un avversario più giovane; ma Kolarov è anche un difensore puro molto aggressivo che usa molto la scivolata e all’occorrenza sa marcare anche da centrale.
Difensivamente è comunque meglio da terzino che al centro, per la rigidità fisica ma anche per la tecnica non pulitissima nell’uno contro uno difensivo, ma è in ogni caso più adatto a un sistema che difende in avanti. È attento ad accorciare la distanza sull’uomo e prova quasi sempre l’intervento, essendo però spesso falloso: anche per questo è meglio difendere lontano dalla propria porta. Tutto sommato arriva in ottima forma fisica e se affiancato a un altro centrale veloce nelle coperture (Manolas) non sfigurerebbe al centro.
Certo, in una squadra offensiva come dovrebbe essere la Roma 2017/18 i terzini potrebbero arrivare spesso al cross. Anche in quelle situazioni il sinistro di Kolarov può fare la differenza: i suoi cross sono sempre tesi e di solito guarda prima di calciare, cerca il centravanti anche con palle basse sul primo palo - un 9 fisico come Dzeko potrebbe arrivare tranquillamente in vantaggio, anche se va detto che Dzeko va quasi sempre sul secondo palo. Lo stile dei cross di Kolarov, la forza che imprime alla palla, le traiettorie taglienti, fanno sì che non sia facilissimo trasformarli in rete e anche in questo caso dipenderà dal gioco di squadra (i movimenti che creeranno lo spazio per i cross e i tiri) e dalla qualità dei compagni. Ma insomma, difficilmente un terzino può essere decisivo da solo.
Insomma, rispetto ai tempi della Lazio, il Kolarov tornato in Serie A è atleticamente inferiore ma su tutto il resto ha ancora qualcosa da dire. Forse molto. Ed è anche capitato nella squadra giusta per le sue caratteristiche. Non resta che convincere quei tifosi che gli rimproverano di aver indossato la maglia “sbagliata”, facendo avere al campo da calcio l’ultima parola.
Cosa si può fare con 222 milioni di euro
di Marco d'Ottavi
[venerdì 21, pomeriggio]
Il Paris Saint Germain sembrerebbe intenzionato a pagare la clausola rescissoria da 222 milioni di Euro che lega Neymar al Barcellona. A parte la sospetta ricorrenza del numero 2 - che indica sia il contrasto, la polarità, sia il tentativo di conciliazione - l’importo farebbe immediatamente schizzare Neymar in cima alla lista dei trasferimento più costosi della storia del calcio, doppiando praticamente l’attuale primato di Paul Pogba. Capite da voi che tutto il gioco cambierebbe prospettiva, il cartellino dei migliori giocatori si avvicinerebbe pericolosamente a quelle cifre, tagliando così ancora più fuori chi non può permettersi certe spese.
Ecco appunto, parlando di spese e volendo essere moralisti fino ad un certo punto: è giusto spendere 222 milioni per un calciatore? Anche se è uno dei più forti del mondo, dei più riconoscibili e sicuramente il più adatto a diventare un’enorme prodotto del marketing dei prossimi anni. Forse sì, ma bisognerebbe chiedersi anche: quanti modi migliori ci sono per spendere 222 milioni di Euro?
Guardiola poteva comprare altri 7 terzini
Considerando una spesa media di 40 milioni a terzino forte (50 per Walker, 30 per Danilo), Guardiola con 222 milioni avrebbe potuto comprare 5 terzini già pronti (così tanto per dire qualche nome: Mendy, Guerreiro, Jordi Alba, Marcos Alonso, Rose) per una spesa totale di circa 200 milioni, più usare i restanti 22 per due terzini di prospettiva o scarsi, dipende dalle esigenze dello stesso Guardiola.
Girare il vostro personale Star Wars
Star Wars VII: Il risveglio della forza è costato 245 milioni di Dollari. Con 222 milioni di Euro chi vuole potrebbe organizzare la produzione del proprio Star Wars. Scegliersi gli attori, supervisionare la trama, farci divertire. Poi magari non potreste chiamarlo proprio Star Wars, a meno che non volete girare tutti gli incassi e il vostro sangue alla Disney che ne possiede i diritti, ma uno in cuor suo lo sa che ha fatto un nuovo capitolo di Star Wars e con gli amici fai una bellissima figura. Per dire potreste anche chiamarlo Neymar Wars.
Darli a Gasperini
Per vedere l’Atalanta conquistare il mondo con Petagna.
Comprare l’appartamento più costoso di New York
L’appartamento più costoso mai venduto a New York, finora, è costato poco oltre i 100 milioni di dollari. Ma c’è un nuovo grattacielo in costruzione al numero 220 di Central Park South che mette in dubbio questo primato. Al suo interno si trova un appartamento, che unisce 50esimo e 51esimo piano più una parte di altri due, ed è in vendita per 250 milioni di dollari (216.214.000 milioni di euro).
Vi ricorda niente questa cosa?
P.S.: dalla vostra abilità di trattare con gli agenti immobiliari dipende per quanto tempo potrete pagare bollette e condominio. Comunque non molto.
Comprarci due Pogba
Per poi rispondere alla domanda, meglio un Neymar o due Pogba?
Gettare un sassolino nello stagno
Sul sito dell’istituto Bruno Leoni è possibile scaricare il contatore del debito pubblico da usare come screensaver se avete bisogno di qualcosa che vi metta un po’ di ansia. Quello che potete fare con 222 milioni è regalarli allo Stato Italiano per sentirsi veramente parte di una comunità.
Abbonamento a Netflix
Considerando Netflix come la forma di intrattenimento più in voga tra i giovani, per offerta in rapporto ai costi, con 222 milioni di euro potrete risolvere la vostra necessità di documentari su casi giudiziari americani, film non poi così belli e Serie TV sempre più di nicchia. Per quanto riguarda l’abbonamento potete scegliere: quello per una persona costa 7,99€ al mese permettendovi di coprirne 27784730. Visto che probabilmente ne voi ne la terra durerete così tanto potete scegliere l’abbonamento per quattro persone, così da fare felici altre tre persone. Questa opzione costa 11,99€ al mese e con 222 milioni ne potrete pagare 18515429.
22 copie della Bibbia di Gutenberg
La Bibbia di Gutenberg o «Bibbia a quarantadue linee» è il primo libro stampato in Europa con la tecnica dei caratteri mobili. Dei 180 esemplari originali ne rimangono 48, sparsi sulla terra. Il loro valore commerciale si aggira intorno ai 10 milioni. Facendo un rapido calcolo potete permettervene 22. Personalmente vi consiglio di provare a prendere:
- Quella di Bill Gates, che potrebbe però costare di più in quanto Bibbia di Gutenberg di Gates.
- La copia pergamena della Biblioteca apostolica vaticana.
- Una delle due copie presenti al Museo Gutenberg a Magonza.
Comprare Mercatone Uno
Se siete dei nostalgici, Mercatone Uno è in amministrazione controllata e il 15 Febbraio 2017 è uscito un bando che mette in vendita l’intero compendio dei 78 punti vendita, comprensivo dei 23 immobili di proprietà del Gruppo per 220 milioni di Euro.
Potrebbe non essere un’ottima idea, ma quei soldi non sono sufficienti per comprare Ikea, bisognerà quindi accontentarsi.
Comprare 222 milioni di Kinder Bueno alle macchinette del vostro ufficio
Almeno nel nostro si può.
Comprare Neymar
Se ci pensate è una scelta più logica di quanto sembri.
Andrés Guardado + Quique Setién = <3
di Emanuele Mongiardo
[venerdì 21, mattina]
Il pazzo mercato degli allenatori della Liga (che per un attimo sembrava dovesse portare De Zerbi al Las Palmas) ha determinato anche quello dei calciatori, con i direttori sportivi intenti a soddisfare le esigenze dei propri tecnici.
Una delle novità più interessanti è l'approdo al Betis di Quique Setién, ex tecnico della rivelazione Las Palmas. In Andalusia il tecnico cantabrico proverà a impiantare uno dei sistemi di gioco più eccitanti degli ultimi anni, simile per molti principi al Napoli di Sarri: creazione continua di triangoli e ricerca della superiorità numerica grazie al moto perpetuo di ogni suo interprete. Uno spartito perfetto per le caratteristiche di Dani Ceballos, ceduto però del Real Madrid.
Proprio per rimpiazzare il suo numero dieci, la dirigenza betica ha deciso di puntare 2 milioni su Andres Guardado (che ne ha ereditato anche il numero di maglia), di ritorno in Liga dopo quattro stagioni al PSV.
Dopo la sua ultima annata valenciana, Guardado ha ridefinito totalmente il proprio ruolo e la propria concezione di calcio. A Valencia era un'ala tecnica ma senza la necessaria esplosività per sopravvivere, con un metro e settanta scarso di altezza. In Eredivisie prima e in nazionale messicana poi si è trasformato invece in un centrocampista capace di giocare con la stessa efficacia sia un centrocampo a due che in uno a tre.
Guardado è riuscito a trasferire il proprio raffinato controllo di palla in mezzo al campo, zona in cui creare la superiorità numerica può essere decisivo per arrivare in porta. “Il Principito” è un centrocampista tecnicamente sopra la media e dalle spiccate doti associative, in grado per questo di influenzare profondamente il sistema di gioco in cui è coinvolto.
In particolare sarà interessante capire dove lo collocherà Setién, se da vertice basso di centrocampo, come Roque Mesa nel Las Palmas, o da mezzala con licenza di occupare la trequarti, alla Jonathan Viera. Negli ultimi anni Guardado ha dimostrato di possedere le qualità per interpretare entrambi i ruoli.
Da vertice basso, come giocava nel PSV, sa muoversi orizzontalmente per offrire un appoggio alla difesa, ricevendo anche tra i centrali in salida lavolpiana e nello spazio tra difensore e terzino. Soprattutto ha dimostrato di possedere una buona propensione sia al gioco corto che al gioco lungo. Nel primo caso è in grado di superare le linee di pressione avversarie con passaggi in verticale. La qualità nel primo controllo gli permette inoltre di attrarre avversari, aprendo spazi alle loro spalle, dove possono inserirsi i compagni da servire.
Col possesso attira fuori posizione l'avversario, che lascia un buco alle proprie spalle. Guardado lo legge e serve l'inserimento del compagno.
Per quanto riguarda invece il gioco lungo, riesce a combinare la sensibilità del sinistro con l’intelligenza nelle letture dei movimenti di compagni e avversari. Guardado intuisce in anticipo i tagli delle ali, che riesce a premiare anche col lanci di quaranta metri, nonché le sovrapposizioni dei terzini, spesso lanciati con palloni alle spalle della linea difensiva.
Se non fosse per il suo fisico minuto sarebbe un regista perfetto. La fragilità fisica resta un limite quasi insormontabile, che impedisce a Guardado di sviluppare il proprio gioco spalle alla porta, essenziale per il regista di un centrocampo a tre. Forse potrebbe dare il meglio da mezzala, più libero di giocare fronte alla porta, puntare gli avversari e servire filtranti.
Il calcio secondo Andres Guardado. Tunnel sul diretto marcatore e palla alle spalle della difesa per Depay che, come in un presagio funebre sulla sua carriera, sbaglia il pallonetto.
In ogni caso, il messicano si aggiunge ai centrocampisti di culto che ogni anno la Liga riesce a proporre: la sua storia tecnica e tattica lo rende già uno dei centrocampista più interessanti del campionato spagnolo, almeno in prospettiva. Con lui il progetto Betis, già uno dei potenzialmente più eccitanti della prossima stagione di Liga, si arricchisce ulteriormente.
3 motivi per cui Guardiola vuole spendere 30 milioni per comprare Danilo (il secondo terzino destro in pochi giorni)
di Daniele V. Morrone
[giovedì 20, pomeriggio]
Guardiola è passato in una settimana dal non avere terzini destri in squadra ad averne probabilmente due, Kyle Walker e Danilo (quest'ultimo non ancora ufficializzato, però), che dovrebbero essere costati complessivamente circa 89 milioni di euro. Se per Walker, nonostante il prezzo incredibilmente alto (54 milioni di sterline), che qualcuno ha usato per dire che la Premier League ha perso la testa, si poteva capire l’idea alla base della scelta (normalizzazione del ruolo per adattarsi al gioco britannico) più difficile la risposta è per Danilo. Perché comprare un altro terzino destro a quelle cifre appena dopo aver comprato il titolare?
Ho provato a trovare una risposta diversa dal “perché possono” per provare a dare un senso ai 30 milioni che il City vorrebbe spendere per Danilo.
Per le cotte che Guardiola ha verso i giocatori che lo hanno messo in difficoltà
Guardiola nelle ore di video per prepararsi alle partite finisce per rispettare talmente tanto gli avversari da rasentare la cotta adolescenziale. Sul mercato spesso queste infatuazioni si traducono in tentativi di comprare i giocatori che in passato lo hanno messo in difficoltà, che lo hanno impressionato sotto i suoi occhi. C’è un filo diretto che lega tutti gli acquisti di questo mercato (Walker, Bernardo Silva, Ederson): hanno giocato contro Guardiola negli ultimi tre anni.
Perché Guardiola pensa in realtà di poterlo schierare anche a sinistra
Il City con Danilo pensa di aver risolto non uno ma due ruoli come minimo: L’ha pagato 30 mln perché pur come riserva pensa di poterlo schierare sia a destra che a sinistra durante la stagione. Sono quindi 15 milioni a ruolo. (anche se, va detto, il City spinge da inizio mercato per comprare un terzino sinistro, uno tra Rose e Mendy).
Per farne un regista
Dopo averci provato fallendo con Zabaleta, Guardiola ha visto in Danilo le caratteristiche perfette per plasmare un nuovo falso terzino che faccia da regista mascherato della squadra. Un terzino che, come Lahm, possa anche essere spostato direttamente a centrocampo. Rispetto a Zabaleta è più tecnico, preciso nei passaggi (86% contro 82%) e nel lavoro difensivo (3 contrasti e 2.4 intercetti a partita).
Cosa è successo davvero con Cassano
di Mattia Pianezzi
[Giovedì 20, mattina]
https://twitter.com/HellasVeronaFC/status/887348800599330816
Cassano aveva prenotato un volo per le vacanze e non sapeva di poterlo spostare pagando una piccola penale utilizzando le sue carte di credito.
Cassano legge molto su sé stesso: da quando ha letto ripetutamente che è un esteta, ha deciso di diventarlo nella vita vera. L’arte per l’arte, il gesto per il gesto: mi ritiro, ma giusto per ritirarmi; poi torno a giocare.
Cassano, arrivato a Verona, ha parlato con Romulo che gli ha raccontato quel suo sogno terribile e ha trovato una scatola blu sul letto del suo albergo.
Cassano, arrivato a Verona, ha visto Cerci e Pazzini e ha pensato di essere stato fregato ed essere finito in un turno di qualificazione per lo Star Sixes.
Cassano ha trovato la Madama Butterfly di Bignamini e Zeffirelli, che è andato a vedere con la moglie Carolina il 13 luglio, eccessiva, barocca, troppo televisiva, e col suo gesto ha voluto mandare un chiaro segnale ai programmatori del Festival lirico areniano.
Cassano non vuole giocare un derby contro il suo caro amico Radovanovic, in cui “caro amico” sta per “persona che non vorrei mai mi marcasse neanche scherzando”.
Cassano e Pazzini non si stanno davvero simpatici, sono Boccadoro e Narciso: il primo matto e ribelle, il secondo introspettivo, che adora la pesca e la quiete. Ispirato da una visione de La grande bellezza, il 18 luglio Cassano ha capito che non aveva più tempo di fare ciò che non voleva davvero fare, e ha deciso che non ha voglia di fare gli assist per Pazzini, di nuovo, come quando erano ragazzetti. Poi ha scoperto che c’è anche Torregrossa che corre come un pazzo da lanciare a rete e alla fine che può sempre uscire a farsi le birre con Cerci, e gli va bene così. Solo, occhio al letto dell’Adige Anto’.
Cassano ha deciso di rescindere il contratto con il Verona per raggiungere Hugo Enyinnaya e partire con lui alla volta degli Stati Uniti d’America, per colonizzare la MLS e la CONCACAF Champions League, di cui saranno padrini per la stagione 2017/18.
Cassano sembra che se ne freghi delle famose “cassanate”, ma in realtà ci tiene perché sono la certificazione che il suo fanciullino interiore è ancora vivo. Quest’ultima “cassanata” è stata quindi dettata dall’orologio biologico, da una specie di crisi di mezza età, dalla paura per la morte.
Fabio Pecchia sa che in realtà Cassano è una persona normalissima e lontana dagli eccessi, anche discretamente acculturata e con una laurea triennale in scienze del turismo; sa che il personaggio Cassano è stato creato ad hoc per vendere più magliette di fantasisti scellerati, e quindi ricatta Fantantonio in seguito alla sua decisione di lasciare il calcio. Cassano si è trovato costretto ad accettare per non rivelare la sua identità segreta, anche se è contrariato perché aveva appena iniziato la rilettura della recherche.
Berenguer è un talento acerbo ma molto promettente
di Daniele V. Morrone
[Mercoledì 19, pomeriggio]
Dopo una lunga trattativa che sembrava dovesse portarlo al Napoli, Álex Berenguer è stato ceduto dall’Osasuna al Torino per 5.5 milioni più uno di bonus (e altri 1.5 in caso di futura rivendita all'Athletic Club: Berenguer proviene da un vivaio basco e l'Osasuna spera che un giorno il club di Bilbao possa provarci).
A 22 anni, e nonostante una stagione disastrosa in cui l’Osasuna è retrocesso da penultimo, Berenguer è sembrato all’altezza della massima lega spagnola, risultando tra l’altro il giocatore con il maggior numero di assist della sua squadra (6).
È un esterno veloce e di grande tecnica, questo lo sappiamo, ma si trova appena all’inizio del suo percorso di crescita e durante l’ultima stagione ha messo in mostra un’ottima visione di gioco e una raffinata tecnica di cross. Oltre a buone qualità senza il pallone, anche quando si tratta di difendere all’indietro.
Berenguer è un giocatore acerbo, che spesso forza le scelte e che non è sempre lucido in fase realizzativa.
La scorsa stagione è stato schierato sia da ala che da terzino, la sua conduzione del pallone e la sua tecnica nel saltare l’uomo suggeriscono che la posizione più adatta a lui sia l’esterno alto a sinistra, dove può ricevere il pallone sui piedi e puntare l’area di rigore a piede invertito.
Il suo dribbling è molto efficace: dei 4.7 tentati a partita, 2.2 sono andati a buon fine. Per capire l’eccezionalità di questo dato basti ricordare che nella Liga è stato il quinto giocatore per numero di dribbling totali tentati (149), dietro solo a Neymar, Messi, Carrasco e Muniain. Non male.
Come si adatterà Berenguer alla Serie A? Come si inserirà nel sistema di Mihajlovic? In teoria, il suo impegno senza palla si potrebbe sposare bene con un allenatore che chiede sempre un grosso impegno fisico a tutti i suoi giocatori in tutte le fasi del gioco. Ma da Berenguer ci aspettiamo soprattutto che metta in mostra il suo talento offensivo, che può arricchire il potenziale del Torino in avanti.
Sarà interessante vederlo crescere tra le durezze della Serie A, aggirare gli spigoli dei difensori per dare sostanza a un talento che sembra tanto immaturo quanto promettente.
Dawid Kownacki non è il nuovo Schick
di Dario Saltari
[Mercoledì 19, mattina]
Con l’acquisto di Dawid Kownacki dal Lech Poznan per quattro milioni di euro la Sampdoria prova a ripetere il miracolo avvenuto la scorsa stagione con Schick (al netto di complicazioni impreviste molto poco miracolose). E cioè: prendere ad un prezzo relativamente basso un giovane esploso in un campionato dell’Europa dell’est, con la speranza di poterlo rivendere a peso d’oro dopo solo una stagione. Non che sia facile.
Anche Schick è arrivato a 20 anni a Genova senza suscitare troppo clamore, pagato anche lui quattro milioni. Ma le somiglianze con Kownacki finiscono sostanzialmente qui. Se sperate di rivedere in Kownacki il tocco palla e le invenzioni nello stretto di Schick (o addirittura di Lewandowski, suo grande idolo) probabilmente rimarrete delusi.
Kownacki non è molto tecnico (anche confrontato a giocatori meno tecnici di Schick) ma è molto rapido e dinamico, sia col pallone che senza, nonostante sia alto 1.85 e abbia un fisico pesante. È un giocatore istintivo, con una grande progressione con il pallone, che si esalta quando può correre in spazi aperti.
La conformazione fisica e le caratteristiche tecniche gli hanno permesso di ricoprire con una buona efficacia tutte e tre i ruoli del tridente: prima punta, esterno destro e sinistro.
Kownacki ha una tecnica rudimentale e un primo controllo rozzo: spesso, quando deve giocare spalle alla porta preferisce giocare di prima per non perdere il pallone (fatto che ovviamente ne pregiudica spesso la precisione nelle letture) e più in generale sembra molto a disagio quando ha tempo per pensare e creare gioco.
Dal punto di vista della tecnica gli manca quell’aspetto spettacolare che può esaltare i tifosi (e che caratterizzava il gioco di Schick, ad esempio) ma Kownacki è un giocatore sorprendentemente efficace, soprattutto in termini realizzativi.
Si può utilizzare senza imbarazzi il luogo comune del “senso del gol”: riesce a segnare in qualsiasi modo, anche di testa, nonostante non dia mai l’impressione di colpire il pallone in maniera del tutto pulita. In tre anni di Lech Poznan Kownacki ha segnato 28 gol.
Paradossalmente, viste le sue caratteristiche, Kownacki potrebbe persino rivelarsi più adatto di Schick per il gioco della Sampdoria: Giampaolo richiede un grande dinamismo alle sue due punte, soprattutto senza il pallone, e il polacco potrebbe essere anche tecnicamente agevolato dal non coprire tutto il fronte d’attacco da solo.
Alla fine, se Kownacki riuscirà ad inserirsi nel gioco di Giampaolo e a portare i suoi gol anche in Serie A, nessun tifoso blucerchiato si lamenterà se non è in grado di segnare come Dennis Bergkamp. A volte, soprattutto se si parla di gol, quantità >>>> qualità.
Qual è l'attaccante più adatto al Milan? Belotti, Morata o Aubameyang?
di Federico Aquè
[Martedì 18, pomeriggio]
Gli acquisti di Leonardo Bonucci e Lucas Biglia hanno garantito il salto di qualità alla difesa e al centrocampo del Milan. Gli sforzi della società rossonera sono ora concentrati sull’attacco, per aggiungere un altro centravanti da affiancare ad André Silva e alzare il livello anche nel reparto avanzato. Gli obiettivi, svelati pubblicamente dall’amministratore delegato Marco Fassone, sono tre: Andrea Belotti, Álvaro Morata e Pierre-Emerick Aubameyang. Ma chi completerebbe meglio l’attacco del Milan?
Andrea Belotti
Belotti ha vissuto una stagione eccezionale che abbiamo approfondito in diversi aspetti: le anomalie statistiche, l’evoluzione del suo modo di giocare, l’intensità fuori controllo. Dei tre centravanti seguiti dal Milan, Belotti è il più giovane e quello con minore esperienza internazionale, che si limita alle 9 presenze con la maglia dell’Italia. L’attaccante del Torino è di conseguenza quello che offre meno garanzie sul proprio impatto in una squadra che punta a tornare ai vertici del calcio italiano ed europeo: ha definitivamente alzato il proprio livello di rendimento o l’ultima stagione è stata un unicum?
Belotti ha espresso le maggiori potenzialità soprattutto giocando da unica punta nel 4-3-3 utilizzato inizialmente da Sinisa Mihajlovic al Toro. Ha così imparato a essere autosufficiente, a caricarsi fisicamente la squadra sulle spalle calamitando i palloni in uscita dalla difesa o andandoseli a prendere in prima persona. Per i granata il proprio numero 9 è stato un riferimento fondamentale, una scorciatoia per risalire il campo in grado di produrre da solo situazioni vantaggiose pur senza avere la sensibilità tecnica dei centravanti d’élite, quelli, per intenderci, capaci di minacciare la porta avversaria ogni volta che toccano la palla.
Belotti si è comunque dimostrato a suo agio anche in sistemi che prevedono due attaccanti. Considerato l’investimento del Milan su André Silva, è molto probabile che la complementarità con l’attaccante portoghese rappresenti un criterio decisivo nella scelta della società rossonera. Belotti ha giocato prevalentemente in coppia con Ciro Immobile, sia al Torino che in Nazionale, interiorizzando i movimenti che Ventura chiede alle sue punte. Con André Silva l’attaccante del Toro formerebbe una delle coppie fisicamente più forti della Serie A, un incubo per i difensori avversari nel corpo a corpo. Nessuno dei due ha però le caratteristiche adatte a raccordare il gioco muovendosi tra le linee e la manovra rischierebbe così di svilupparsi in maniera quasi esclusiva sulle fasce.
Un attaccante con questa presenza in area non sarebbe poi una brutta idea...
In un Milan che ha alzato in maniera decisa il proprio tasso tecnico aggiungendo fonti di gioco della qualità di Bonucci (che con Belotti avrebbe un riferimento privilegiato per le sue verticalizzazioni) e Biglia, uno specialista nel definire la manovra come Calhanoglu e due terzini offensivi come Conti e Rodríguez, in grado di garantire un buon numero di cross a partita, le qualità di Belotti verrebbero forse esaltate in misura maggiore giocando da unico centravanti col compito di finalizzare quanto prodotto dai compagni.
Álvaro Morata
A 24 anni Morata ha già vinto più volte tutto ciò che un calciatore spera di vincere. Eppure la sua carriera non può dirsi “piena” come la sua bacheca potrebbe far supporre. A differenza di Belotti, l’attaccante spagnolo si è confrontato in maniera esclusiva con contesti altamente competitivi (Real Madrid e Juventus), ma pur dimostrando un’attitudine innata ad alzare il proprio livello nelle partite e nei momenti decisivi, non è mai riuscito a imporsi come titolare inamovibile.
Eppure a livello tecnico e fisico Morata è tra i centravanti più completi del panorama internazionale. È forte e veloce, dà profondità, ma sa anche farsi valere nei corpo a corpo; può segnare in tutti i modi e giocare sia al centro che sulle fasce, da unica punta o in coppia con un altro attaccante. Quando poi prende velocità in campo aperto è in grado di inclinare il campo e trasformare gli avversari in birilli.
Non c’è nemmeno bisogno di scomodare la famosa cavalcata contro il Bayern Monaco.
Il trasferimento al Milan rappresenterebbe l’incastro perfetto sotto molti punti di vista, sia per Morata, che avrebbe finalmente l’occasione di giocare da titolare in pianta stabile; sia per i rossoneri, che inserirebbero un giocatore di livello assoluto, ma non ancora affermato tra i migliori attaccanti del panorama internazionale, nell’età ideale per svilupparne il pieno potenziale e farlo diventare un punto fermo anche per il futuro.
Morata formerebbe con André Silva una coppia fisicamente fuori dal comune, difficilmente arginabile non solo per la loro forza fisica, ma anche per la varietà dei loro movimenti. Anche in questo caso Montella rinuncerebbe a un giocatore in grado di raccordare la manovra tra le linee – alla Juve la presenza di Tévez e Dybala toglieva a Morata questa responsabilità – e punterebbe tutto sui movimenti coordinati dei suoi attaccanti. Ma la capacità che hanno entrambi di occupare il centro tanto quanto le fasce con tagli verso l’esterno renderebbe la partnership tra Morata e André Silva forse anche più pericolosa di quella formata dallo stesso portoghese e Belotti.
Pierre-Emerick Aubameyang
Aubameyang è l’attaccante più affermato e, forse, quello che più di tutti condizionerebbe il modo di giocare del Milan. Le caratteristiche tecniche e fisiche del giocatore del Borussia Dortmund, che però se ne priverà molto difficilmente, sono state esaltate dal calcio verticale e veloce della Bundesliga. Nelle due stagioni con Thomas Tuchel in panchina, inoltre, Aubameyang ha completato la trasformazione in finalizzatore cominciata con Klopp dopo l’addio di Lewandowski.
Nel BVB di Tuchel, una squadra dalla manovra offensiva molto organizzata, l’influenza di Aubameyang si è sostanzialmente limitata alla finalizzazione del gioco, quasi sempre da dentro l’area, vista la facilità con cui il Dortmund riusciva a risalire il campo e a costruire occasioni da gol. Automaticamente la sua media si è impennata e il gabonese è diventato un attaccante da un gol a partita.
Ricerca della profondità in zone laterali e cross basso per Aubameyang: uno sviluppo ricorrente della manovra del Dortmund, che potrebbe replicarsi al Milan.
Proprio l’esito di questa trasformazione fa sorgere alcuni dubbi su una sua eventuale convivenza con André Silva, nonostante per caratteristiche Aubameyang non abbia problemi a partire lontano dalla porta. Sarà disposto a coordinarsi con un altro attaccante e a dividere con lui i palloni da girare in rete, rinunciando alle medie eccezionali tenute nelle ultime due stagioni? La risposta a questa domanda, a un livello più generale, sarà indicativa dello spirito con cui Aubameyang tornerebbe a Milano: vorrà essere trattato da stella della squadra (come sembrano suggerire le sue presunte richieste salariali) oppure la voglia di dimostrare l’errore fatto dai rossoneri quando lo lasciarono andare via prevarrà su tutto il resto?
Dalbert è il terzino giusto per il gioco di Spalletti?
di Francesco Lisanti
[Martedì 18, mattina]
Anche se la valutazione del suo cartellino continua a lievitare di stagione in stagione, seguendo la traiettoria che trasforma lo status di scommessa in quello di certezza, il Dalbert Henrique che l'Inter preleverebbe dal Nizza è rimasto fondamentalmente lo stesso giocatore sbarcato in seconda divisione portoghese soltanto tre anni e mezzo fa: «potente, veloce, e aggressivo in marcatura», per utilizzare le sue parole.
Dalbert non dispone di un talento naturale per il gioco di quelli che spiccano in mezzo ad altri venti professionisti: utilizza quasi esclusivamente il piede sinistro (anche se in conduzione se la cava con il destro) ma non è abbastanza sensibile né fluido per rubare la scena. Le accademie di Fluminense e Flamengo lo hanno reclutato e poi lasciato andare, ha galleggiato per un po’ tra le categorie inferiori del campionato carioca, finché il suo agente gli ha proposto la seconda divisione portoghese. «Non ci ho pensato due volte. O andavo lì, o facevo la fame in Brasile», ricorda.
Quando per allenarsi era costretto a percorrere in bici, andata e ritorno, i 12 chilometri che separano Barra Mansa da Volta Redonda, senza la prospettiva di uno stipendio, Dalbert stava per rinunciare al calcio. «Lei mi diceva che era quello che sapevo fare, che ero bravo e dovevo continuare a provarci. Mia nonna è stata la mia più grande motivazione».
Quando arriva in Europa, Dalbert ha appena compiuto vent’anni e soffre «gli infortuni, l’ambientamento, il freddo, il cibo». La società che lo ha scoperto, il piccolo Académico di Viseu, non paga gli stipendi regolarmente, e all’imbarazzo di non poter spedire denaro ai propri parenti in Brasile si aggiungono complicazioni che non era preparato ad affrontare: dopo tre mesi, gli scade il visto da turista con cui era atterrato in Portogallo e diventa un immigrato irregolare. Deve pagare di tasca sua per ottenere i permessi e si ritrova a ricominciare da zero quando ritrova il suo appartamento svuotato dopo una rapina.
La capacità di Dalbert di trovare continuamente nuovi stimoli, anche nell’amarezza e nello sconforto, è una costante nel suo percorso formativo. Nella stagione 2014/2015, la prima da titolare, emerge come miglior terzino sinistro della Segunda Liga. Nel 2015/2016, il Vitoria Guimarães lo acquista a parametro zero, lo fa esordire in seconda squadra e dopo due mesi lo chiama in prima squadra, dove diventa titolare insostituibile nel 4-4-2 di Sergio Conceicão. Nel 2016/2017, il Nizza riesce ad acquistarlo per la miseria di 2 milioni e lo utilizza per tutta la stagione, esterno di sinistra sia con la difesa a 4 che con la difesa a 5.
Il difficile impatto con il calcio professionistico (e con il Tecatito Corona)
In Portogallo migliora nei movimenti in linea con il reparto, che tendeva a seguire con una certa distrazione. In Francia, con Favre, impara a gestire il ritmo e il pallone ad elevate percentuali di possesso. Nell’ultima stagione ha tentato 45 passaggi ogni 90 minuti con l’87% di precisione, meglio di Ansaldi, Nagatomo e D’Ambrosio. Spalletti ha ripetuto in ogni occasione quanto sia indispensabile rendere l’Inter una squadra in grado di controllare il pallone per la maggior parte della partita, e Dalbert può certamente tornare utile in questo senso.
Dalbert non è un giocatore particolarmente creativo, non va oltre 0,5 tiri tentati e 0,8 passaggi-chiave (più o meno lo stesso contributo di Ansaldi e D’Ambrosio), ma è molto efficace in quasi tutto quello che fa. Completa il 55% dei dribbling (ne tenta 2,7), vince il 57% dei duelli aerei che ingaggia (2,5) e il 74% dei contrasti (ne tenta 3,7).
Il dribbling di Dalbert è rudimentale ma efficace: Mertens e Hysaj vengono sorpresi in anticipo e lasciati sul posto
La sua azione ideale, che esegue con tempismo innato sin da quando giocava nelle basse leghe brasiliane, prevede la ricezione in posizione molto allargata, lo scarico verso l’interno e l’immediata accelerazione per lasciare sul posto il marcatore. Nel Nizza ha funzionato molto bene l’intesa con Seri, in grado di addolcire i palloni non sempre educatissimi del brasiliano e restituirglieli sulla corsa. All’Inter troverebbe Borja Valero e João Mário, due rifinitori perfetti per combinare pausa e tensione verticale.
Quando è pressato negli spazi stretti rimane lucido, utilizzando entrambi i piedi se necessario, ma non è particolarmente delicato nell’esecuzione
Dalbert può tranquillamente percorrere tutta la fascia da una trequarti all’altra appoggiandosi di volta in volta sui riferimenti interni, una sensazione di potenza e freschezza atletica mai più restituita alle corsie laterali nerazzurre dopo il calo fisico di Maicon. È ragionevole pensare che possa migliorare il contributo alla fase realizzativa (3 assist quest’anno) ma non tanto da giustificarne un grosso investimento al fantacalcio - dove i nomi esotici ci mettono un attimo a sopravvalutarsi.
È molto rapido in accelerazione ma non velocissimo sulla lunga distanza, con un po’ di esperienza Raggi e Glik lo contengono
Negli anni romanisti, Sabatini e Spalletti hanno dimostrato la volontà e la capacità di lavorare su prospetti acerbi nella tecnica di base, da modellare nel senso tattico, ma già pronti sul piano dei mezzi atletici e della solidità mentale. Nell’uno contro uno difensivo, Dalbert è molto sicuro: mantiene gli occhi fissi sul pallone, ha la mobilità laterale per accompagnare l’uomo e il tempismo per tentare l’affondo.
In definitiva sembra un giocatore da subito in grado di assumersi le responsabilità in campo aperto che Spalletti tende a caricare sui difensori. In aggiunta, Dalbert promette di crescere ancora, insieme alla valutazione del suo cartellino.
Cosa perde e cosa guadagna la Lazio sostituendo Biglia con Lucas Leiva
di Daniele V. Morrone
[Lunedì 17, pomeriggio]
L’arrivo di Lucas Leiva pochi giorni dopo la partenza di Biglia potrebbe rappresentare, al netto della delusione dei tifosi della Lazio per la perdita di uno dei migliori interpreti del ruolo, una mossa vincente per Lotito, che alla fine si è portato a casa un giocatore di grande spessore con un’esperienza internazionale quasi equivalente. Lo scambio è anche un’operazione finanziaria intelligente, con la Lazio che ci guadagna circa 15 milioni di euro.
È vero, Lucas Leiva non era più un titolare nel Liverpool, ma anche l’anno scorso ha giocato a sufficienza per poter dire che sia sano fisicamente. In totale ha giocato una trentina di partite, ed è stato sempre titolare in FA Cup e Coppa di Lega, venendo anche schierato come difensore centrale all’occorrenza.
Fisicamente Lucas Leiva non è un giocatore banale. Gli anni in Premier gli hanno chiesto di spingere il fisico al massimo e pur apparendo più lento nel breve non è meno reattivo di Biglia e ugualmente deciso nei contrasti. Anche se è fisiologicamente in calo da un punto di vista fisico data l’età, Leiva è abituato a giocare ai ritmi della Premier da anni ed è probabile quindi che l’impatto con il calcio italiano gli sia facilitato di molto, soprattutto senza il pallone.
È stato il carisma ad evitargli il giallo?
Leiva è un buon recuperatore di palloni ma gioca meglio quando può andare sulle linee di passaggio o in pressione sull’uomo, provando il contrasto dopo lo stop avversario.
Le differenze maggiori tra Leiva e Biglia sorgono in fase di possesso. La tecnica di protezione del pallone e la visione di gioco di Biglia è superiore al brasiliano, e questo potrebbe rappresentare un problema nel contesto della squadra di Inzaghi. Biglia aveva un ruolo fondamentale nella Lazio: la sua precisione tecnica e la sua freddezza garantivano una distribuzione equilibrata ed erano le chiavi dello stile di gioco della squadra. Il centrocampista argentino arrivava a tentare 7 lanci lunghi a gara (tra verticalizzazioni e cambi di gioco) riuscendo almeno 5 volte nell’intento, un numero a cui Lucas Leiva non è mai sembrato in grado di arrivare, né come frequenza né come precisione.
Questo non vuol dire però che sia un giocatore totalmente privo di qualità.
Per capirci, Lucas Leiva non ha mai superato la media stagionale di un passaggio chiave a partita in carriera, mentre nella scorsa stagione Biglia garantiva alla Lazio 1.9 passaggi chiave a partita, quasi il doppio. Certo, non è detto che la precisione di Leiva non migliori con i ritmi inferiori della Serie A, ma la visione di gioco e la sensibilità tecnica di Biglia rimangono comunque migliori. In estrema sintesi: nella distribuzione nel corto non dovrebbero esserci particolari problemi (anche se bisognerà scordarsi la frequenza dei filtranti centrali taglia linee), ma Inzaghi dovrà comunque ridistribuire le responsabilità tecniche all'interno della squadra, soprattutto in impostazione, perché difficilmente Lucas Leiva riuscirà a sostenere la mole di lavoro e a replicare l'influenza tecnica che aveva Biglia sulla squadra.