Diciassette novembre duemiladodici
Il Santos batte il Figueirense a Vila Belmiro. Due a zero. C'è un ragazzo di diciannove anni che a un certo punto scatta. È veloce: prende il pallone lanciandosi avanti a un avversario, se ne lascia un altro alle spalle, supera un terzo in velocità, poi sul fondo rientra sul sinistro, lascia che il terzo rivale (quello di prima) gli scivoli vicino, beffato, mette dentro e fa segnare Rodriguez. Poi segna lui: ricevendo a destra, tirando la prima volta sul portiere e poi tirando ancora, di sinistro, sulla respinta. In ginocchio, sguardo verso l'alto. Neymar, per dire, quel giorno combina poco. Lui, invece, incanta.
A quei tempi stava incantando già da un po', Felipe Anderson. Da due anni guadagnava spazio in Brasile, e a novembre in tribuna c'è anche il milanista Ariedo Braida, con il taccuino in mano. Quando si siede, Braida si accorge di non essere solo, perché da quella parte c'è un uomo del Barcellona e dall'altra uno del Borussia Dortmund. Altri sono già stati lì, altri ci vanno di lì a poco.
Minuto 6:55, Felipe Anderson tira il freno a mano sulla riga di fondo e serve l'assist del vantaggio sul primo palo. Subito dopo con un po' di opportunismo segna il 2-0.
Non sembra esagerata la definizione di Pelé di quel periodo: «Felipe Anderson è giovane, ha qualità, e carattere, insieme a grandi margini di miglioramento. Ha tutti i requisiti per diventare una stella». C'è anche il Santos in comune con Pelè, ma le parole non sono spese in nome di un'appartenenza condivisa, sono una scommessa, un investimento. Come quello di Neymar, che prima ancora di diventare stella del Barcellona dice di lui: «In campo è il compagno ideale, sa come e dove passarti il pallone. A centrocampo può fare tutto».
Già a sei anni con la maglia del Companhia de Policia Militar Independente, figlio di un netturbino e di una casalinga e con altri quattro fratelli, cercava con pervicacia la svolta nel pallone per sé e per tutti. Anche per la sorella Juliana, che è la prima ad assisterlo in questa prima parte di carriera.
A 13 anni abbandonava la casa paterna perché con i sogni era un po' più in là: «La mia vita è stata difficile, era tosta per i miei arrivare a fine mese. Papà e mamma si massacravano per me e i miei quattro fratelli. Non avevamo mai un soldo in tasca, ci aiutavamo con i nostri amici poveri. Così ho imparato a svegliarmi ogni giorno per essere il migliore. Frequentavo una scuola per meno fortunati, la mia famiglia non poteva permettersi di farmi allenare con una buona squadra. Grazie a Dio un imprenditore si è accorto di me e mi ha portato al Santos nel 2007». Dio, pallone, gioventù, fatica, classe, e la sicurezza di uno che a diciassette anni aveva già segnato il suo primo gol da professionista, a febbraio del 2011, contro il Noroeste.
Otto luglio duemilatredici
Per la precisione, alle ore 7.23 del mattino. Felipe Anderson è appena atterrato, ha l'aria di chi ha ancora molto sonno, la cresta piegata da ore di volo e sa che c'è Maurizio Manzini ad aspettarlo per conto della Lazio.
Da Vila Belmiro a Fiumicino in otto mesi, un bel po' passati a trattare, da quando Igli Tare si è presentato armato di buone intenzioni e anche di soldi, senza passare per vie intermedie e taccuini e tribune. Bruciando gli altri sul tempo e sul denaro, che nel frattempo era diventato un problema: colpa della proprietà del calciatore, divisa equamente tra Santos e Doyen Sports, un fondo inglese di investimento che voleva guadagnarci di più, lasciarlo ancora un anno in Brasile per far lievitare il prezzo nonostante l'accordo tra i due club, il sì del giocatore e 7,5 milioni sul piatto (e 800mila euro a salire di ingaggio e un contratto fino al 2018).
Un intrigo risolto da Lotito che accusò il fondo di tenere il giocatore come uno schiavo, come sa fare quando la morale non è la sua, mentre il Santos provava goffamente a smentire ma non convinceva. Alla fine, il via libera, dopo una riunione con gli uomini della Doyen (“Banditi”, twittò e poi cancellò l'intermediario dell'operazione, Stefano Castagna, parlando del fondo inglese). Non è gennaio, come poteva essere se non ci fossero state le resistenze già dette, ma Anderson è a Roma e Lotito ha tirato fuori soldi che ne fanno il terzo investimento della sua era, dopo Zarate (23 milioni) e Hernanes (11).
Hernanes è un altro punto di contatto tra Anderson, l'Italia e la Lazio. Perché hanno in comune il maestro Muricy Ramalho, allenatore vincente con il San Paolo e col Santos, ma con il quale Felipe aveva un rapporto tempestoso: «Molte delle etichette che mi hanno affibbiato, come quella di essere pigro, sono una conseguenza delle cose dette da lui. Sarebbe meglio avere invece più tranquillità per lavorare. Non ho alcun rimpianto su Ramalho, ho imparato molto da lui, ma non posso negare che queste problematiche abbiano contribuito a ridurre la mia avventura al Santos».
Alcuni gol di Felipe Anderson segnati con il Santos.
Al Santos, con Ganso come riferimento e Neymar come gemello: di Ganso era considerato l'erede, nonostante i soli quattro anni di distanza e un gioco assai diverso. Nel Peixe, Ganso gli faceva ombra e quella clausola rescissoria di 120.500.000 reais brasiliani (54 milioni di euro circa) sembrava doverlo tenere lì, sempre nello stesso posto, davanti a Felipe.
Ganso sembrava non avere la parte di coraggio che serve per lasciare il Brasile (e infatti ora è al San Paolo, sotto contratto fino al 2017), Anderson era già un giocatore con la classe brasiliana e la mentalità europea, pronto per sfide impegnative: «Partì Ganso e la gente si aspettava che facessi di più. Quando senti così tanta pressione è difficile esprimersi al meglio. Il confronto con lui è naturale, aveva il 10 sulla maglia. Abbiamo una visione di gioco simile, ma non siamo uguali. Lui ha cadenze diverse in campo, tocca spesso la palla, la passa. Io gioco a campo aperto, posso fare anche il volante a centrocampo, le caratteristiche sono diverse».
Soprattutto Felipe Anderson ha un ritmo più ossessivo, che lo rende più spendibile nel calcio estero rispetto al passo lento di Ganso.
Del fenomeno del Barcellona è invece molto più che un amico e un compagno di sfide alla PlayStation: una volta, dopo un Santos-Atlético Mineiro giocato male, su Anderson piovvero fischi, i tifosi lo attesero fuori per contestarlo e Neymar gli fece da scudo cacciando tutti, ripetendosi il giorno dopo, quando, raccontano, chiamò in radio per insultare chi insultava Felipe.
Due dicembre duemilaquattordici
Felipe Anderson trascina con sé il peso dell'insuccesso: ha giocato poco, segnato meno, convinto nemmeno un po'. Siccome è brasiliano, poi, porta appresso tutto il romanzo fatto di saudade e tristezza, di ambientamento andato male e forse soldi buttati. Non segna da più di un anno e l'unica volta che ci è riuscito non era neanche in campionato: contro il Legia Varsavia, in Europa League (2-0, 28 novembre 2013). Praticamente nulla, alla sua prima stagione, sembrava un giocatore inutile ogni volta che veniva schierato in campionato, diverso da quello visto in allenamento e dunque con il rischio di finire nel catalogo di quelli a cui viene il braccetto, dei calciatori che non reggono le pressioni. Del ragazzo che sa giocare solo a casa propria, solo spensierato, senza che nessuno gli chieda una svolta, dei numeri, i gol. Non che non glieli chiedessero nel Santos, ma così sembrava, a guardare l'ombra del talento di Vila Belmiro: «Non ho reso quanto speravo, tanto che temevo di essere ceduto in prestito. Si parlava di Torino, Napoli e altri club di Serie A...».
E niente di nuovo, pur essendo rimasto alla Lazio, si vedeva nemmeno in questa stagione 2014/15, ecco perché gli tocca un'anonima partita di Coppa Italia contro il Varese, una partita così senza appeal da avere, sugli spalti, 3.903 paganti che dopo settantanove minuti di partita, con la Lazio sul 2-0 e Felipe Anderson ammonito, pensano che anche andar via può essere un'idea per non aspettare ancora questo giocatore che sembra non decidersi mai.
Ma a dieci minuti dalla fine Anderson segna. Forse è un messaggio buffo del destino: una volta che ha segnato possono raccontarlo solo in pochi; oppure un replay dell'anno prima, un gol fuori dal campionato (invece che in Europa League arriva in Coppa Italia) che non cambia il giudizio. Invece è quello che non ti aspetti: la prova che a volte i gol sbloccano davvero, che ci sono dei momenti in cui basta segnare una volta per ricominciare a farlo. La sorte cambia giro: persino l'infortunio di Candreva, senza che nessuno lo sappia, è una buona notizia (non per intercambiabilità reale, ma perché l'assenza crea necessità e lo fa cominciare da titolare, pochi giorni dopo il gol al Varese). Pioli contro il Parma allora fa giocare Anderson, che aveva fatto gol nel martedì di Coppa, si era appena ricordato come si fa e allora spunta un giocatore nuovo, un colpo a scoppio ritardato. Lotito vede i quasi otto milioni finalmente avere un valore e il flop diventa improvvisamente un grande investimento: Felipe Anderson segna il gol decisivo, la Lazio vince. Lui ha sentito la fiducia di Pioli, che ha speso molto tempo nei giorni prima per parlargli.
È la svolta: fa due assist con l'Atalanta, altri tre punti. Ancora: centra due volte il bersaglio contro l'Inter ed è un bel pareggio, infine mette un pallone in porta e ne serve altri due per i tre gol segnati alla Sampdoria e la Lazio incassa ancora. All'improvviso, un campione. Quattro partite, quattro gol, quattro assist (l'analisi completa, dopo la partita contro la Samp, si trova qui) . Sinisa Mihajlovic si sbilancia, dopo la partita con la Samp: «Sembrava Cristiano Ronaldo».
La partita di Felipe Anderson contro la Sampdoria.
Quello che conviene fare, con Felipe Anderson, è dargli il pallone tra i piedi, uno qualsiasi perché è ambidestro: è tra quei giocatori che non vanno lanciati in campo largo, ma ai quali va data palla perché poi il campo largo lo trovano, se lo creano. Si è guadagnato l'etichetta di giocatore misterioso, persino per i compagni, per chi lo allenava. Ad esempio, l'anno scorso Reja: «A Formello faceva cose straordinarie, poi in partita si perdeva perché non aveva la tranquillità necessaria e una buona condizione fisica. Ma io ho sempre pensato che potesse diventare un campione perché ha tecnica e grande rapidità». E poi Parolo, quest'anno: «Lo vedevo in allenamento e non capivo perché non esplodesse. Ora si è sbloccato e fa la differenza: sono contento perché per noi è un valore aggiunto».
Questo è il momento in cui c'è quasi tutto e anche i numeri, oltre alla bellezza del calcio prodotta, sembrano dargli ragione: in questa fase del torneo è il miglior dribblatore del campionato, messo a confronto con gli altri che hanno numeri analoghi come Gervinho, Cuadrado, Vazquez e Kovacic è anche quello che tira con maggiore facilità. È comparso quasi senza preavviso, forse non ha nemmeno finito di stupire.
Undici gennaio duemilaquindici
È il giorno in cui il ragazzo che sembrava un fallimento riceve la benedizione dei laziali, in attesa da un anno e in attesa di qualcuno che sia Zarate, che sia Hernanes, che magari rimanga senza che Lotito poi fiuti l'affare, cominci il braccio di ferro, lo metta ai margini della squadra per poi cederlo. Per un giocatore che deve farsi amare il bivio è quasi sempre il derby, a Roma: la partita in cui le gesta vengono fissate, ma anche quella che potrebbe azzerare quelle fatte in precedenza.
Quindi niente quattro partite, quattro gol, quattro assist e nemmeno un anno di attesa, ma novanta minuti e un giudizio in fondo. Un derby non è partita per ignavi: è infamia o lode e lo è anche se hai ventuno anni e dai di te l'idea di poter essere presto una stella. Anderson è la differenza in campo finché è primo tempo, finché non emerge Totti e scemano gli altri. Anderson sono i quaranta metri di corsa, la finta che disorienta in due e il pallone alzato di destro quanto basta perché Mauri possa segnare. Anderson è il sinistro che rallenta i giri del colpo di tacco di Mauri e spedisce in porta un pallone con il senso di chi sa sempre dove si trova la porta. Questo è quello che passa dagli highlights, ma tre dribbling quasi nello stesso momento no. Fa pure quelli.
Sono gesti quasi naturali che mostrano un giocatore che può usare persino un’apparente supponenza, sapendo invece soltanto dei mezzi sui quali contare. Di colui che sentiva il peso di Ganso e ora non sente il peso del derby, di quella che è la consacrazione di un giocatore che arriva a Roma da una o dall'altra sponda, che è il perdono da ogni eventuale peccato o la condanna se gira male. Di fronte a Roma, Anderson si eleva. E se nel secondo tempo serve Totti per raggiungere quello che il brasiliano aveva creato nel primo, è mortificante perché il risultato non è pieno, ma gratificante per chi si è dovuto scatenare per non rendere Felipe letale.
È l'iconografia che incorona Anderson, il gioco di simboli di una partita che in Italia resta unica, perché dura metà stagione (e l'altra metà è il ritorno) e a volte ne vale una intera. Ma uno che ha capito la città, ha capito il derby. Dice Anderson, di Roma: «Mi piace il clima. A parte l’inverno, il resto dell’anno sembra come in Brasile. Le persone sono molto calorose, mi hanno accolto molto bene». E, da Atleta di Cristo, dà anche un'importanza ai simboli, un po' nascosti involontariamente nelle sue risposte. Perché se uno dei momenti più belli è sicuramente «quando ho segnato il primo gol da professionista con il Santos. Guardavo sempre le partite in tribuna. Immaginavo di fare io gol e immaginavo la tifoseria che gridava per l'entusiasmo», c'è anche quando «nel 2012 mi hanno permesso di indossare la maglia numero 10, il numero che era stato di Pelé». Neymar, Pelé, Cristiano Ronaldo, Totti, sono nomi che vengono fuori parlando di Felipe Anderson e soprattutto facendolo ora, quando ha messo il petto in fuori e mostrato che muscoli ha il suo estro.
Tredici gennaio duemilaquindici
Poi ci pensano gli eventi a marchiare Felipe Anderson come laziale. Perché in poche ore sembra incarnare la storia della squadra per cui gioca, la dannazione che non permette nemmeno di godere fino in fondo la bellezza. Sta gioendo, ed è come se non potesse. Raffica di brutte notizie, ad annacquare il piacere e farlo sentire colpito dall’ingiustizia. Prima il padre: arrestato perché accusato di aver ucciso una donna di 61 anni e un uomo di 30. L’uomo era l’ex fidanzato della moglie, e secondo i racconti sono gli strascichi andati malissimo di una lite furente: il padre di Anderson ha inseguito in auto l’ex fidanzato della moglie scappato in moto, lo ha investito, ha perso il controllo del mezzo ed è finito contro la casa della donna rimasta vittima. Omicidio volontario e omicidio colposo, rischia trent’anni di carcere, e non è nemmeno l’unica scossa per il brasiliano, che decide di non precipitarsi in Brasile ma di seguire la vicenda da qui. E poco dopo in allenamento capisce che nemmeno aver smaltito il dolore alla coscia che lo aveva costretto a uscire nel derby poteva bastare per tornare a sfogarsi sul campo: distorsione al ginocchio a Formello e tre settimane, salvo complicazioni, senza partite. Poi pure le complicazioni, dunque uno stop più lungo. Ma resta qui a curarsi, senza tornare ma restando in contatto con chi ha bisogno anche di quel ragazzo andato via a 13 anni ma non vuole che si metta in viaggio ora che è sull'orlo della consacrazione definitiva.
Nove febbraio duemilaquindici
Ha ricominciato con il Genoa: ricerca del ritmo, la caccia al gol, l’emozione interrotta. È entrato con un altro passo rispetto agli altri nonostante l'assenza e una partita segnata. Forse adesso sì: la solitudine è superata, la tristezza sconfitta almeno sul campo. Durante l'infortunio lo ha rivelato a Globoesporte, giunto a Roma per raccontarlo da vicino: addio ai problemi con la lingua («Ci ho messo alcuni mesi per imparare a comunicare»), addio ai problemi in genere. E voglia di reagire anche a quanto successo al papà: «Sono forte, sin da piccolo ho imparato a superare i momenti di difficoltà e sono sicuro che ne usciremo anche questa volta. Mio padre è tutto per me e non lo abbandonerò mai. Ho pensato di tornare in Brasile per stare vicino alla famiglia, ma ho capito che fosse più giusto restare qui e concentrarmi sul momento magnifico che sto vivendo. Sono stati i miei famigliari a rassicurarmi e a convincermi che fosse la cosa migliore».
Si sente pronto a tornare il Felipe del derby. Può essere. È una di quelle cose che il pallone non riuscirà a spiegare mai: basta un attimo e cambia una stagione, basta poco e ciò che non pensavi accade. È il calcio che lo consente. Lo diceva Galeano: «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l'arte dell'imprevisto. Dove meno te l'aspetti salta fuori l'impossibile ». Intanto ci siamo accorti di Felipe Anderson, e sembrava impossibile.