Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Fenomeno
13 mag 2014
Alla fine degli anni '90 appare il primo calciatore moderno, con il dribbling di Maradona e il passo di Michael Johnson: Luís Nazário de Lima, più semplicemente Ronaldo.
(articolo)
30 min
Dark mode
(ON)

Visto da vicino, a ventuno anni Ronaldo Luís Nazário de Lima era giovane come un proiettile, levigato come un cristallo. Aveva i colori e il cranio nudo di un monaco shaolin, zigomi pronunciati, due incisivi da scoiattolo.

Era novembre 1997 e all'Arena di Milano l'Inter giocava un'amichevole infrasettimanale con una squadra croata. A fine partita, mentre calava una gelida foschia serale, i giocatori si fermarono a bordo campo per firmare qualche autografo. Naturalmente quello di Ronaldo era il più ambito e come tutti anche io mi avvicinai, ma non con l'intento di strappargli uno scarabocchio: volevo solo guardarlo bene. Del resto era il mio idolo, l'unico personaggio pubblico che confesso di avere davvero idolatrato, seppure per un breve periodo, nella mia vita.

Dieci anni dopo l'ho incontrato nuovamente. Era la primavera del 2008, un soffice pomeriggio di sole, e ci trovavamo entrambi in una sfarzosa boutique di Corso Venezia a Milano. Lui in compagnia di una giovane donna molto appariscente, io di un amico con cui ero entrato per scherzo e unicamente per testare le reazioni dei commessi alla presenza di due studenti squattrinati. Ronaldo indossava occhiali da sole fascianti e un cappellino da baseball blu scuro, forse dei New York Yankees. In parte fu per questo che non lo riconobbi subito, più probabilmente perché dall'involucro del ventunenne di un tempo era sbucato un milionario paffutello che proiettava cenni annoiati alla merce. Gli incisivi erano rimasti identici, gli zigomi invece erano scomparsi inghiottiti dalle guance adipose e di certo "levigato" non era la parola più adatta per descrivere il suo totale.

Tra quei due momenti in cui avrei potuto dirgli "ciao" e non l'ho fatto, a Ronaldo, come è noto, è capitato di tutto e questo tutto è, a mio parere, l'unica ragione per cui non lo ricordiamo come il più grande calciatore di sempre.

UNA LOCOMOTIVA UMANA

Lessi il nome di Ronaldo per la prima volta sul Guerin Sportivo, nel periodo in cui lo compravo ogni settimana per divorarlo nel viaggio di ritorno da scuola. Alla fine del 1995 non c'era nessuna ragione per cui quella pagina in particolare mi rimanesse impigliata nella memoria ma di fatto lo fece e, a distanza di quasi vent'anni, la ricordo piuttosto bene.

Era uno degli articoli che il Guerin dedicava ai "nuovi talenti" internazionali, per solleticare la fantasia di lettori non ancora avvezzi a osservare da lontano quelli che oggi chiamiamo "top player". Da interista avevo almeno due buone ragioni per non fidarmi ciecamente delle segnalazioni del settimanale: Caio e Rambert, dipinti l'estate precedente da potenziali fuoriclasse, si erano rivelati già in autunno come i primi di una serie di bidoni transitati per Appiano in quel periodo.

E tuttavia la fotografia che apriva l'articolo su questo potenziale prodigio non si lasciava ignorare facilmente. L'immagine, verticale e a tutta pagina, lo riprendeva di tre quarti a figura intera e lo mostrava in progressione, la palla al piede e la maglia a righe bianche e rosse del PSV Eindhoven indosso, la sua prima squadra europea. La composizione era piuttosto classica e familiare – un momento di gioco come tanti immortalato da qualche anonimo fotografo a bordo campo per venderlo a un'agenzia – e tuttavia c'era qualcosa di inspiegabile, di perturbante in senso freudiano al suo interno. O il fotografo aveva scelto per sbaglio un tempo di esposizione troppo lungo, finendo col catturare scie fantasmatiche di movimento oppure il soggetto stava "viaggiando" a una velocità inaudita per un giocatore di calcio. Non avevo mai visto prima – considerate che parliamo di venti anni fa – una fotografia così tanto dinamica di un calciatore. Nella prima foto che vidi di lui, Ronaldo sembrava una locomotiva umana.

Queste le poche informazioni fornite dal pezzo: Luís Nazário de Lima aveva 18 anni, era campione del mondo (senza aver giocato neppure un minuto di Usa '94) e capocannoniere in carica dell'ultima Eredivisie con 30 gol in 33 partite. Proveniva dal Cruzeiro dopo un'infanzia molto povera a Bento Ribeiro, un quartiere disagiato di Rio. L'articolo raccontava anche che l'Inter lo stava seguendo e ricordo che pensai: "Beh, peggio di Rambert non può essere". Le cose, si seppe in seguito, stavano pressappoco così: l'Inter aveva un accordo con il PSV per cui la società olandese era tenuta a informare quella milanese di qualunque offerta per il giocatore, così da permetterle di rilanciare. Ma di questo parlerò meglio in seguito. Prima voglio mostrarti un video.

"BAYER LEVERKUSEN CONTRO RONALDO"

È il video di una partita. O meglio: è il video della prima partita di Ronaldo in una competizione europea, il primo turno della Coppa UEFA 1994/95 per essere precisi. È un filmato che, all'epoca in cui lessi l'articolo, ovviamente non conoscevo, diversamente non avrei affiancato i nomi di Sebastián Rambert e di Ronaldo Luís Nazário de Lima nello stesso pensiero. La partita è Bayer Leverkusen - PSV Eindhoven finita 5 a 4 e disputata a Leverkusen il 13 settembre 1994, cinque giorni prima del diciottesimo compleanno di Ronaldo e due mesi dopo il suo arrivo in un Paese in cui non conosceva nessuno, di cui non parlava la lingua e dove la temperatura invernale media era una ventina di gradi inferiore a quella del luogo in cui era cresciuto.

Era stato Romario – che aveva giocato lì dall'88 al '93 – a consigliargli il PSV, a suo giudizio la piazza ideale per iniziare la scalata al calcio europeo. Dopo un anno di permanenza a Eindhoven, Ronaldo però non sembrava così entusiasta dello stile di vita locale. «Cosa ti piace di Eindhoven e dell'Olanda?» – gli chiede un giornalista. «Non so, ci dovrei pensare... il calcio?», risponde il futuro Fenomeno. Quando arriva al PSV Ronaldo pesa 74 chili per 179 cm, quando se ne va, due anni dopo, ha preso quattro centimetri e cinque chili. Anche a causa di questo repentino aumento di stazza il suo corpo mostra le prime crepe e il suo secondo anno al PSV è segnato dal primo di una serie di problemi alle ginocchia che gli condizioneranno la carriera. E per la stessa ragione, molto tempo dopo, qualcuno agiterà il sospetto del doping – ma senza prove a supporto – sugli esordi europei di Ronaldo.

Comunque ecco il video.

Quello che io "vedo" in questo filmato è un ragazzino di diciassette anni che ridefinisce il concetto di prendere a pallonate undici avversari da solo. Come dice il telecronista olandese dopo il terzo gol di Ronaldo: «È incredibile. È Bayer Leverkusen contro Ronaldo. E ora sono 4-3». Basta questo a rendere il video eccezionale, anche senza aggiungere che il ragazzino in questione è atterrato da poche settimane in un calcio e in un continente su cui non aveva mai posato i tacchetti.

Prima di avere l'età per prendere la patente, sul campo da calcio di una competizione di alto livello europeo, Ronaldo è già in grado di creare pericoli partendo da ogni posizione di campo, che riceva la palla sulla corsa o spalle alla porta. Sa segnare sia dalla distanza sia di rapina. È in grado di saltare avversari con dribbling precisi nello stretto come con spaventosi allunghi in velocità, superandoli anche quando hanno diversi metri di vantaggio. A un certo punto, sempre il telecronista olandese dice: «E tenete a mente che ha appena 17 anni. Se continua così può giocare dovunque». Non poteva essere più profetico.

Nell'estate del 1996 il PSV decide infatti di mettere sul mercato il prezioso diciannovenne, autore di 54 gol in 58 partite. Come ho anticipato, l'Inter ha una prelazione sul giocatore, pattuita nel corso della cessione di Wim Jonk agli olandesi, ma Massimo Moratti si dimostra indeciso. Ronaldo ha saltato gran parte della stagione precedente per problemi al ginocchio e circolano dubbi sulla sua integrità fisica. Nella trattativa si inserisce così il Barcellona che offre la cifra "record" di 30 miliardi di lire. All'Inter "basterebbe" rilanciare di poco ma la dirigenza preferisce lasciare la trattativa, stizzita forse da alcune esternazioni di Ronaldo che afferma di preferire qualunque destinazione all'Inter per «non fare la fine di Caio». Moratti rinuncia quindi al brasiliano dichiarando: «Un anno fa avrei pagato a occhi chiusi ma ora ho dei dubbi che Ronaldo valga queste cifre». Dodici mesi più tardi infatti vale il doppio.

In una stessa estate quindi l'Inter non compra Ronaldo perché "troppo caro" e vende Roberto Carlos al Real Madrid a prezzi di saldo. In compenso Moratti tra gli altri "regala" a Hodgson lo sciapo centrocampista svizzero Ciriaco Sforza, espressamente richiesto dall'allenatore inglese, e la promessa nigeriana Nwankwo Kanu che in tre anni gioca dodici partite per una malformazione cardiaca salvo poi andare a fare buone cose all'Arsenal. Ma anche questa, ovviamente, è un'altra storia.

BEFORE AND AFTER RONALDO

L'anno di Ronaldo al Barcellona è una lingua di fuoco. Arrivato nell'estate in cui finisce il regno in blaugrana di Johan Cruyff, Ronaldo è per metà l'oggetto misterioso e per metà la ciliegina sulla torta di una campagna acquisti che porta al Camp Nou Luis Enrique, Vítor Baía, Giovanni, Laurent Blanc e Fernando Couto. Stelle che vanno a rinforzare una squadra che può già contare su Josep Guardiola, Robert Prosinecki, Iván De La Peña, Albert Ferrer, Sergi, Gheorghe Popescu e Luís Figo. L'allenatore è Sir Bobby Robson, il vice José Mourinho.

È un Barcellona atipico rispetto alla sua tradizione e a come lo abbiamo conosciuto negli anni di van Gaal, Rijkaard e Guardiola. È guidato da un allenatore inglese già avanti con l'età che non può assimilare del tutto la complessa filosofia calcistica catalana e infatti non ci prova nemmeno. Da offensivista Robson si limita a mandare in campo sette giocatori spiccatamente tecnici su undici e ad aspettare che tanto talento individuale lo ripaghi. Il che avviene con una frequenza impressionante ma comunque non sufficiente a vincere la Liga, ghermita dal Real Madrid di Capello, Roberto Carlos, Seedorf, Raul e Suker. Il Barcellona si consola con Copa Del Rey, Coppa delle Coppe e numeri offensivi che appartengono a un altro pianeta. In totale i gol nella Liga sono centodue, dodici invece sono le volte che il Barça ne segna più di quattro nella stessa partita.

Di tutta questa prolificità, Ronaldo è insieme beneficiario e artefice. Pur se da soli i dati sono impressionanti (47 reti in 49 partite giocate e titolo di Pichichi della Liga), comunque non bastano a descrivere l'impatto che hanno alcuni suoi gol sul mondo del calcio della seconda metà anni '90. Su tutti quello realizzato al Compostela il 12 ottobre del 1996 e che resta, ancora a diciotto anni di distanza, una delle più prepotenti dichiarazioni di supremazia fisico/tecnica mai viste su un campo da calcio. Un'azione che fa l'effetto di osservare un adulto che gioca seriamente con dei bambini di tre anni. Jorge Valdano, allenatore del Valencia di quell'anno, al termine della partita in cui Ronaldo segna tre gol, alla sua squadra dichiara: «Non è un uomo, è una mandria di cavalli». E lo era.

Il gol al Compostela è il momento in cui Ronaldo smette di essere il più forte under 21 al mondo e si trasforma nella prima donna assoluta del calcio globale, il primo calciatore a compiere il balzo da semplice atleta a brand multinazionale. Per fare un paragone non troppo eccessivo: la stagione 1996/97 di Ronaldo al Barcellona sta al calcio europeo come la stagione 1988, la prima da MVP di Michael Jordan, sta alla NBA.

Si potrebbe obiettare che il processo di deflagrazione marketing/mediatica del calcio era già in corso e, al netto di Ronaldo, sarebbe avvenuto comunque. E l'obiezione, sensatissima, verrebbe accolta. Ma lo stesso si può dire dell'NBA Ante-Jordan. Magic e Bird, Erving e Jabbar etc... erano già qualcosa più di semplici giocatori di basket così come – prima e durante l'apice di Ronaldo – i vari Baggio, Romario, Cantona e ovviamente, in modo del tutto speciale, Maradona... erano già qualcosa più di semplici calciatori.

Come qualunque forma culturale, anche il calcio si trasforma attraverso un divenire continuo, un processo costante e fluido al cui interno non è possibile isolare in modo inequivocabile un punto di svolta. Ci sono però momenti e fasi storiche in cui, se si presta attenzione, è possibile avvertire a fior di pelle che, per qualche motivo, le dinamiche dell'evoluzione hanno subito una spinta decisiva, uno strappo. I quattro anni tra Usa '94 e Francia '98 sono stati, a mio parere, una di quelle fasi. E, se è vero che non si possono imputare al solo Ronaldo fenomeni tanto complessi come l'esponenziale espansione mediatica o l'esasperato sviluppo agonistico sperimentati dal calcio in quel periodo, di certo è innegabile che il brasiliano sia stato sia il volto di copertina sia un potente catalizzatore di entrambi. Come Jordan, Ronaldo ha catturato gli occhi del mondo mostrando una cosa che sembrava venire dal futuro prossimo del suo sport. Per Jordan quella cosa era la capacità di staccare dalla lunetta o di concludere sottomano in volo tra una selva di braccia avversarie. Per Ronaldo quella cosa era la capacità di dribblare (quasi) come Maradona con il passo (quasi) di Michael Johnson.

Nel biennio 1996/98 Ronaldo è stato il teaser del calcio a velocità raddoppiata che si sarebbe giocato nel ventunesimo secolo ormai alle porte: uno sport extraterrestre, compiutamente globale e vendibile a tutte le latitudini, in cui la produzione e la fruizione di "sensazionale" avvengono a ciclo continuo. Ronaldo è stata la prima manifestazione dello Zeitgeist del "calcio moderno", per usare un'espressione sulla quale si è ricamato molto negli ultimi anni. Era l'uomo giusto, al posto giusto e nel momento giusto: quello dell'affermazione delle pay-tv, dell'allargamento della Champions League, delle prime enormi sponsorizzazioni.

E infatti Nike, che in quegli anni stava facendo il proprio ingresso in pompa magna nel business del soccer, sceglie proprio Ronaldo come suo principale interprete e attorno a lui e alla Seleçao brasiliana costruisce una delle più imponenti operazioni di marketing sportivo di quel decennio, culminata con l'ormai leggendario spot dell'aeroporto, con colonna sonora di Quincy Jones, prima dei Mondiali del '98. In un momento di autocoscienza, qualche anno fa è stata proprio la stessa Nike a voler ribadire la "frattura Ronaldo", il punto di svolta rappresentato dal brasiliano, con una campagna del 2011 in cui si enfatizzano le differenze – a livello di immaginario e di ecosistema mediatico/sportivo – tra il calcio "B.R." (Before Ronaldo) e quello "A.R." (After Ronaldo).

I FRATELLI DALTON

Purtroppo l'impennata di popolarità e rendimento di Ronaldo come brand finisce per nuocere a Ronaldo come giocatore che, trasformato a 20 anni in un punto di attenzione globale, inizia a guardare il suo ambiente dall'alto, un po' come la statua del Cristo Redentore, a cui sono ispirate le sue esultanze, osserva Rio. È l'inizio di un processo di derealizzazione che, insieme a ciò che gli capiterà in seguito a livello fisico, avrà una pessima influenza sulla sua rincorsa al titolo di più grande di sempre.

Risalgono all'anno del Barça le prime cronache che lo raccontano viziato e poco propenso ad allenarsi, anche perché la sua eccezionalità gli guadagna lussi e privilegi che ad altri non sono concessi. In particolare fa sensazione che, solo a lui tra tutti i brasiliani della Liga, venga accordato un permesso speciale per tornare a casa durante il Carnevale; mentre le ripetute indiscrezioni di screzi tra Ronaldo e l'allenatore sembrano raccontare di un giovanissimo uomo che, appena ventenne è già al centro di un interesse mediatico spasmodico e incontrollato e alle cui azioni e intenzioni viene attribuito un peso sproporzionato all'età. È in quel periodo che Bobby Robson dichiara: «Tutti questi giornali che pubblicano storie sul fatto che Ronaldo ha criticato ancora una volta le mie scelte. Cristo, il ragazzo ha 20 anni... è diabolico». Robson peraltro è lo stesso allenatore che, anni dopo, ha risposto alla domanda su chi fosse il più forte che ha mai allenato, in questo modo: «È difficile dirlo ma devo rispondere Ronaldo. Lo comprai al Barcellona nel 1996 dopo non essere riuscito ad acquistare Alan Shearer dal Blackburn. Era asciutto, spietato, veloce come uno sprinter e alcuni dei gol che ha segnato mi hanno fatto scuotere la testa dall'incredulità».

Come corollario di ritrovarsi al centro dell'interesse di un pianeta di 6 miliardi di persone, a Barcellona Ronaldo impara l'avidità. Al termine della stagione 96/97, iniziano infatti a circolare numerose voci di richieste di un grosso adeguamento contrattuale. Si tratta di retroscena legati a doppio filo ai nomi di Reinaldo Pitta e Alexandre Martins, due procuratori brasiliani che gestiscono la carriera di Ronaldo fin dai tempi del São Cristóvão; due personaggi così controversi e odiati a Barcellona da venire soprannominati Fratelli Dalton, come i famosi criminali del Far West. Agitando sontuose offerte contrattuali ricevute dai più ricchi club d'Europa, Pitta e Martins battono cassa da Josep Lluís Núñez, presidente dei blaugrana dal 1978 al 2000 noto per non essere il tipo da cedere a questo genere di ricatti.

A maggio '97, forte di una trattativa per un leggero rialzo all'apparenza ben avviata, Núñez fa lo spaccone e, per la gioia del tifoso catalano, dichiara: «Ronaldo è nostro per sempre». La verità è che, in quegli stessi giorni, lo sport più praticato sui quotidiani sportivi europei è sfogliare la margherita delle possibili destinazioni di Ronaldo. Si parla di Manchester United, Milan, Juventus e persino di un clamoroso passaggio al Real Madrid, anche se il nome più gettonato è nuovamente quello dell'Inter. La destinazione non è più così sgradita al giovane brasiliano e al suo entourage, specie se, come promesso, Moratti elargirà i sei miliardi e mezzo di lire richiesti dai Fratelli Dalton come emolumento annuo per il loro assistito. A quel punto "basta" che l'Inter paghi la clausola di rescissione presente in qualunque contratto spagnolo. Quella di Ronaldo è di ben 48 miliardi ma non sembra spaventare troppo Moratti, deciso a rimediare all'errore dell'anno precedente.

E infatti, poche ore dopo aver dato l'annuncio di essere vicinissimo a un accordo per un'estensione fino al 2006, Núñez deve ammettere che il banco è saltato e che Ronaldo ormai è a un passo dall'essere lasciato andare per sempre. La vicenda in realtà è destinata a ingarbugliarsi ancora e prima che l'Inter possa mettere definitivamente le mani sul brasiliano passano lunghe settimane estive di schermaglie legali, arbitrati della FIFA, colpi di teatro, ribaltoni e ultimatum da ambo le parti. Vicende che un me stesso appena adolescente segue con l'apprensione di una questione di vita o di morte. Come, immagino, molti altri tifosi interisti con troppo tempo da perdere.

In quei lunghi giorni di logorante incertezza, io compro tutti i possibili quotidiani sportivi (ricordo il consueto, fantasioso, ma all'epoca per me comunque raggelante, strillo di Tuttosport: "Né Inter, né Barcellona: Ronaldo è della Juve" o qualcosa del genere), controllo il televideo ogni volta che ne ho l'occasione, riguardo un numero osceno di volte la cassetta, uscita in allegato con la Gazzetta, dei 47 gol di Ronaldo al Barça. Compio riti scaramantici, forse prego. Vivo l'intera trattativa come un'interminabile deglutizione. Se per esperienza diretta oggi mi tengo ben lontano da qualunque forma di ossessione e fanatismo, come da due delle peggiori debolezze dell'animo umano... beh, in parte lo devo a Ronaldo.

Per il grande sollievo del me stesso di allora, alla fine Ronaldo firma con l'Inter e il 25 luglio 1997 viene presentato a Milano. Si affaccia da una finestra della sede di via Durini in un primo pomeriggio di sole rovente, sventolando una sciarpa nerazzurra con sopra stampato il suo nome, mentre ai suoi piedi si accumulano migliaia di milanesi serotoninici.

Il tripudio costa salato a Moratti: la cifra record di 51 miliardi (48 di clausola di rescissione e 3 di indennizzo stabilito dalla FIFA). La stessa scena dodici mesi prima sarebbe stata 20 miliardi più economica.

EL CHINO

Il racconto del periodo interista di Ronaldo deve necessariamente partire da un'ammissione a posteriori, dolorosa per un tifoso di quei colori: venire all'Inter in quel momento storico della società fu un errore. A Barcellona Ronaldo era il magnifico finalizzatore di una squadra votata allo spettacolo e fitta di fuoriclasse, una situazione ideale in un campionato e in un sistema di gioco aperti e offensivi. A Milano invece si ritrova a essere una specie di Messia che predica nel deserto o quasi, in un campionato la cui ideologia dominante è "prima di tutto non prenderle". Nell'organico dell'Inter 97/98, gli unici giocatori che per qualità ed esperienza parlano la stessa lingua calcistica di Ronaldo sono Diego Simeone, arrivato la stessa estate dall'Atlético Madrid, Youri Djorkaeff e Javier Zanetti che comunque all'epoca restava un incompiuto. Il resto della rosa era un puzzle di veterani vicini al ritiro (Bergomi, Zamorano, Winter, Branca), giramondo in annata di grazia (Moriero), onesti figuranti (Cauet, Zé Elias), oggetti misteriosissimi (Recoba, Kanu, West) e giocatori inadeguati alle ambizioni dell'Inter (tutti gli altri). L'allenatore – Luigi Simoni – era un emiliano brizzolato, pacato e di buon senso, nel cui curriculum si contavano più numerose le salvezze dei piazzamenti interessanti.

L'"effetto Ronaldo", come lo chiamano i giornali di allora, tuttavia fa sì che, per la prima volta negli anni '90, il numero di abbonati interisti a San Siro superi quello dei milanisti. In totale sono 47.615 e ovviamente ci sono anche io tra loro.

Il campionato dell'Inter comincia domenica 31 agosto 1997 a San Siro contro il Brescia. Quella stessa mattina da Parigi era arrivata la notizia della morte di Lady Diana e, nonostante fossimo tutti lì per una ragione ben diversa, ricordo che sulle tribune le persone intorno a me quasi non parlavano d'altro. Ancora prima dell'inizio della gara, l'esordio di Ronaldo era già stato eclissato. Sul campo, poi, le cose non andarono molto meglio.

Dovendo scegliere una sola partita da eleggere a simbolo e origine dei guasti e degli equivoci patiti dall'Inter di Moratti per molti anni, scelgo senza esitazioni Inter - Brescia del 31 agosto 1997. Nell'arco di quei novanta minuti si evidenziano infatti tutti i problemi e i limiti sottostanti alla logica con cui è stata costruita la squadra. Per esempio si capisce subito che Ronaldo è troppo superiore alla media dei suoi compagni e questo lo spinge a cercare l'iniziativa personale con eccessiva insistenza, finendo spesso a sbattere contro il muro della difesa avversaria che, quando non arriva a fermarlo con le buone, passa alle cattive. Un'altra evidenza è che la filosofia calcistica di Simoni è del tutto conservativa e difensivista, mancando peraltro di grandi interpreti difensivi per giustificarla, il che rende la presenza in campo del più forte attaccante al mondo quasi pleonastica.

Ricordo che, mentre andavo allo stadio quel pomeriggio, fantasticavo di quanti gol avrebbe segnato Ronaldo a Cervone. Due, tre? Magari addirittura quattro? In realtà, ormai già oltre la metà del secondo tempo, Ronaldo aveva avuto solo spiccioli di occasioni per mettersi in luce: un sinistro sporco al termine di una serie di dribbling insistiti sulla trequarti e un destro a giro stampato sulla traversa. I marcatori del Brescia lo raddoppiavano, triplicavano ogni volta che riceveva la palla e ogni volta la riceveva un po' più distante dall'area di rigore. Più che il purosangue ammirato nelle praterie della Liga, sembrava un relitto inerte spinto al largo dall'esercizio costante della marea. In tribuna si respirava una frustrazione palpabile e, conoscendo da vicino la mentalità del tifoso interista, sono certo che da qualche punto degli spalti saranno sicuramente piovuti numerosi "Ma va là, l'è un broc", "Chel lì l'è un bidun, tel disi mi".

Provai un leggero dispiacere per lui e una incomunicabile vergogna per i giocatori mediocri con cui la mia squadra lo stava facendo giocare. Pensavo a Figo, Guardiola, Luis Enrique, Rivaldo e poi ripassavo la nostra formazione sul tabellone e mi deprimevo, sembravamo appartenere a una galassia calcistica distante. La Curva Nord per la prima volta cantava "Il Fenomeno ce l'abbiamo noi etc." ma sul campo non stava accadendo niente di fenomenale.

Se possibile le cose si misero anche peggio quando, al settantatreesimo minuto, servito da un lancio a candela di un giovanissimo Andrea Pirlo, Dario Hubner portò il Brescia sullo 0-1, creando le condizioni ideali per il più tipico degli psicodrammi interisti ad alta certificazione. Mentre il settore ospiti festeggiava, intorno a me la disillusione si tagliava con il coltello.

Pochi minuti prima, nella pressoché totale e generale indifferenza, per l'Inter era entrato in campo una faccia nuova, il cui acquisto era stato notificato solo dai tifosi più informati, quelli come me che avevano passato l'intera estate a compulsare la tabella cessioni/acquisti/trattative, nella speranza di vedere il nome di Ronaldo spostarsi definitivamente dalla casella delle trattative a quella degli acquisti. Il nuovo entrato era anche lui giovanissimo e sudamericano, aveva anche lui incisivi evidenti, nel suo caso però accoppiati a tratti da indio e a un taglio di capelli a ciotola. Per la precisione era uruguaiano, si chiamava Alvaro Recoba detto "El Chino"... e come va avanti questa storia d'amore tra un presidente romantico e un magnifico ma svogliato piede sinistro lo sapete già.

In ottantamila eravamo usciti di casa quel pomeriggio sicuri di assistere alla fragorosa entrata in scena di Ronaldo e – anche se ovviamente ancora non potevamo saperlo – ci tornavamo la sera dopo aver assistito al primo atto di un equivoco decennale.

ALCUNE ISTANTANEE DEL '97/98

Eclisse all'esordio a parte, l'annata di Ronaldo all'Inter fu eccezionale per quantità e qualità dei numeri e considero averla potuta seguire da vicino una delle più grandi fortune che mi siano capitate da tifoso: letteralmente ogni partita mostrava almeno due, tre, quattro giocate che ammutolivano lo stadio per un secondo per poi farlo esplodere il successivo.

Ecco alcune istantanee sparse, tra quelle a cui ho assistito dal vivo.

Inter - Parma: 1-0. Da solo Ronaldo mise in imbarazzo una difesa composta da Thuram, Cannavaro e Sensini. In particolare ricordo un'azione sulla linea del fallo laterale. Braccato stretto da quattro marcatori, Ronaldo li lascia sul posto con una veronica rapidissima, fa sparire il pallone sotto la suola del piede destro e lo fa ricomparire un metro più in là, portandolo avanti con l'esterno del sinistro per ripartire infine con un'accelerazione soprannaturale. Mentre lui sgusciava via senza una lacrima di sudore pareva che San Siro dovesse venire giù, come si dice in questi casi. Poi segnò anche, su punizione a Buffon immobile.

Inter - Sampdoria: 3-0. Una giornata grigia come quelle partite noiose che l'Inter di Simoni spesso mostrava. Poco gioco, poche idee, ancora meno occasioni finché, a metà del secondo tempo, la Sampdoria non perde una palla stupida che finisce a Ronaldo, il quale salta Mannini in corsa e affonda di venticinque metri in tre secondi, prima di accentrarsi con due finte e servire Cauet, che da pochi passi trova una deviazione e segna il gol che sblocca il risultato. Non ho mai visto nessuno squarciare in modo più evidente e prorompente una partita brutta e destinata, con ogni evidenza, a finire con un triste 0-0.

Inter - Juventus: 1-0. Era l'andata della sfida scudetto di quella stagione e si giocava di sabato sera se non sbaglio, tra Natale e l'Epifania. Della Juventus ricordo in particolare Davids e Torricelli, entrambi di un agonismo brutale quella volta, e poi Zidane che nascondeva la palla a piacimento. La ripresa era cominciata da pochissimo quando Ronaldo riceve da Zanetti un pallone sulla destra. È in posizione defilata, a una trentina di metri da Peruzzi e con Montero che lo tiene per la maglia. Ronaldo compie un arresto in corsa che fa andare l'uruguaiano per le terre, resiste a un'entrata da dietro del sempre "sportivo" Iuliano, accelera sulle punte e in un niente è a ridosso dell'area. Un respiro dopo esserci entrato, dal gomito destro della linea verniciata taglia un cross rasoterra, una mezzaluna precisa e affilata diretta al palo opposto, dove Djorkaeff la deve solo appoggiare in gol. Siccome all'epoca facevo ancora l'errore di odiare l'insipida Juventus quando, a gioco ripreso, tutto lo stadio iniziò a cantare "il Fenomeno ce l'abbiamo noi e sono cazzi tuoi", degli ottantamila presenti di certo fui tra quelli che persero di più la voce.

Inter - Schalke 04: 1-0. Tra tutte le cose incredibili che ho visto fare a Ronaldo in quella stagione, la più incredibile di tutte è probabilmente una giocata sulla linea di fondo contro lo Schalke 04 nei quarti di finale della Coppa UEFA, anche perché la fece proprio sotto di me, a pochi metri da dove ero seduto. Si risolse in un nulla ma è incredibile ugualmente e, visto che dubito che qualsiasi descrizione le renderebbe giustizia, ecco il video.

Quell'anno l'Inter portò a casa "solo" una Coppa UEFA, vincendo 3-0 in finale contro una Lazio molto forte, e perse uno scudetto a favore della Juventus, più per i limiti della squadra che lasciò sul terreno punti stupidi, perdendo per esempio in casa con il Bari, che per il palese rigore non fischiato a Torino o per una serie comunque vistosa di sviste arbitrali favorevoli ai nostri avversari (che comunque avevano senza dubbio una squadra più forte e completa).

Ronaldo finì la stagione con 25 gol in campionato, 34 totali in 47 partite e, a metà anno, proprio prima della partita in casa contro la Juventus, alzò il Pallone d'oro e il FIFA World Player Award. Segnò un gol nel derby che, discutendo con amici milanisti, ancora oggi mi diverto a rivangare per godermi le smorfie di fastidio che disegna sui loro volti, e, pressoché da solo, riuscì a restituire orgoglio all'Inter e ai suoi tifosi, digiuni di scudetti da quasi un decennio proprio mentre il Milan vinceva tutto il possibile.

A cercare il pelo nell'uovo, Ronaldo aveva palesato qualche limite di egoismo e di Q.I. calcistico specie quando si intestardiva troppo nel dribbling ma – almeno questo era ciò che mi ripetevo – era da imputarsi più all'inadeguatezza di alcuni suoi compagni, incapaci di muoversi ai suoi ritmi e di dialogare al suo livello tecnico, che a lui. Quello che contava era averlo dalla propria parte per chissà quanti anni ancora e costruirgli una squadra più presentabile attorno. Dopodiché non si doveva fare altro che preparare il pop-corn e iniziare i lavori per allargare la bacheca di Via Durini. Questo era ciò che pensava qualunque interista mentre Ronaldo partiva per i Mondiali di Francia '98. Quelli da cui ritornò fantasma.

12 LUGLIO 1998

Parte della straordinarietà della vicenda Ronaldo si deve al mistero su quanto avvenuto alle due e mezza del pomeriggio del 12 luglio 1998 – giorno della finale poi persa dal Brasile 0-3 con la Francia – quando Ronaldo cadde dal suo letto in preda a convulsioni, nella camera che divideva con Roberto Carlos nel ritiro della Seleçao.

Sono passati sedici anni eppure non esiste una versione dell'accaduto su cui tutte le fonti concordano. C'è chi parla di un episodio epilettico, chi di un sovradosaggio di medicinali per metterlo in campo nonostante una caviglia malmessa, chi di una crisi cardiaca dovuta alla compressione del glomo carotideo, chi nuovamente solleva il sospetto del doping. Esistono però i ricordi di alcuni dei presenti, del personale dell'albergo per esempio, che raccontano di una parola ululata più volte in quei minuti: la parola "morto". C'è poi la testimonianza dello stesso Ronaldo, rilasciata il giorno dopo, quando le immagini della sua discesa claudicante dall'aereo che aveva riportato la Seleçao in Brasile avevano ormai già chiarito quasi tutto. Ronaldo disse: «Abbiamo perso la Coppa ma io ne ho vinta un'altra, la mia vita». Ancora neppure sappiamo con certezza chi si prese la responsabilità di mandare in campo un ventunenne, che appena quattro ore prima sembrava sul punto di morire, nella finale dell'evento sportivo più seguito al mondo. Si parlò di pressioni di ogni genere: televisioni, sponsor tecnici, la Federazione brasiliana o un insieme di queste cose. La verità probabilmente, come spesso succede, è più banale della dietrologia: Ronaldo giocò perché tutti, lui per primo se davvero sessanta minuti prima dell'inizio chiese personalmente a Zagallo di esserci, sottovalutarono quello che era accaduto. Giocò e non fu un bello spettacolo per nessuno.

Qualunque cosa sia effettivamente successa quel pomeriggio, qualunque postumo fisico e psichico abbia lasciato sul corpo e sulla mente di Ronaldo Luís Nazário de Lima; la sera di quel 12 luglio 1998 – a ventuno anni e nove mesi – il monaco shaolin che faceva tremare le gambe a Desailly e Thuram, il proiettile che a ogni accelerazione toglieva il respiro a interi stadi, il cristallo levigato che poteva diventare il più grande di tutti i tempi si frantumò in mondovisione.

Dopo quel giorno Ronaldo ha vinto un Mondiale da capocannoniere, un altro Pallone d'oro e diversi titoli con il Real Madrid, ha giocato centinaia di altre partite e segnato centinaia di altri incredibili gol, tra cui una tripletta all'Old Trafford con il Real e persino un gol all'Inter indossando la maglia del Milan. Ha vissuto una carriera che per chiunque sarebbe comunque eccezionale, certificata tra l'altro dal fatto di detenere il record di reti ai Mondiali (15), ma non è mai più stato il feroce congegno da calcio che era tra i 17 e i 21 anni, quando si abbatteva sulle difese come un tornado su un prefabbricato.

Tra gli eventi che hanno condizionato la carriera di Ronaldo non si possono ovviamente omettere i due gravi infortuni al tendine rotuleo del ginocchio destro capitatigli in serie nella stagione 1999/2000; in particolare il secondo crack all'Olimpico, udito da curva a curva sei minuti dopo il rientro dal primo infortunio in finale di Coppa Italia con la Lazio. Ma il "primo" Ronaldo era comunque già evaporato, o almeno questa era la mia impressione mentre lo seguivo dal vivo, domenica dopo domenica, nella stagione 98/99 e in quelle poche partite di quella 1999/2000 che riuscì a giocare (ero allo stadio anche il 21 novembre quando, contro il Lecce, seppure in modo meno drammatico della seconda, il suo tendine si lacerò una prima volta).

Forse nemmeno Ronaldo saprebbe dire con certezza se a condizionarlo sia stato il peso delle nostre aspettative, la paura insinuata in lui da quell'esperienza di pre-morte in Francia o, come ha sostenuto qualcuno, il logorarsi del delicato equilibrio tra la potenza dei suoi muscoli e la fragilità dei suoi tessuti. Quello che, anche prima di quegli infortuni, diceva il campo era che – pur restando un giocatore fantastico e spesso decisivo – la naturalezza e la velocità di esecuzione che aveva mostrato fino a quel 12 luglio, dopo non gli appartenevano ormai più.

È forse una cosa crudele o azzardata da scrivere ma a volte penso che quei due infortuni terribili gli abbiano fornito un modo di giustificare ufficialmente al mondo la versione normalizzata di se stesso uscita dal Mondiale francese.

UN PARAGRAFO DI BRIAN PHILLIPS

Rispetto alle folgoranti premesse poste nei suoi primi quattro anni "europei", è facile cadere nella tentazione di giudicare le cose accadute a Ronaldo in seguito – i problemi di peso, le vicende private, la comparsa di un omonimo portoghese eccezionalmente forte e molto meno fragile che gli ha "scippato" metà del nome – utilizzando le categorie della delusione, o ancora peggio della farsa.

La verità è che la carriera di Ronaldo, anche se non sarà ricordata come la più grande di sempre, è stata comunque straordinaria sotto ogni aspetto, compresa la determinazione con cui ha superato incidenti che avrebbero indotto parecchi altri a lasciare il professionismo. E se esiste della delusione è solo nei nostri occhi ed esiste soltanto rispetto ad aspettative erette su proiezioni che non avevano nulla di razionale. Sono abbastanza certo del fatto che, in fondo, a Ronaldo per primo non dispiaccia poi molto di non essere diventato il miglior giocatore di tutti i tempi, anche se, ugualmente, sono sicuro che lui per primo sappia benissimo che aveva tutte le carte in regola per riuscirci. Semplicemente a un certo punto la sua vita ha preso una forma diversa.

Pochi giorni dopo l'ufficialità del ritiro di Ronaldo, Brian Phillips ha scritto su Slate: «You can either stay alive to what's wonderful about sports or give up and admit you see players as oil wells. Ronaldo isn't a quantifiable reserve of potentials that was never efficiently tapped or a set of character traits that never reliably pumped out his natural talent. He's a person, the interface of whose personality with the world produced some breathtaking moments in a game».

«LA VIRGULE»

Se Ronaldo è stato il calciatore che ho amato di più per un breve intenso periodo, Zinédine Zidane è stato quello che ho ammirato di più e più a lungo; nonché l'unico del decennio 1995-2005 che possa stare nella stessa conversazione con il brasiliano.

Su YouTube c'è un video che ogni tanto mi piace ripescare. Mostra Zidane ai bordi di un campo da tennis insieme a Dugarry che, se non ricordo male, qualche anno fa conduceva un programma televisivo in Francia. I due evidentemente hanno appena finito una partita e ora stanno chiacchierando di fronte alle telecamere del programma di Dugarry, che a un certo punto domanda a Zidane quale sia stata la giocata più incredibile che ricordi di aver mai visto.

Senza un attimo di esitazione, Zidane risponde così: «Ah! Ronaldò».

Con l'accento sulla o, ovviamente.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura