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Gian Marco Porcellini

Quando Fernando Torres era Fernando Torres

Ovvero gli anni al Liverpool.

Venerdì 20 marzo Fernando Torres ha compiuto 36 anni, il primo compleanno da ex calciatore. L’attaccante spagnolo si è ritirato lo scorso 23 agosto, senza neanche attendere la fine della stagione di J1 League, la massima serie giapponese dove per 6 mesi ha vestito la maglia del Sagan Tosu. Un addio lontano dalla luci della ribalta e senza troppi rimpianti, almeno nel momento del ritiro, quando avevamo smesso di aspettarci qualcosa dal “Niño”.

 

I rimpianti, semmai, appartengono al passato, quando la sua parabola, una decina di anni fa, aveva imboccato una curva discendente nel momento più inaspettato. Un calo motivato da un insieme di fattori fisici (i primi stiramenti al bicipite femorale della gamba destra, seguiti da due interventi di pulizia alla cartilagine del ginocchio l’annata successiva), ambientali (il trasferimento dal Liverpool al Chelsea nell’inverno del 2011) e probabilmente psicologici.

 

La seconda parte della sua carriera ne ha sporcato la percezione, almeno rispetto a quando Torres giocava nel Liverpool ed era considerato uno dei due-tre migliori centravanti al mondo. Il suo prime, alla fine, è durato solo qualche stagione. Un tempo comunque sufficiente per imprimersi come una figura fortissima nell’immaginario calcistico della seconda metà degli anni ’00.

 

Quando Fernando Torres si era trasferito dall’Atletico Madrid al Liverpool nell’estate del 2007, era costato 26,5 milioni di euro più il cartellino di Luis Garcia. Era l’acquisto più costoso della storia dei “reds”. In Inghilterra al tempo filtrava un po’ di scetticismo su quest’operazione: venivano riconosciute le sue qualità, ma venivano sottolineati pure gli “errori incredibili”. Daniele Manusia, in un articolo del 2013 pubblicato su Vice, ricordava come nelle ultime due stagioni all’Atletico non fosse mai andato oltre i 13 gol e come non fosse mai riuscito a portare la sua squadra nelle coppe europee. I dubbi parevano leciti, anche perché “el Niño”  – soprannome affibiatogli per la precocità del suo talento e per i lineamenti da bambino – stava abbandonando la propria comfort zone, il club in cui era cresciuto, per i vice campioni d’Europa.

 

«Sono stato sorpreso da quanto le cose siano andate subito bene, specialmente il primo anno, che mi aspettavo di transizione» ha ammesso Torres in un’intervista a Four Four Two del 2010 «ma quando ho segnato contro il Chelsea ho capito».

 

Il momento in cui dice di aver capito tutto.

 

Alla seconda giornata della Premier League 2007/08, contro i “blues”, Torres va in rete dopo 16 minuti, la prima con la nuova maglia: sugli sviluppi di un rinvio di Cech, Xabi Alonso con un colpo di testa scavalca il centrocampo del Chelsea e imbecca Gerrard, che con un lancio di controbalzo con l’esterno premia il movimento del numero 9 nello spazio tra il centrale di destra, Ben Haim e il terzino, in quella partita Essien. Torres riceve all’altezza dell’area, spostato verso il lato sinistro e viene fronteggiato dal difensore israeliano, che gli chiude il centro. Dopo il primo controllo con l’esterno piede, che gli permette di guardare la porta, lo spagnolo rallenta la corsa per una frazione di secondo, per poi riaccelerare buttandosi la palla avanti con il collo interno.

 

Grazie all’azione forse più banale, un semplice tocco in avanti, pur scoprendo la palla, brucia l’avversario, sorpreso perché magari si aspettava che Torres avrebbe provato ad attaccarlo sul suo lato sinistro. “El Niño” lo supera e ha pure il tempo per girarsi e calciare con il suo piede forte, il destro, e battere Cech grazie a una conclusione millimetrica sul secondo palo.

 

Sembra quasi che il video sia montato su due velocità differenti, una sensazione che si proverà per tutto il 2007/08. Perché a dispetto delle perplessità iniziali, Fernando Torres disputerà la sua miglior stagione di sempre: in quell’annata assume la forma di un elegante cavallo lanciato in velocità, che supera gli avversari semplicemente scansandoli, senza neanche aver bisogno di schivarli, senza mai perdere slancio nella corsa.

 

Un centravanti diretto in un campionato diretto

Il suo impatto con la Premier League è paragonabile, fatte le debite proporzioni, a quello di Ronaldo con la maglia dell’Inter: Torres esegue la giocata più semplice, che nel suo caso coincide anche con quella più efficace, cioè ricevere palla e puntare la porta. Non importa la situazione o la posizione, in quella stagione, in cui viene sostenuto da una condizione atletica aurea (che purtroppo non lo accompagnerà più nel resto della carriera), il suo obiettivo rimane sempre lo stesso: provare a superare tutti gli ostacoli che si frappongono tra sé e il portiere.

 

In alternativa Torres si allarga per liberare uno spazio al centro per i compagni. Qui per esempio Babel entra dentro il campo, lo spagnolo si inverte con Kuyt, che converge, mentre Gerrard va a occupare il mezzo spazio di sinistra.

 

In questo senso Fernando Torres ha costituito un fenomeno difficile da decodificare per i difensori della Premier, oltre che un profilo antitetico rispetto ai canoni del centravanti della nostra era, inserito in una sfera sempre più collettiva e associativa del gioco. Certo, sa leggere l’azione e sa come muoversi in funzione dei compagni, attaccando gli spazi che si formano e creandone degli altri a sua volta, ma il suo contributo alla fase di possesso è limitato ai movimenti senza palla.

 

Non è il 9 che lega i reparti e permette di far progredire l’azione. Quando Torres riceve il pallone abbassa la testa, ingrana le marce e va in verticale, focalizzandosi sugli avversari più che sui compagni. Certo è un limite, perché on the ball pare avulso dal contesto, ma anche una risorsa per la squadra: perché Torres si è rivelato negli anni al Liverpool, soprattutto il primo, un talento autosufficiente, in grado di mettersi in proprio per segnare, con un’azione palla al piede o un tiro dalla distanza.

 

Al suo debutto in Premier League il suo strapotere fisico è tale, sia in accelerazione che in progressione, da ridicolizzare i difensori, inermi di fronte alle sue conduzioni. Il suo stile è terribilmente diretto, non fa dell’elusione o delle controfinte particolari la sua arma nell’uno contro uno, a parte la finta “a manico d’ombrello”, con cui si porta la sfera dal destro al mancino facendo perno sulla gamba sinistra per crearsi uno spazio in cui correre, o qualche doppio passo/balzello abbozzato sul posto.

 

Solo nella seconda parte della carriera, quando non poteva più appoggiarsi su quella brillantezza atletica, il suo repertorio di dribbling si è fatto più profondo e raffinato. Anche più efficace: nel 2009/10 (la penultima stagione al Liverpool, la prima di cui Whoscored fornisce i deep data) ne ha completati solo 1,7 su 5,65, nell’ultimo anno all’Atletico Madrid, il 2017/18, è arrivato al 50% di conversione (1,6 su 3,2 tentativi).

 

Contro il Manchester City completa un dribbling su Dunne di pura prepotenza, non elabora neppure uno schema motorio per nascondere le proprie intenzioni. Certo, Dunne non era il massimo della mobilità e il dominio atletico di Torres in quegli anni spicca anche grazie ai difensori macchinosi della Premier League dell’epoca.

 

«Mi sono sentito subito a mio agio» ha spiegato Torres relativamente al suo ambientamento in Premier. «Mi sono reso conto di essere parte di una squadra ben organizzata, ho subito visto che lo stile del calcio inglese si adattava a me e che mi sarei potuto procurare molte occasioni. Le mie qualità si adattano meglio al calcio inglese: è più veloce e dinamico (…) sembra fatto per me. È molto più diretto, c’è meno costruzione. In Spagna è più lento, ci sono più tocchi prima che la palla arrivi nell’area avversaria, in Inghilterra è tutto potenza e ritmo».

 

Nonostante insomma Torres sia nato e cresciuto in Spagna, e che sia in fondo un’icona spagnola (i video delle sue compilation sono spesso accompagnati dal flamenco), il suo stile di gioco era perfetto per i ribaltamenti continui, gli spazi che si aprono e il battere e levare del calcio inglese.

 

Torres nel Liverpool di Benitez: un pesce nell’acqua

Oltre a essere arrivato in un campionato più congeniale alle sue caratteristiche, Torres ha trovato un contesto capace di esaltarlo. Il Liverpool di Benitez era una squadra reattiva, più efficace in contropiede che su attacco posizionale, che quando recuperava palla e trovava l’avversario disordinato, sapeva di poter cercare subito la profondità, vista la qualità di giocatori come Torres e Kuyt nell’attaccare gli spazi.

 

Il 4-2-3-1 di Benitez insisteva molto sul gioco lungo e sui cambi di lato da una fascia all’altra con cui muovere in orizzontale il blocco avversario. La palla esce spesso dai terzini (a destra uno tra Arbeloa, Finnan o Carragher, a sinistra Fabio Aurelio o in alternativa Riise), che tentano di servire uno dei due esterni alti, quello sulla stessa fascia con un’imbucata nello spazio, quello sul lato debole invece con un lancio sulla figura. L’ala a quel punto decide se entrare dentro al campo o scaricare su un centrale di centrocampo (Xabi Alonso, Mascherano o Gerrard), che a sua volta verticalizza su un attaccante o un esterno che si accentra, oppure allarga nuovamente il gioco.

 

Semifinale di CL contro il Chelsea, qui Carragher esegue un classico cambio di gioco. Da notare la posizione più interna di Kuyt, che a possesso consolidato si accentra.

 

Benitez aveva cucito la squadra sulle caratteristiche del suo centravanti, a cui non chiedeva di rifinire il gioco o aiutare la squadra a prendere campo, ma lo sfruttava esclusivamente per le sue doti da finalizzatore. Del resto Torres non era uno di quei giocatori che aveva bisogno di essere coinvolto nello sviluppo del gioco per rimanere dentro la partita (nei 3 anni e mezzo al Liverpool ha fatto registrare una media di appena 17,19 passaggi tentati), prendere confidenza con i compagni e studiare l’avversario: Torres era un attaccante che viveva di giocate isolate, capace di accendersi con la facilità di un fiammifero pure in quelle gare in cui non appariva ispirato. Il suo è uno stile estremamente diretto, il margine di errore molto alto e non è raro quindi vedergli perdere tanti palloni. «È vitale il modo in cui ti posizioni tra i due centrali difensivi, ti concentri sulla loro posizione e valuti i loro movimenti. Una delle cose che ho imparato con Rafa è come giocare più vicino nell’area avversaria e come inserirmi alle spalle dei difensori da centravanti unico. Non devo indietreggiare e cercare la palla, fisso la mia posizione sui centrali più che sulla palla».

 

Torres galleggia qualche metro al di qua della linea difensiva, al massimo partecipa alla costruzione della manovra con una sponda di prima, che eventualmente può sfruttare per chiamare il triangolo. Quando però realizza che non ci sono i presupposti per attaccare la profondità, si apre in fascia con un movimento a “L” (prima si allarga, poi va in verticale), in modo da portare fuori posizione il marcatore e puntarlo in uno spazio più ampio. In queste situazioni emerge ancora più chiaramente la carenza del suo talento a livello associativo, viziata forse da un’eccessiva sicurezza nei propri mezzi.

 

Nella prima parte della sua carriera sembra che viva questo sport come un costante uno contro uno, anche a 30-40 metri dalla porta: Torres si isola col difensore e se lo salta ne punta un altro, fino ad arrivare al tiro o a perdere palla, come se non esistessero alternative. Passa la sfera solo come extrema ratio e difficilmente si trasforma in una giocata utile, a meno che non si trovi nelle condizioni di tirare e vede un compagno meglio posizionato, che prova a servire forzando il passaggio, magari un filtrante. Ma a volte commette degli errori così grossolani che non è chiaro se siano dettati dall’imprecisione o da un decision making scadente.

 

Alcuni errori di quella stagione: nelle prime due situazioni sbaglia (e non di poco) la misura del passaggio, nell’ultimo ignora la presenza di Cambiasso, che intercetta il suo scarico per Gerrard.

 

Decentrandosi con una certa continuità, è facile che si ritrovi a puntare un difensore (il centrale che l’ha seguito o il terzino), andare sul fondo e crossare. Pure qui, i traversoni sembrano una soluzione determinata dalla necessità di liberarsi della palla perché è arrivato in prossimità della riga di fondo, più che dalla possibilità di servire un compagno generando un vantaggio posizionale. Anche perché a volte pare che neanche controlli il piazzamento dei compagni in area. Quando invece riesce ad avere un approccio meno irruente e ha il tempo di analizzare il contesto, ecco che si trasforma in un valore aggiunto pure da rifinitore. Questa tendenza a finire in fascia e crossare rappresenta un altro punto di rottura rispetto ad attaccanti più classici, che si muovono principalmente lungo l’asse verticale del campo e quando svuotano l’area favoriscono la progressione dell’azione con un’apertura sul lato cieco o un’imbucata per un compagno che si era inserito nello spazio da lui liberato.

 

La connessione con Gerrard

Con Gerrard ha formato una delle coppie più iconiche degli ultimi 15 anni. «Era la prima volta che ho capito che mi serviva qualcosa per completare il mio gioco e Gerrard aveva tutto ciò di cui avevo bisogno. Io dovevo soltanto correre. Quando vedevo che la palla stava per finire sui suoi piedi, io iniziavo a correre perché sapevo che avrebbe visto il movimento. Era così facile, mi sono davvero divertito in quel periodo. Mi manca molto». Nel rettangolo verde si è dimostrata una relazione soprattutto monodirezionale, nel senso che la maggior parte delle volte è stato l’inglese a imbeccare la punta: 13 gli assist di Stevie G per l’attaccante, contro gli 8 dell’iberico nei tre anni e mezzo insieme.

 

In quel periodo Gerrard era stato avanzato sulla trequarti, ma rimaneva un centrocampista box-to-box coinvolto in tutte le fasi del gioco, capace oltretutto di totalizzare tra il 2007 e il gennaio 2011 qualcosa come 65 reti e 49 assist. In certi momenti della partita l’inglese si avvicina molto al Niño, ma la loro intesa si fa più tangibile quando si allontanano, ovvero quando l’ex Atletico detta il passaggio buttandosi negli spazi. Una connessione ammantata quasi da contorni mistici, vista l’abilità nel cercarsi e trovarsi tagliando un’intera linea di pressione.

 

Una delle loro azioni più belle, risalente al match contro il Newcastle. Una triangolazione di altissimo livello chiusa da una finta di corpo dello spagnolo, che manda a vuoto il portiere prima di segnare a porta vuota. “Pagherei per giocare di nuovo con Gerrard”, ha detto in un’intervista di 3 anni fa.

 

I limiti nella gestione palla da parte del “Niño” sono inversamente proporzionali alla qualità delle sue letture senza palla, che gli ha permesso di anticipare le traiettorie del pallone e guadagnare quindi un tempo di gioco sui difensori. Nella prima parte della carriera è stato uno scattista instancabile, sempre pronto a proporsi in profondità, ma con cognizione di causa. Quando attacca lo spazio predilige il lato destro, perché gli consente di portare palla con il suo piede forte, il destro appunto, frapponendo il corpo tra sé e l’avversario. La bontà dei suoi smarcamenti la si può apprezzare anche sui cross, situazione in cui eccelle nello staccarsi dal marcatore, sfilargli alle spalle e aggredire il secondo palo, o in alternativa attaccare l’area in diagonale e terminare la propria corsa sul primo palo.

 

Nella partita contro il Chelsea del 2009, risolta da una doppietta di Torres, si possono apprezzare lo smarcamento unita alla sua capacità analitica. Nel primo screen FT9 si trova tra il dischetto e l’area piccola, ma nel momento in cui Fabio Aurelio fa partire il traversone, legge in anticipo rispetto ai difensori la traiettoria del pallone. Si stacca dunque dalla marcatura di Terry (seconda immagine) per attaccare il lato corto dell’area piccola, bruciando Alex (terza slide) e girando di testa sul primo palo nonostante sia rivolto con il corpo verso la bandierina. 

 

Se ripercorrete la carrellata dei suoi gol, 293 in totale, di cui 81 col Liverpool, ne trovate di tutti i tipi: tiri da fuori area, deviazioni a un tocco a chiudere un’azione collettiva, prodezze balistiche, di testa, spunti individuali in cui si costruisce lo spazio per la conclusione dribblando un difensore o attaccando lo spazio oltre la linea difensiva. Le sue corse spesso terminano in un uno contro uno con il portiere, che ha sempre preferito saltare piuttosto che calciare anticipandone l’uscita. Tante reti di altissima fattura, ma non dei gesti al di sopra delle proprie possibilità. Perché per un gol se ne scopre sempre un altro simile.

 

Fa eccezione questo destro arcuato sul palo lungo, un pezzo unico nel suo campionario.

 

Forza selvaggia

Aver visto all’infinito le sue compilation mi ha portato forse a idealizzare le sue qualità. Torres per me è stato un modello di eleganza e infallibilità. In realtà, con un occhio più oggettivo, non è sempre stato lucido sotto porta, condizionato da una frenesia che lo portava a perdere goffamente la palla o ad arrivare scoordinato all’impatto. Ma Torres rimane comunque un attaccante estremamente tecnico, praticamente ambidestro. Sa risolvere situazioni statiche con dei guizzi personali, ma soprattutto si esalta in situazioni dinamiche, in cui fa pesare un dinamismo e una propriocezione notevole, grazie a cui compie torsioni incredibili con il corpo senza neanche aver bisogno di vedere la porta, o riesce a tirare nonostante l’equilibrio precario.

 

Il più bel gol della carriera?

 

Torres è stato un giocatore pulito, che non si muoveva in quelle zone grigie del regolamento fatte di spinte e trattenute, al contrario andava a terra con una certa facilità, enfatizzando i tanti falli subiti (nel campionato 2009/10 è stato il 15° per falli subiti 2,6 p90’). Eppure nel 2009 dichiarava di amare l’agonismo del calcio inglese: «Mi piace il gioco fisico, il contatto e non capisco perché il calcio non debba essere così. Non è solo toccare la palla e infilare 50 passaggi consecutivi. Devi combattere e a volte è come una guerra».

 

C’era qualcosa però di Torres che andava oltre la somma delle sue qualità. Fernando Torres, al suo apice, è stato un’autentica forza della natura, nell’accezione più selvaggia del termine. Nel 2007/08 realizzerà 33 reti, di cui 24 in campionato – nessun giocatore straniero al debutto in PL ha mai segnato così tanto – e a fine anno conquisterà l’europeo con la Spagna, classificandosi al terzo posto nella classifica del Pallone d’Oro. Torres in quel momento valeva i migliori del suo ruolo, come Eto’o, Drogba e Ibrahimovic. Era ovviamente l’idolo di Anfield Road, che gli ha dedicato un coro utilizzato pure dalla Nike in una delle sue pubblicità da lanciare sul mercato spagnolo.

 

Dall’anno successivo però iniziano a fioccare i primi problemi fisici che ne rallentano l’ascesa. «Fu una vera e propria mazzata» ha confessato nella sua autobiografia pubblicata nel 2009. «La prima volta che ti succede pensi che sia una cosa normale, e vai avanti. La seconda volta ti fermi, ti prendi più cura di te stesso, ed inizi a domandarti cosa stia succedendo. La terza ti blocchi; inizi a pensare che ci siano cause sottovalutate e lavori in maniera estenuante per assicurarti che non ti capiti ancora. Era ancora più importante nel mio caso perché era il mio flessore che mi stava causando tutti quei problemi: il muscolo per il quale vivevo, quello che ti dona accelerazione e velocità».

 

Gli infortuni ne hanno intaccato l’esplosività, in particolare sulle distanze medio-lunghe, ed è come se senza quella brillantezza atletica tutto il suo talento si fosse bruscamente ridimensionato.

 

Torres, poi, ha incontrato comprensibili difficoltà tecniche e mentali a ripensare il proprio calcio. Il paradosso della sua carriera è che negli anni del declino vincerà tanto: il mondiale del 2010, l’europeo del 2012, una FA Cup, una Champions League e due Europa League. Eppure non è mai stato protagonista delle sue squadre.

 

Quando si è trasferito al Chelsea Torres aveva appena 27 anni ma il meglio era già alle spalle; nei successivi 8 anni di carriera – con i “Blues”, col Milan, con l’Atletico Madrid – abbiamo aspettato che il miglior Torres tornasse, rivedendolo solo in brevissimi, fugaci momenti in cui si è materializzato come i fantasmi dei morti nella notte.

 

Nell’Europa League del 2013 ha segnato il gol dell’1-0 nella finale contro il Benfica; l’anno prima aveva realizzato il gol decisivo per eliminare il Barcellona di Guardiola, con un gol all’ultimo minuto correndo libero nella metà campo avversaria, saltando il portiere, depositando nella porta vuota. Bisogna riguardare bene quel gol perché nel saltello laterale con cui evita l’intervento disperato di Victor Valdes, rifiutando il calcio di rigore, c’è l’eleganza e la forza del giocatore che è stato.

 

 

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Gian Marco Porcellini è nato nel 1990 e vive in provincia di Rimini. Ha collaborato con la redazione sportiva de “Il Corriere Romagna” e sogna vanamente di vedere un giorno il Rimini in Serie A.