Nel 1979 l’attore inglese Peter Sellers gira il suo penultimo film. In Oltre il giardino, Sellers interpreta Chance, un uomo anziano che non ha mai lasciato la villa in cui è cresciuto. Cura le piante e i fiori del giardino e il suo unico contatto con il mondo esterno è la televisione. La morte del proprietario della villa sarebbe un disastro per Chance, se non fosse per una serie di circostanze fortunate che lo portano in un’altra villa, ospite di una famiglia anche più ricca e influente della prima.
Chance è completamente sconnesso dalla realtà, privato del suo mestiere che, con la TV, era una delle poche cose che riuscivano a tenerlo ancorato al mondo. Eppure nessuna delle persone che incontra si rende conto del suo disagio. Chiusi in una visione solipsistica del mondo, gli altri non fanno altro che cercare nel prossimo uno specchio di sé stessi, una conferma alle proprie paure. Dalle bestialità che Chance dice continuamente ognuno trae una lezione per sé, perché sente solo la parte di verità che è disposto ad ascoltare. Nel finale del film, il comitato di potere che dietro le quinte dirige l’America pensa addirittura di candidare Chance alla Presidenza degli Stati Uniti. È talmente fitto il mistero che circonda il suo passato e le sue azioni nel presente, che finisce per essere temuto anche dagli uomini più potenti del paese.
All'inizio del 2019, Mattia Binotto è nominato Team Principal della Scuderia Ferrari. Binotto è a Maranello dal 1997 con vari ruoli. In questo lasso di tempo, la Ferrari conosce vittorie indimenticabili e sconfitte amarissime. Si susseguono i cicli tecnici e le epopee di piloti. Passa il ciclo di Michael Schumacher, che riempie le bacheche di Maranello dopo un’astinenza di ventun anni. Quando s’intuisce che Kimi Raikkonen può essere la next big thing della Formula 1, Schumacher è quasi spinto verso la pensione. Nel 2007 Raikkonen vince subito un Mondiale in rosso, ma è anche il suo unico, e l’ultimo Mondiale conquistato dalla Ferrari. Negli anni successivi tocca a due campioni del mondo, Fernando Alonso e Sebastian Vettel, tentare di riportare il titolo, ma per sfortuna o inferiorità tecnica l’impresa non riesce.
Ogni volta che la dirigenza della Ferrari ha impresso un cambio di direzione ci sono state epurazioni nel team. Cambi spesso dettati dalla pancia, in uno sport ipertecnico e cervellotico come la Formula 1. Mentre a destra e a sinistra cadevano teste, Binotto aveva un nuovo avanzamento di carriera. Da analista nella squadra B addetta ai test a Team Principal, tutto in meno di vent’anni. Lungo il percorso uno dei suoi mentori è stato Sergio Marchionne, l’amministratore delegato del gruppo FIAT. Marchionne ha visto in Binotto un ottimo tecnico e ha deciso di affidargli prima la responsabilità del reparto motori, poi dell’intera direzione tecnica. Qualcun altro deve aver visto in Binotto anche un buon manager, e quando è stato messo alla porta Maurizio Arrivabene a fine 2018, lo ha messo a capo di tutta la Gestione Sportiva.
Binotto si pone verso la stampa subito come il paravento del suo gruppo di lavoro. Con un atteggiamento alla Mourinho, attira le critiche su di sé per lasciare in pace gli uomini alle sue spalle. Qualcosa però non deve aver funzionato se dopo tre anni si ritrova tra le mani una scuderia in pezzi.
Da settimane i piloti della Rossa si misurano più con le dichiarazioni rilasciate alla stampa che in pista. Charles Leclerc è arrivato a contraddire la proprietà torinese, dicendo che l’obiettivo di vincere un Mondiale nel 2026, posto da John Elkann in persona, non è sufficiente per le sue ambizioni. Carlos Sainz sottolinea ogni volta che può come in Ferrari non ci siano gerarchie e che può ambire al titolo tanto quanto il suo compagno di scuderia. Tra i due la scintilla non è scattata e entrambi sentono di avere le spalle forti. Leclerc ha dalla sua la famiglia Todt, padre manager di lungo corso e figlio procuratore sportivo, che in Ferrari muovono ancora i fili. Sainz probabilmente vede nel main sponsor spagnolo, la banca Santander, una garanzia. Sullo sfondo la Formula 1 è in continuo movimento: c’è un posto in Mercedes che Hamilton, per sopraggiunti limiti di età, prima o poi sarà costretto a liberare; c’è l’ingresso in Formula 1 di Audi, che potrebbe sparigliare le carte dal 2026 con investimenti finanziari forti. Il contratto di Leclerc scade a fine 2024, così come quello di Sainz, ed entrambi vogliono certezze prima di legarsi alla Rossa.
Il rapporto tra Binotto e Leclerc non era in rotta, come molti giornali hanno riportato, ma di certo era in stallo. Il dito in faccia a Leclerc, catechizzato come uno studentello sotto al podio del Gran Premio di Silverstone, non è piaciuto a nessuno. Il disastro degli ultimi anni è sportivo ma anche comunicativo. In una Formula 1 che si apre a un pubblico sempre più diversificato, con le scuderie che pubblicano sui canali social i briefing tra ingegneri e piloti, o condividono i dati delle analisi interne, la Ferrari di Binotto si è chiusa a riccio. Forse, più di ogni cosa, Binotto è stato danneggiato dal silenzio stampa punitivo nei confronti del broadcaster che aveva osato criticare alcune scelte nella condotta di gara. Un sintomo lampante di un’incapacità di analisi cronica, anche solo dialettica.
Binotto ha cambiato gli obiettivi di settimana in settimana, senza capire che la comunicazione data all’esterno penetrava anche nella squadra. Le ambizioni inseguivano i risultati. Solo quest’anno si è passati da «ci siamo per il Mondiale» a «vogliamo dar fastidio a Red Bull». La Ferrari però si è presentata in scarsissima forma dopo l’estate. Una macchina che aveva nei suoi punti di forza la guidabilità e la reattività nei tratti lenti, si è ritrovata improvvisamente inefficace in uscita di curva. I media hanno puntato il dito contro la Direttiva Tecnica 039, l’unico cambio regolamentare entrato in vigore in quel periodo, che obbligava i team a un irrigidimento del fondo e più in generale degli assetti. La Ferrari all’improvviso si è ritrovata a essere poco aggressiva in ingresso curva, scomposta quando scendeva dai cordoli in uscita. Quando è stato interrogato sulle cause di questo cambiamento, Binotto ha negato che potesse entrarci la DT039: «Non è la direttiva in sé che ci sta mettendo in difficoltà». Se non è stato un cambio regolamentare, è stato il cattivo lavoro del team che si occupa degli aggiornamenti al pacchetto dell'auto. O l’una o l’altra cosa. Binotto non chiarisce, temporeggia e, quando è il caso, mente.
E intanto la Red Bull, che nella prima parte del campionato sembrava in difficoltà, nella seconda parte ha fatto piazza pulita di ogni vittoria. Le capacità di reazione delle altre scuderie sono straordinarie. Il 2022 di Mercedes sembrava il 2020 della Ferrari per com’era iniziato. Una macchina inguidabile, che non rispondeva alle modifiche, imprevedibile in tutto e per tutto. Con un’auto come questa, a Mercedes è bastato meno di un anno di lavoro per andare a vincere il Gran Premio del Brasile con George Russell e a insidiare il secondo posto della Ferrari in campionato. Queste capacità la Ferrari non le ha avute con Binotto, non si sono viste nella gestione di Arrivabene, e nemmeno in quella ancora precedente di Stefano Domenicali. Negli anni in cui la fabbrica ha consegnato alla Squadra Corse un’auto competitiva, in qualche modo non si sono riusciti a fare passi in avanti in corso di stagione.
Due sono stati i capisaldi dei primi cento giorni del Governo Binotto. In primo luogo, la sbandierata italianità del team, che lo stesso Marchionne aveva a cuore. Ovvero la possibilità di avere nei ruoli chiave ingegneri italiani, cresciuti nei quadri aziendali del Cavallino e finalmente pronti a prendersi il carico di una responsabilità superiore. Binotto ha poi detto che bisognava mettere mano alla governance della Gestione Sportiva. L’organigramma secondo cui erano divisi ruoli e compiti aveva troppe sovrapposizioni ed era difficile stabilire le responsabilità di ciascun gruppo di lavoro. Il progetto di una Formula 1 è un affare complesso, le diverse parti – meccanica, aerodinamica, trasmissione, motore – devono essere sviluppate singolarmente ma poi integrate insieme. Una scelta in un’area crea degli scompensi altrove, sempre.
Queste due aree di intervento sono più strettamente connesse di quanto si pensi. L’italianità dei tecnici è l’unica strada a disposizione quando sul mercato non si è capaci di assicurarsi i talenti migliori. E gli ingegneri, soprattutto quelli che hanno lavorato con aziende britanniche, difficilmente si spostano lì dove la governance – il chi fa cosa – non è chiara. Vincere aiuta a vincere, è un vecchio adagio che si applica a ogni sport. Nell’ultimo ciclo vincente, a Maranello c'erano tecnici che avevano già conquistato titoli altrove, in Formula 1 o in altre categorie motoristiche. In un sport così complesso, il reclutamento del personale può diventare un fattore cruciale verso la vittoria.
Gli errori strategici alla fine di quest’anno non si contano. Per le scelte intempestive o completamente errate si è puntato il dito ancora contro l’organigramma, le responsabilità in fatto di strategie non sono chiare, ci sono troppe sovrapposizioni. Ma Binotto non ci aveva messo mano qualche anno fa? Gli errori in certi casi sono stati così marchiani da essere visibili agli occhi di chi guardava un Gran Premio per la prima volta. Le scelte fatte non erano da top team, piuttosto da scuderia di seconda fascia che tenta la fortuna. Non è quindi solo questione di uomini, ma anche di mentalità. Si è detto che il pilota avrebbe dovuto essere più coinvolto, anzi che avrebbe dovuto fare la voce grossa alla radio durante la gara. Finché Leclerc ha sbottato: «Non si può vincere un campionato dall'auto con il 5% delle informazioni che invece detengono in totalità gli addetti alla strategia». A ciascuno il suo, la Formula 1 è pur sempre uno sport di squadra.
Binotto lascia con 7 vittorie in 82 Gran Premi, due secondi posti nel Mondiale Costruttori inframezzati dalla peggiore stagione della storia della Ferrari in Formula 1. L’ultima monoposto della sua gestione, la F1-75, la base posta per gli anni a venire, è una macchina con alcuni limiti aerodinamici e con un motore fragile. Al suo posto, pare, arriverà Frederic Vasseur, un Team Principal esperto, dal 2017 a capo della scuderia Alfa Romeo Sauber. Sperare di vincere i campionati solo cambiando l’allenatore è un’illusione tutta italiana. Vettel, intervistato da l’Équipe, lascia intendere che il problema del TP sia solo la punta dell’iceberg: «Ho idee su cosa potrebbe essere cambiato in Ferrari, ma le terrò per me. Ciò che si vede dall’esterno è solo un’interpretazione di ciò che sta realmente accadendo lì». Il prossimo Team Principal, tra le altre cose, dovrà rimettere mano alla Ferrari Driver Academy, il vivaio di piloti della Rossa. Binotto, dopo avergli promesso un sedile per il 2023, ha perduto il controllo di Mick Schumacher, uno dei pochissimi piloti prodotti dell’Academy. Un investimento pluriennale depauperato in pochi mesi. Cosa farà la Ferrari se dovesse perdere Charles Leclerc?
È improbabile che Binotto accetti un incarico da Direttore Tecnico a Maranello, la vivrebbe come una retrocessione. Ma chi altro in Formula 1 sarà disposto a vedere in lui un Team Principal vincente ancora una volta?